Foto: Bologna 2-08-2014 34° anniversario strage alla stazione di Bologna_Stefano De Grandis-lapresse
Alla stazione di Bologna c’è un orologio fermo da trentacinque anni. L’orario segnato è quello in cui scoppiò l’ordigno piazzato da Valerio Fioravanti. Un lutto indelebile, con 85 morti e 218 feriti, che molti hanno dimenticato inseguendo la logica del sempre presente.
di Marcello Ravveduto
Ricordate come inizia “Il curioso caso di Benjamin Button”? Le lancette dell’orologio della stazione di New Orleans girano al contrario, scandendo la vita contromano di Benjamin Button, un uomo nato con il corpo di un vecchio e destinato a ringiovanire ogni giorno che passa. Ed è proprio in uno scalo ferroviario che ha inizio la storia di questo curioso personaggio, la straordinaria vita di un uomo che percorrerà a ritroso le fasi della sua esistenza sfidando la più elementare legge della natura. Siamo nel 1918, quando il treno con a bordo un ragazzo qualunque parte per un viaggio da cui non farà più ritorno, destinazione: il fronte della Grande Guerra. Un padre distrutto dal dolore della perdita deciderà di dedicare anima e corpo alla costruzione di un orologio alla rovescia, con la speranza che il movimento invertito delle lancette possa aiutare i tanti giovani caduti in guerra a ritornare.
La cerimonia di inaugurazione fa accorrere in stazione persone provenienti da tutta l’America, le quali, arrivate per assistere al grande evento, si ritroveranno con immenso stupore a contemplare le lancette del quadrante che iniziano a girare in senso antiorario. L’implicita metafora dell’anomalo scorrere del tempo riguarda tutti noi, o perlomeno quelli che, anche solo per una volta, hanno desiderato tornare indietro, ripercorrere il countdown delle ore che precedono i momenti e gli affetti perduti di cui è intessuta la vita di ognuno di noi. Spetterà a Benjamin Button, prima vecchio e poi giovane, incorporare la magia emanata dall’orologio, tramutato in macchina del tempo. Un viaggio immaginario ispirato a una frase di Mark Twain: «La vita sarebbe più felice se potessimo nascere a 80 anni e gradualmente giungere ai 18».
Anche nella storia che sto per raccontare c’è un orologio e una stazione ferroviaria. Un orologio, però, che non gira al contrario ma che è fermo da 35 anni sulle 10.25. Segna l’ora della strage del 2 agosto 1980, l’ultimo incubo della “strategia della tensione” che aveva macchiato di sangue il paese a partire dell’attentato del 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano. Quell’orologio è un monumento all’Italia civile, ammutolita di fronte alla violenza neofascista, che attraverso il moltiplicarsi delle esplosioni, diffondeva la paura al fine di eccitare l’autoritarismo dei gangli più reazionari dello Stato.
Ma come spesso accade, i monumenti non sempre sono rispettati per il loro valore simbolico. Quante statue, busti, targhe, steli sono state imbrattate, sfregiate o lasciate deperire a causa dell’incuria? L’orologio, anche per la sua collocazione, non ha mai subito danni materiali; malgrado ciò getta sangue, quello delle vittime, e lamenta sofferenza, quella dei familiari, ogni qual volta viene ferito dall’ignoranza degli italiani senza memoria.
Ho ascoltato con le mie orecchie, nelle varie occasioni in cui sono stato nella città delle due torri, alcuni giovani, con inflessioni dialettali diverse, osservare quell’oggetto come un qualsiasi pezzo di arredo urbano e poi esclamare, cacciando la voce dal profondo dell’ignoranza, frasi del tipo: «Ma quando l’aggiustano ‘sto orologio. Chissà da quanto tempo è rotto. Che vergogna!». Una volta non ho resistito e ho chiesto ad uno di loro: «Scusa, sei di Bologna?». Risposta: «No, perché?». Replico: «Lo sai perché è fermo?». Ulteriore risposta: «Perché in questa città fanno finta di essere efficienti ma in fondo sono italiani come tutti gli altri».
Le giovani generazioni hanno un grave deficit di conoscenza storica che si ripercuote sul senso di civico collettivo. Sono stati travolti dall’immanente, dalla furia del sempre presente che li tiene avvinti davanti ad uno schermo o con la testa bassa mentre gesticolano sul display dello smart-phone. E se provi a spiegargli che è necessario conoscere l’Italia che è alle nostre spalle, come marcia di avvicinamento al prossimo futuro, ti guardano straniti come se fossi un essere proveniente da un’altra Era. Per questo non sopporto la retorica dei giovani come risorsa del futuro. Questo è l’unico lascito del Sessantotto? Cosa vuol dire? Ci meritiamo una classe dirigente senza memoria? Chi non sa da dove viene non può decidere dove andare.
Siamo circondati dall’ignoranza. Un disconoscimento del passato che ha uno strano andamento: ogni anno si commemorano migliaia di vittime civili morte a causa della violenza politica e criminale sviluppatasi negli anni della Repubblica, ma se domandate ad un ragazzo cosa è accaduto il 2 agosto 1980, il 28 maggio 1974 o il 9 maggio 1978 non vi saprà rispondere. Ciò significa che la memoria è diventata uno strumento di propaganda, con uno sfacciato uso pubblico, invece di essere la radice intorno alla quale piantare l’aiuola della democrazia.
È tanto più grave questo fenomeno se pensiamo che la strage di Bologna è in stretta connessione con la contemporaneità. L’uomo di Mafia Capitale proviene direttamente da quel passato di violenza che lo ha formato e lo ha reso un “potente” criminale nel suo futuro, che è il nostro presente.
Er cecato era l’amico prediletto di Alessandro Alibrandi, figlio di un noto giudice della Capitale, di Franco Anselmi, ex missino e fondatore dei Nar, e di Valerio Fioravanti, condannato in via definitiva assieme alla sua compagna Francesca Mambro per la strage alla stazione di Bologna (85 morti e 218 feriti). Anche per “Giusva” era valsa la retorica del futuro: dopo il suo esordio sul grande schermo nel 1961, con un piccolo ruolo in “Boccaccio ’70”, l’apparizione in alcuni caroselli pubblicitari, la partecipazione allo sceneggiato televisivo “La fiera della vanità” e la popolarità raggiunta, con il ruolo di Andrea, nella serie televisiva “La famiglia Benvenuti”, tutti erano pronti a scommettere sulla brillante carriera d’attore che lo attendeva.
Una visione del futuro fallace perché priva della lettura del contesto in cui il Fioravanti si inserisce sin dall’adolescenza. L’unica cosa che lo aspetta è una valigia contenente ventitré chili di esplosivo da depositare alla stazione di Bologna nella sala d’attesa della seconda classe. Un atto ancora più vile se si pensa che quel luogo, a differenza della sala per la prima classe, è frequentato da gente comune che viaggia per necessità o per tornare a casa dopo un anno di lavoro o di studio fuori sede. Eccolo qui il giovane di belle speranze della media borghesia italiana, un criminale che schiaccia un pulsante senza conoscere l’orrore della morte. Un boia che ammazza decine di persone come se stesse interpretando l’eroe negativo di un B movie degli anni Settanta.
Il giudice che lo ha condannato, nel novembre 2014, ha definito l’attentato di una «Gravità senza pari», un «danno permanente». Un «evento… indelebile nella coscienza collettiva della nazione», perché con la strage l’Italia da un lato «appare agli occhi dei propri abitanti come incapace di proteggere la propria incolumità, nello svolgersi della loro vita quotidiana, in quanto vittima di individui e organizzazioni capaci di colpire dovunque e senza alcun preavviso»; dall’altro «viene vista come uno Stato in lutto, vulnerabile rispetto all’azione di gruppi estremisti, incapace di difendersi da quelli che sono dei veri e propri nemici interni».
Ciononostante, da un sondaggio realizzato lo scorso anno emerge che, tra le persone di passaggio alla stazione, sono poche quelle a conoscenza dei fatti accaduti il 2 agosto 1980. Il presente mediatizzato ha risucchiato il passato creando un vuoto di memoria. Certo, ci sono i familiari delle vittime a testimoniare con la loro vita gli effetti arrecati da un lutto difficile da elaborare, ma siamo sicuri che basti?
Forse quell’orologio, come quello della stazione di New Orleans, dovrebbe aiutarci ad andare indietro nel tempo e proiettarci virtualmente nel momento stesso della deflagrazione per costringere ogni passante ad imprimere nelle sua mente le immagini del dolore collettivo, per avere maggiore coscienza della memoria nazionale.
1 agosto 2015