da Angelo Ruggeri
Riparliamo, per favore, di “imperialismo”. “Cosa c’è di più ‘imperialista’ di una ‘guerra preventiva’ ?”, ha chiesto a Blair il leader liberale inglese. Proprio in Inghilterra il termine, coniato in Francia per Napoleone III, entrò nell’uso comune, dal 1880, col espansionismo del governo Disraeli. E all’inglese Hobson, liberal-fabiano (da Quinto Fabio il temporeggiatore), Lenin si riferì quando storicizzò l’“imperialismo”, come “fase” suprema del capitalismo monopolistico.
La fase del “secolo lungo” (non “il secolo breve” che mistifica il libro di Hobsbawm, che in inglese è “il secolo degli estremi”), iniziato con le lotte di fine ‘800 per la spartizione delle risorse mondiali (da cui 2 guerre mondiali e la Rivoluzione d’Ottobre del ‘900), arrivata per successive acquisizioni alla c.d. “globalizzazione”. Che non è un “nuovo capitalismo”, diverso da quello di Marx, come mistifica la “sinistra di sistema” di piazza o di governo che l’ha abiurato. Tanto che nel 97, il “New Yorker” proclamò Marx “prossimo grande pensatore” del millennio. Un genio, per i capitalisti, della “globalizzazione” che Marx affrontò già nel 1848, nel più famoso “Manifesto” politico di tutti i tempi: la spinta espansiva insita nell’accumulazione capitalistica la porta a creare “ un mondo a propria immagine e somiglianza”.
Fase dell’età contemporanea, diversa dal colonialismo dell’età moderna perché la frattura dialettica tra capitalismo e le forze antagonistiche che tendono a rovesciarlo, diventa potenzialmente eguale in tutto il mondo, proprio per la progressiva “globalizzazione”.
Da cui risulta potenziato lo sviluppo della teoria dell’imperialismo, la sola delle 3 principali teorie dei rapporti internazionali – la “realista”(nazionalista), a cui si riferisce Kissinger per intendersi; la “pluralista” (liberale); la “marxista” – nella cui ultima tappa (fine anni 60), coglie persino “l’internazionalizzazione del modo di produzione”. Con imprese transnazionali a forte insediamento nazional-statale, che permette a trust e monopoli l’uso dello stato come committente (donde i kombinat politico-militar-industriale), e per politiche economico-commerciali e militari aggressive, verso paesi dipendenti e gruppi capitalistici stranieri. Connettendo così struttura e sovrastruttura, in merito confortando il pensiero gramsciano, e quello di Lenin con relazioni globali tra strutture che sono sia politico-statali, sia economico-mercantili”. A disdoro della scuola “realista”, che riconosce solo la conflittualità tra gli stati; e di quella “liberale” per la quale attori sono gli individui o le singole famiglie e aziende.
Non ha quindi senso parlare genericamente di sfruttamento capitalistico o di “dipendenza” da un Nord che drena la ricchezza. Ma che “terzomondisticamente” non spiega “come” si produce questa ricchezza. Perché sposta lo sfruttamento dai luoghi di produzione, che si potenzia anche al Sud, a quello tra Paesi.
Come non ha senso parlare di “sistema imperiale”: un ultra-imperialismo con cui Toni Negri, come il “rinnegato” Kautsky (contro cui è “L’Imperialismo” di Lenin), omogeneizza stati e capitalismi tutti.
Eppure. Nonostante l’aumento dell’intervento pubblico economico, e tante guerre (più le prossime) in 10 anni di “nuovo ordine”, che non sono indebolimento dello stato ma rilancio del suo uso imperialistico, prima indebolito da Stati “ex coloniali” e “socialisti”(la vera novità rispetto a Lenin), poco si parla d’imperialismo.
Non interessa la parola, ma la categoria d’analisi. Tutte le trasformazioni del capitalismo si spiegano solo nel contesto globale dei rapporti dialettici tra stati – proprio della scuola marxista -, in cui si globalizza le relazioni, ma si concentra e centralizza le produzioni: in “200 trust e monopoli che dominano il mondo” (“Le Monde diplomatique, n. 4, 97). Da ricondurre al processo di accumulazione capitalistica, vera causa anche della guerra. Contro cui, dai “noglobal” ai girotondini, ecc., si rischia un pacifismo imbelle, magari rifacendosi all’art.11 della C., che non è per un generico pacifismo, ma per la rimozione di una comune causa economico-sociale delle disuguaglianze di classe e delle guerre.
O di ridursi alla Tobin Tax, perché non si sa di formazione del capitale, plusvalore, sfruttamento del lavoro salariato, ecc., che porta a dire di certi movimenti, con Brecht: ”era nemico del loro nemico, è vero, ma c’era in lui una colpa che non ha perdono”(“L’abicì della guerra”). Per lo smarrimento della potenza teorica e pratica generato da chi, da “antisistema” e “per il socialismo” é diventato “sinistra di sistema” e “per il liberismo”.