Immaterialismo storico. A proposito di neosoggettivismo postoperaista
di Roberto Di Fede *
Le peculiarità intellettuali, la qualità delle competenze, l’appropriazione dei linguaggi, le funzioni relazionali, e tutto l’insieme delle virtù intellettuali al servizio dell’impresa flessibile costituiscono, per Christian Marazzi, la peculiarità posseduta dai soggetti linguistici postfordisti, in quanto forgiati dai modi della circolazione dei “saperi del postfordismo”. La categoria della produzione cosiddetta postfordista si definisce fondamentalmente per il suo carattere postmanifatturiero, ovvero produttore di beni “immateriali” attraverso una moltitudine di soggetti che rappresentano quella intellettualità sociale espressa prevalentemente dal lavoro indipendente. Egli fa l’apologia della scomparsa del lavoro produttivo di beni tangibili, a favore della centralità dei lavoratori della mente, delle macchine intelligenti che sostituiscono il lavoro umano, della diffusione dei servizi alla persona per un rinato filantropismo sociale, della risorgenza di autoimprenditorialità di lassalliana memoria, ecc., e queste trasformazioni si configurano esattamente per l’aspetto etereo ed evanescente della immaterialità di prestazione, bene prodotto e servizio erogato.
I soggetti linguistici del lavoro immateriale sarebbero in possesso delle loro facoltà comunicative perché cittadini appartenenti alla comunità relazionale “postfordista”, che hanno acquisito questa facoltà per lavorìo culturale passato, formato da conoscenza, emozioni; patrimonio etereo che va a formare il capitale costante immateriale di questo universo cibernetico postfordista; e quelle virtù comunicative presupposte “concorrono a definire la forza-lavoro prima di entrare direttamente nel processo di produzione e di valorizzazione del capitale” [Christian Marazzi, Produzione di merci a mezzo di linguaggio, in Stato e diritti nel postfordismo, manifestolibri, Roma 1996, p. 12].
Il capitale variabile di questo sistema sarebbe di natura relazionale-comunicativo e pure le macchine, il capitale fisso ed il denaro sarebbero anch’essi linguistici ed immateriali. Il lavoro postfordista, è, secondo questo autore, complesso e non omogeneo, rivolto alla risoluzione di problemi, e, soprattutto, produttore di valore per mezzo di informazione e comunità, secondo il paradigma del processo di accumulazione immateriale. Il fattore qualitativo della forza-lavoro della mente è quello di erogare un plusvalore comunicativo, che si sostanzia in una produzione di “pluscomunità relazionale”, a tal punto che esso “può aggiungere molto più valore di quello creato nella stessa unità di tempo da dieci lavoratori non qualificati” [ivi, p.15]. Inoltre, il valore di scambio contenuto nei beni materiali ed immateriali realizzati dal sistema di produzione postfordista non sarebbe più prodotto unicamente dal lavoro “eterogeneo e differenziato” in esso oggettivato, ma l'”astrazione del valore”, ovvero le quote di plusvalore misurabili, sarebbe sempre più codeterminata dal gradimento e dall’influenza emozionale originata dalla comunità dei cittadini consumatori verso un determinato prodotto. Questa modificazione ricentralizza il processo generale di produzione sulla funzione fondante del cittadino-consumatore [ivi, p.19].
Per fare fronte alla concorrenza intercapitalistica, le imprese agirebbero sia sul piano dell’innovazione del prodotto, attraverso vere e/o presunte diversificazione e sofisticazione dell’offerta, sia su quello di processo, mediante l’alleggerimento degli organici, lo snellimento organizzativo, il ricorso a terziarizzazione ed esternalizzazione di produzione e servizi; ma soprattutto intervenendo sulla “cooperazione sociale” che partecipa alla realizzaz ione dei beni immateriali. Nel post fordismo, il lavoro comunicativo relazionale, che totalizza la forma produttiva di questa era, erogato dalla nuova forma della cooperazione sociale del lavoratore immateriale, “contiene una dimensione servile … (e) non è correttamente riconosciuto”, non perché immediatamente non riconducibile alla forma produttiva o improduttiva, ma perché non sufficientemente retribuito [Christian Marazzi, Il posto dei calzini, Casagrande, 1994, pp.48-49].
L’alienazione del lavoro sarebbe quindi riferibile alla condizione retributiva e normativa non consone della prestazione, non alla sostanza della contraddizione tra capitale e lavoro, sostanziata nel saggio di sfruttamento; ma il capitale potrebbe ben retribuire e lo stato potrebbe elargire un soddisfacente “salario sociale” reale alla forza-lavoro ad essi sottomessa, ma la condizione di sfruttamento non cambierebbe. Questa trasformazione, che suppone la centralità della domanda, prevede che i padroni riorganizzino la cooperazione sociale prioritariamente sul lavoro comunicativo: si depotenziano quei segmenti del processo di produzione tradizionale connessi ad operazioni materiali determinate e a localizzazioni spaziali fisse, e si moltiplichino, invece, le funzioni più aleatorie del lavoro immateriale, dell’azione linguistica e dell’ottimizzazione di tempi e luoghi variabili, durante e dove quelle prestazioni evanescenti vengono erogate e le merci “consumate”. Il linguaggio verbale e non verbale, nell’era postfordista, è strumento di lavoro immediatamente produttivo di merci e di società civile, in cui utensili e parole, non sono più distinguibili tra loro, sia concettualmente che concretamente, e diviene “laboratorio di strategie produttive, come luogo in cui si lavora per ridefinire le procedure dell’innovazione e della valorizzazione del capitale” [Christian Marazzi, Il lavoro autonomo nella cooperazione comunicativa, in Il lavoro autonomo di seconda generazione, Feltrinelli, Milano 1997, p.66].
Per Marazzi, la comunità linguistica del lavoro autonomo sarebbe la “merce parlante” erogatrice di questo specialissimo lavoro vivo astratto, soggetto del “sapere generale” e agente della “cooperazione sociale”, che concorre alla produzione di valore trasmesso nei beni finali. La distinzione marxiana tra lavoro produttivo e improduttivo, dipenderebbe da un pretesto meramente politico e non economico, perché la valorizzazione delle merci che si manifesta attraverso la “qualità totale” postfordista, si attuerebbe in ogni fase del processo generale di produzione, e “non si ferma alla sola sfera della produzione di beni e servizi, ma comprende la sfera della distribuzione; della vendita-consumo, la sfera riproduttiva” [Christian Marazzi, Il posto …, cit., p.48]. Marazzi, a sostengo del proprio punto di vista secondo cui il linguaggio è lavoro produttore di merci immateriali, cita Il linguaggio come lavoro e come mercato di Ferruccio Rossi-Landi, che, in quello scritto del 1965, dice ben altro.
Rossi-Landi, contrariamente da quanto vuole Marazzi, procede da una critica marxista del neocapitalismo e della semiotica idealistica borghese, e afferma che, oltre alle forme di produzione e alle ideologie, necessita tenere conto dei sistemi segnici verbali e non verbali, che costituiscono il prodotto della comunicazione sociale della comunità umana. Rossi-Landi non scrive che il linguaggio sia fattore di produzione di valore all’interno di un processo universale di merci immateriali, bensì che il linguaggio e le lingue sono situati da sempre all’interno dei rapporti di lavoro, di produzione e di conflitto di classe, di cui ne sono l’oggettivazione. Quel saggio si collocava nel dibattito degli anni sessanta, e Rossi-Landi intendeva confutare talune tesi neoidealistiche secondo cui il linguaggio era creazione dell’individuo, anziché il prodotto del lavoro linguistico collettivo, storicamente sviluppatosi nello scambio generale della comunicazione, espressa dall’azione linguistica erogata dai soggetti parlanti.
Altra riflessione, tributaria del pensiero che pone l’azione comunicativo/relazionale come fondante delle nuove comunità di lavoro e creatrici di merci a mezzo di linguaggio, è quella elaborata da Maurizio Lazzarato. Il linguaggio, o meglio la facoltà comunicativa e la produzione di informazione espresse mediante il linguaggio applicato alle tecnologie a base informatica, sarebbe il motore necessario al funzionamento delle macchine nelle quali sono state accumulate la scienza e quelle abilità tecniche: i cosiddetti general intellect o intelligenza tecnico-scientifica o cervello sociale [cfr. Maurizio Lazzarato, Lavoro immateriale, Ombre corte, 1997]. Ma Marx non scrive che la valorizzazione delle merci materiali o immateriali sia determinata aleatoriamente dal linguaggio e dalle competenze comunicative; l’accumulazione della scienza incorporata nella macchina è fattore esterno e conflittuale rispetto all’operaio che utilizza quel lavoro morto ed oggettivato nel capitale fisso sotto forma di macchine, che non sostituiscono la forza-lavoro, ma ne riducono la quantità in maniera proporzionata alla loro efficienza, abilità e potenza.
Esse sono il prodotto “dell’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è divenuto forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale” [Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze 1978, vol.II, pp. 402-403].
Ma il postfordismo sarebbe prima di tutto l’attivazione di differenti modi di produzione (“materiali” e “immateriali”) e dunque di differenti soggettività (pre-fordiste e post-fordiste), ovvero le differenti forme giuridiche dei rapporti di lavoro in cui convivono lavori tradizionali e nuovi. L’autore resta alla superficie della regolazione formale dell’erogazione della prestazione di lavoro, sia essa lavoro dipendente che indipendente, e non rintraccia la categoria della forza-lavoro che sostanzia, al di là delle molteplici tipologie contrattuali, la contraddizione sostanziale che si oppone al capitale, attraverso l’estorsione di plusvalore che si attua nello scambio ineguale tra lavoro vivo e lavoro morto.
Senza qualificare quale sia la cifra di lavoro produttivo e improduttivo presente nel processo di produzione postfordista, egli reitera la centralità di tutte le attività sussidiare alla produzione (ricerca, logistica, gestionali, ecc.) o comunque di tutte quelle che vengono attratte dalle reti telematiche e dalla gestione informatizzata dei dati, ossia che “il lavoro immateriale tende a divenire egemone in maniera totalmente esplicita” [ivi, p.25]. Ma la specialità di questa moltitudine intellettuale messa al lavoro nel ciclo della produzione immateriale sarebbe quella di essere composta da soggetti sociali autonomi non solo nella forma prevalente della prestazione “autonoma”, ma avente la facoltà e la capacità creativa di produttori sociali che sanno “organizzare il proprio lavoro, le proprie relazioni con l’impresa” [ibidem], e agiscono come soggettività indipendente rispetto all’organizzazione capitalistica del lavoro e ai tempi di lavoro imposti dal capitale.
I soggetti indipendenti ed autonomi del lavoro immateriale non avrebbero più necessità di dipendere dal capitale e della sua forma organizzativa, in quanto nel postfordismo ci sarebbero luoghi prodigiosi in cui “non c’è più bisogno dell’intervento determinante dell’imprenditore capitalista. … Il processo di produzione di soggettività, cioè il processo di produzione tout court , si costituisce fuori dal rapporto di capitale, in seno ai processi costitutivi dell’intellettualità di massa, cioè nella soggettivizzazione del lavoro” [ivi, p.32]. Per esempio, Benetton non si preoccuperebbe di gestire e governale tutta la filiera del proprio processo generale di produzione, dalla ideazione dei capi, alla loro produzione, sino alla cura dell’immagine offerta della propria società e dei propri prodotti, ma si riserverebbe di federare le reti dei produttori associati, che vivrebbero di vita produttiva propria ed indipendente dal sistema del magliaro trevigiano [ivi, p.55].
Nel modello basato sull’immaterialità universale, viene capovolto l’imperio del capitale sull’organizzazione del processo generale di produzione, a tal punto che il consumatore, per dirla riesumando Pareto e marginalisti, per massimizzare la soddisfazione dei propri bisogni marginali, determinerebbe la quantità e la qualità della merce prodotta e/o del servizio somministrato. In questo processo a ritroso, Lazzarato sembra omettere, tra le altre argomentazioni, che la forma e la funzione dell’acquirente non sempre coincide con quella del consumatore; infatti, per la pubblicità è il responsabile agli acquisti il vero bersaglio dell’azione di suggerimento a mettere in pratica determinati comportamenti economici.
L’economia del lavoro immateriale sarebbe quella che sostituisce al comando dell’impresa sulla forza-lavoro e sul mercato attraverso l’imposizione della propria offerta, la centralità della domanda e della forza-cliente. I mezzi di comunicazione di massa, le televisioni, la pubblicità, ecc. che prima erano luoghi di mera circolazione di informazione, ora ora sono i luoghi della valorizzazione e della produzione e di scambio del plusvalore materiale ed immateriale. Il soggetto titolare del potere-utente/cliente eserciterebbe la propria potestà mediante i potenti mezzi dei pc familiari, che assurgono al rango di “intelligenza artificiale”, unicamente perché possono gestire il traffico di telefono, televisione, internet, ecc.; attraverso quegli elettrodomestici di commutazione e di ordinamento di dati, quel soggetto può esercitare la fallace libertà interattiva di scanalare da Cecchi Gori a Berlusconi o programmarsi una partita di calcio o un film porno o di inviare una email.
Questi autori, dopo aver citato Rossi Landi, artefacendone la sua critica alla semiotica idealistica, parafrasano Produzioni di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa e, contrariamente dalle intenzioni dell’economista torinese, ripropongono la teoria marginalisitca che basa il valore delle merci anche sui gusti del consumatore. L’oggetto della produzione sarebbe sempre più difficile da misurare secondo la categoria del “valore-lavoro” e la “produttività da lavoro, sganciata dalla materialità della produzione, diventa sempre più difficile da misurare, diventa cioè produttività sociale” [Andrea Fumagalli, Dieci tesi sul reddito di cittadinanza, in Tute bianche, Derive e approdi, 1999, p.30].
Benché ci siano oggettive difficoltà ad acquisire i costi salariali erogati ai soggetti che concorrono alla produzione di plusvalore, perché il prezzo delle remunerazioni di questo mercato del lavoro duttile e precario è più assortito e meno determinabile rispetto al passato, non può diventare altrettanto aleatoria anche la categorizzazione logica che dovrebbe definire il prezzo della merce, assecondando la mitologia della produzione di beni immateriali non valorizzabili per definizione. Tutto ciò è artificioso e non giustifica l’abbandono della teoria incentrata sul rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro, per la determinazione del prezzo delle merci.
Sraffa “riformulò” la critica marxiana all’economia politica in polemica con i marginalisti neoclassici (Bohm-Bawerk, Wicksell, Jevons, Walras, ecc.) che, in funzione esplicitamente antimarxista e in opposizione alla teoria del “valore-lavoro”, esposero la loro teoria marginalistica del valore del capitale: remunerazione residuale tra la sommatoria dello stock patrimoniale esistente, meno i salari e gli interessi su quei salari, e il valore dell’interesse maturato tra il bene di consumo e la sua trasformazione in merce. Secondo costoro, concorrono alla determinazione dei valori relativi delle merci e alla misurazione della remunerazione dei fattori della produzione il gusto del consumatore, i mezzi tecnici in cui sono incorporate le conoscenze tecnico-scientifiche e i fattori della produzione impiegati, misurabili nella loro accezione “neutrale” di unità tecniche di capitale e lavoro.
Per la scuola neoclassica, il “salario” è il prezzo specifico attribuito a quel “servizio” particolare che è il lavoro, mentre il capitale riceve una remunerazione che è data dalla maturazione di un interesse sul valore futuro della merce rispetto al valore presente; il tempo, come interesse del capitale, determina la maturazione del “valore” delle merci in base alla variazione differenziale tra il valore incorporato nel bene passato e nel bene presente, e nel bene presente e nel bene futuro. Partecipa alla determinazione del prezzo delle merci la valutazione soggettiva dei consumatori, che ne stabilirebbe la quantità di beni e servizi, secondo la loro utilità marginale in equilibrio tra domanda e offerta, estraniando dal processo di valorizzazione la funzione del lavoro produttivo. Quindi è l’utilità, atto decisorio soggettivo del consumatore, anziché il processo di produzione capitalistico e l’organizzazione sociale di quel modo di produrre, a costituire la causa del valore.
Anche Pareto aderisce alla teoria marginalistica, esprimendone tutte le aporie e le circolarità, e definisce le ofelimità elementari di ciascun individuo, in sostituzione dell’utilità, che inscrive nelle equazioni sulla capitalizzazione, insieme a quantità date di capitali, servizi, prodotti, ecc., che si dovrebbero uniformare socialmente ed equilibrare economicamente. Egli vuole disciplinare il desiderio in una scala ordinata di preferenze, determinabili attraverso le cosiddette curve dell’indifferenza, in sostituzione di quelle connesse all’utilità procurata dal possesso del bene; il massimo soddisfacimento collettivo dovrebbe conseguirsi quando non si creino più utilità ulteriori. E proprio Sraffa confuta queste teorie della distribuzione che conferiscono unicamente al mercato, alla circolazione delle merci e allo scambio, la funzione di formazione dei prezzi
Egli intende ritornare alla centralità del rapporto intercorrente tra salario e profitto (ove il saggio di sfruttamento non è però connesso all’estorsione di plusvalore), per giungere alla definizione prezzi. Sraffa ricostruisce costo e valore finali di un bene attraverso le varie frazioni della filiera temporale durante la quale si scambiano lavoro e capitale, che si sostanziano in determinate quantità di mezzi tecnici, semilavorati, beni e lavoro via via incorporati. I marginalisti, che esprimono la rivolta teorica da parte del capitale, vogliono destoricizzare il processo verticale della produzione, neutralizzando il lavoro erogato in passato per la produzione di beni e macchine, e staticizzando il “valore” delle merci nel segmento temporale presente delle produzione e della circolazione.
Tale mistificazione viene elaborata per occultare ulteriormente il saggio di sfruttamento e di estorsione di plusvalore che sta dietro la determinazione del “prezzo relativo”, che si attualizza nell’appropriazione da parte del capitale del lavoro oggettivato, incorporato, proporzionato e stratificato nel tempo nei mezzi di produzione e nei beni prodotti. Sraffa, nelle sue equazioni, introduce i prezzi dei vari prodotti che concorrono alla realizzazione delle merci, tra cui i salari, come quota del reddito netto (sovrappiù) attribuito al lavoro impiegato, indicando che tale “sovrappiù” si costituisce quale risultato della differenza tra la quantità di merci immesse all’inizio e quelle risultanti alla fine del processo di produzione. Perciò il valore relativo delle merci e la formazione del reddito possono essere confrontate con la quota attribuita al lavoro, contestualizzata così in una relazione conflittuale, ma estrinseca, di classe capitale/lavoro: di qui, se si vuole, si può risalire ai rapporti sociali di produzione storicamente determinati.
Occorre riportare in piedi la logica del processo generale di produzione, che questi autori hanno capovolto. Le imprese hanno necessità di effettuare ricerche di mercato, saggiare la propensione all’acquisto dei consumatori, prevedere le vendite dei propri prodotti, valutare la destinazione dei profitti in investimenti finanziari, ecc., per fare fronte alla ricorsività delle crisi economiche, per intensificare lo sfruttamento della forza-lavoro, e per concorrere in modo imitativo, dentro un mercato ormai saturo di beni durevoli e con una veloce sostituibilità dei beni di consumo. La microelettronica, i sistemi a base informatica e le loro applicazioni comunicative sono tra i mezzi al servizio delle imprese per attuare quelle azioni economiche; spesso si omette di informare che l’oggetto della produzione delle imprese che operano nel settore dei media non è costituito unicamente dalla leggerezza del software, come sostengono gli entusiasti dell’immateriale, che è funzione di servizio al processo di produzione generale, ma anche dalla produzione di componentistica e apparati tecnici, in sostanza tutta la pesantezza dell’hardware.
“Le società Usa che operano nel settore integrato della comunicazione (ma anche quelle britanniche come British Telecom o Bskyb) possono sfruttare senza remore il potenziale accumulato (know-how di marketing, abilità tecnologica, capacità finanziaria) e si espandono su ogni direttrice: geografica, orizzontale (ingresso in settori contigui a quello di origine), verticale (in tutto il mondo le majors di Hollywood acquistano o impiantano reti tv). La crescita di dimensione e la scoperta di nuove nicchie di profitto sono gli antidoti al calo dei prezzi indotti dalla tecnologia (soprattutto nella telefonia) e dalla crescente concorrenza. … Kirch e Bertelsmann puntano somme ingenti sui due versanti televisivi (pay e free) elevando l’offerta di programmi, gli investimenti in produzione, la presenza internazionale. Anche in Francia la competizione si diffonde e si accentua, benché France Télécom conservi il 51% di capitale pubblico. Emergono operatori integrati tlc/tv di notevole spessore come la Général des Eaux (azionista principale di Srf, il secondo operatore di telefonia mobile, e terzo azionista di Canal Plus) e Bouygues (free tv, telefonia), mentre Canal Plus, incorporando Nethold, diventa il primo operatore europeo nella pay tv (analogica e digitale)” [Aa.Vv., L’industria della comunicazione in Italia, Guerini, 1996, p.4].
Le imprese hanno la necessità di costituire tipologie selettive di consumatori, oggetto del loro bersaglio, ne modellizzano i comportamenti secondo stili di vita economici e culturali: dalla produzione delle merci, al loro acquisto e loro godimento, i tempi del ciclo economico devono abbreviarsi e devono divenire più prevedibili quantità e tipo del bene da produrre e mettere in circolazione. I palinsesti della tv generalistica sono stati ideati e programmati sulle attese e sui gusti prevedibili di pubblici specifici, ma ancora di massa, da vendere agli inserzionisti pubblicitari e, quindi, agli oligopoli industriali e finanziari concorrenti. Attraverso la costruzione del programma, i pubblici diventano bersaglio del marketing di vendita, che induce comportamenti culturali tipizzati e sollecita la propensione all’acquisto di beni, con suggerimenti simbolici, prevalentemente rivolti a prodotti di marca di largo consumo.
Le campagne pubblicitarie legate alla programmazione televisiva agiscono sui responsabili degli acquisti e, per assecondare quelle esigenze di vendita, le tv (commerciali e pubbliche) confezionano trasmissioni differenziate per tipologie di età, sesso, censo, ecc., individuano orari, reti tv e radiofoniche, e offrono programmi tipizzati, che assicurano il giusto contatto con il pubblico/bersaglio predefinito e livelli di ascolto previsti e garantiti. L’industria culturale dei media partecipa non solo alla creazione e alla stabilizzazione del consenso, ma altresì concorre a coniare e connettere linguaggi, promuovere comportamenti culturali orientati all’acquisto di merci.
Le trasformazioni dei mezzi di comunicazione di massa e la loro specializzazione (la tv generalistica per pubblici medi, la tv criptata e quella impropriamente detta interattiva, per tipologie di pubblici selezionati e più intercettabili, l’integrazione tra medium e informatica di consumo, carta stampata, cd rom, internet), sviluppano mercati linguistici e di “beni immateriali” diversificati , il cui obbiettivo è fare propendere i propri utenti all’acquisto e al consumo di beni di merci, quelle di massa e quelle di segmento.
Il mercato ulteriore che le imprese vogliono occupare è quindi quello più selettivo e pregiato dei pubblici economicamente benestanti e disponibili ad acquistare merci più sofisticate e costose, che abbiano quindi le possibilità economiche di comprare mezzi tecnici più elaborati del tradizionale televisore, e che siano disposti a sborsare somme supplementari per i canoni di accesso alle nuove reti e posseggano minime conoscenze di informatica per interagire con i sistemi di comunicazione a loro rivolti.
La produzione di programmi e notizie è realizzata sulla previsione delle attese dell’utente, senza una sostanziale modificazione del suo stato di conoscenza: l’emissione quantitativa e spaziale di dati unidirezionali, formalmente differenziati per tipologie categoriali di utenti/acquirenti, di fatto costituisce una banca di dati, dai contenuti deprivati da contesto, soggettività, conflitto e ambientazione. La molteplicità delle fonti, la diversificazione dei palinsesti, la moltiplicazione di programmi, non corrispondono a complessità di linguaggi, qualificazione di contenuti e reciprocità di scambi informativi tra utente ed emittente. Al contrario, la quantificazione dell’editoria è solo apparente libertà di scelta e, di fatto, immodificazione della conoscenza (la falsificazione di “comporre il proprio palinsesto personale”).
L’offerta è invece interessata al reddito e al tempo rubato all’utenza, sempre più “targettizzata” e oggetto di marketing, selezi onata per gerarchia di appartenenza sociale nell’accesso ai nuovi media. Il mercato dei mezzi trasmissivi è connesso, quindi, all’interesse economico, culturale e politico dell’informazione irrelata delle agenzie e delle imprese operanti su scala globale. Il fine di questo mercato di dati ripetitivi, deducibili, referenziali, è mettere in circolazione il maggior numero di informazione per il pubblico degli utenti/acquirenti, che sono permanentemente sollecitati ad usufruire di nuove informazioni irrelate, a sostituzione e/o integrazione delle passate disinformazioni.
Attraverso la rappresentazione televisiva e telematica di mode culturali, di stili di vita modellizzati, di opinioni transitorie, di narrazioni identificabili, di assortimenti consentiti, di decontestualizzazioni permanenti, questa industria della produzione e della trasmissione di messaggi vorrebbe fare credere ai ricettori che essi vivano all’interno di una grande “democrazia informativa”, in una moltitudine di cyberspazi navigabili ed interattivi. Ma al di sotto del velo, la realtà è meno rassicurante, e la maggiore quantità di canali comunicativi, di fatto equivalenti, mira sostanzialmente a produrre messaggi equiprobabili e a costituire maggiori contatti messaggio pubblicitario-sponsorizzazione/pubblico, necessari per la pianificazione di vendita delle merci.
Un sistema comunicativo, concentrazionario e confinato, è caratterizzato dalla diminuzione delle opportunità comunicative tradizionali (es. identità e coscienza di classe espressa dalla comunità lavorativa e dai i rapporti sociali) e dall’abbassamento della coscienza critica, a favore “dell’accresciuta centralità dell’abitazione domestica nell’utilizzo del tempo libero” [cfr. Augusto Preta, in L’industria della comunicazione in Italia, p.33]. L’obbiettivo di questa industria dell’intrattenimento, che si fonda sulla passività del ricettore e sulla ripetizione di contenuti e linguaggio, è l’occupazione del tempo di riproduzione di ampi strati di popolazione e il loro convogliamento nel processo di circolazione delle merci e nell’appropriazione di quote di salario.
Il precetto è di lasciare inalterati rapporti di produzione e potere statuale, e concedere ai ricettori dell'”autovalorizzazione comunicativa” l’illusione di attingere, trasferire e conservare magazzini di dati di questa logistica dell'”imma-teriale”. Nell’attuale mercato delle “merci immateriali”, ha valore marginale la qualità dei contenuti e il loro assortimento, mentre è determinante disporre di un’ampia flotta dei vettori, godere del confort di viaggio, sfruttare la velocità di distribuzione, fruire dell’esattezza del servizio, amministrare la gestione del magazzino merci e disporre della sofisticata rete di trasporto intermodulare. Da una parte la “democrazia comunicativa” delle autostrade telematiche e del video on demand, per stabilizzare il consenso sociale, dall’altro la “democrazia economica” della produzione, per acquistare la moltitudine di merci. Necessità delle imprese è comprimere i tempi di svalutazione dei beni prodotti e trasformarli rapidamente in liquidità; processo da compiere prima dei concorrenti di questo mercato delle merci a carattere mondiale, per reinvestire in nuova produzione e/o per esportare parte dei profitti in attività finanziarie (titoli del debito pubblico, privatizzazioni di società pubbliche, speculazioni sui cambi di valuta, azioni societarie, titoli su titoli, ecc.).
Nel processo generale di valorizzazione delle merci, a fianco della funzione primaria della produzione che crea valore, si integrano quindi tutte quelle attività che concorrono alla realizzazione del valore (e anche quelle cosiddette improduttive e accessorie) quali lo stoccaggio, la conservazione, il trasporto, la gestione automatizzata dei magazzini, le strategie di marketing, la televisione e la pubblicità, che contribuiscono a conoscere e pianificare nel modo più esatto possibile quanto le imprese devono produrre, in relazione a quanto programmano di vendere. Ben oltre le immaginazioni sul lavoro immateriale e le suggestioni cibernetiche, resta produttivo il lavoro che genera plusvalore e che dà valore al capitale, mentre le operazioni accessorie alla produzione, mantengono la loro funzione di riduzione dei costi dello scambio, ma non concorrono all’ac-crescimento del valore delle merci.
“Il tempo di circolazione si presenta dunque come un ostacolo alla produttività del lavoro = aumento del tempo di lavoro necessario = diminuzione del tempo di lavoro supplementare = diminuzione del plusvalore = freno, ostacolo del processo di autovalorizzazione del capitale. Mentre dunque il capitale deve tendere, da una parte, ad abbattere ogni ostacolo spaziale al traffico, ossia allo scambio, e a conquistare tutta la terra come suo mercato, dall’altra esso tende ad annullare lo spazio attraverso il tempo; ossia a ridurre al minimo il tempo che costa il movimento da un luogo all’altro. Quanto più il capitale è sviluppato, quanto più è esteso perciò il mercato su cui circola e che costituisce il tracciato spaziale della sua circolazione, tanto più esso tende contemporaneamente ad estendere maggiormente il mercato e ad annullare maggiormente lo spazio attraverso il tempo” [K. Marx, Lineamenti …, cit., vol.II, p.181].
Di fronte alla diminuzione dei saggi di profitto, alla brevità dei cicli economici e a crisi di sovrapproduzione sempre più ricorrenti, il capitale ha necessità vitale di stabilire preventivamente gli andamenti del mercato e razionalizzare le spese, per abbreviare i tempi della circolazione, tra produzione modulabile e acquisti prevedili. La nostra società, impropriamente detta post-industriale, non è caratterizzata dalla sparizione della produzione, come narrano gli apologeti del terziario avanzato, ma dall’affinamento dei servizi e dalla frantumazione del tessuto produttivo in molteplicità di prestazioni, in una dimensione spaziale che ha come misura il pianeta e dall’integrazione di ogni segmento del processo di valorizzazione. A causa di una forte concorrenza internazionale tra oligopoli, il capitale deve svalutarsi il meno possibile dal momento in cui conclude il processo di produzione al momento in cui si ritrasforma in denaro: lo spazio delle distanze, l’estensione mondiale del mercato, l’attesa dello scambio e i rallentamenti della circolazione, devono essere ridotti anche grazie alla velocità temporale offerta dai sistemi di comunicazione.
Le imprese trasnazionali devono perseguire la strategia di concorrere su mercati oltre l’ambito nazionale, per acquisire i potenziali acquirenti dei mercati esteri, per cui esse localizzano anche al di fuori del proprio stato fabbriche, servizi gestionali e funzioni commerciali. L’organizzazione di questo mercato estero prevede, a fianco della produzione nazionale, la “delocalizzazione” in paesi stranieri di talune produzioni o loro segmenti o la cessione di licenze di produzione o gli assemblaggi di componenti di provenienza mista (dall’impresa madre e dai terzisti). La rete commerciale e di servizio, ad esempio, può essere organizzata nei vari stati esteri attraverso la gestione locale di magazzini di semilavorati, ricambi e prodotti finiti. Per cui le imprese a carattere internazionale, non scompaiono, ma si mimetizzano, si delocalizzano e si rendono leggere, sia strutturalmente costituendo una presenza reticolare nelle aree di loro interesse economico, che attraverso l’utilizzazione di manodopera fluttuante e più sfruttata, per affrontare meglio la concorrenza multinazionale, esternalizzando alcune dello loro funzioni produttive e di servizio, .
Il ricorso al finanziamento delle attività delle imprese transnazionali, sia per le proprie unità locali che per il gruppo nel suo insieme, può essere utilizzato in quegli stati ove sia stata delocalizzata una qualche attività produttiva o di servizio, e dove sussistano condizioni di prestito a tassi più convenienti o franchigie concesse da paesi reazionari o mantenuti in uno stato di arretratezza, al fine di garantire uno sfruttamento intensivo della forza-lavoro a costi più bassi e a conflitto controllato, per una maggiore repressione del movimento di classe dei lavoratori. È la condizione sopportata non esclusivamente dalla classe operaia “terzomondiale”, ma anche da quella delle aree “differenziate” del mondo (i paesi dell’ex socialismo realizzato, i nostri distretti industriali e i contratti d’a-rea, i mercati del lavoro deregolamentati dell’Europa occidentale, i paesi del-l’America latina, ecc.), i cui stati garantiscono ai capitali transnazionali, oltre alla rapina delle risorse naturali e delle materie prime, quote maggiori di estorsione di plusvalore assoluto, a condizioni di lavoro semi schiavistico e di erogazione del salario ai limiti della sussistenza.
La classe operaia, pur nelle sue diverse tipologie di area, di forza conflittuale e di composizione organica capitale/lavoro, è ben lungi dell’essere scomparsa: essa costituisce l’oggetto dello sfruttamento e rappresenta il motore di questa economia che, proprio perché in crisi di sovrapproduzione, deve stanare ogni opportunità per assicurarsi incrementi supplementari di profitto. La necessità che la classe si riorganizzi non è sfumata nell’anonimato della moltitudine, ma si presenta quotidianamente nel conflitto di classe contro il capitalismo e i suoi mimetismi.
* Articolo pubblicato in La Contraddizione <http://www.mercatiesplosivi.com/contraddizione/> , n. 78, maggio-giugno 2000
Il Manifesto
Venerdì 5 Novembre 2010
Toni Negri: Il potere alienato dalla folla
La raccolta di saggi «Il comunismo del capitale» di Christian Marazzi* ripercorre le trasformazione del capitalismo contemporaneo dove la finanza è diventata strumento di governo dello sviluppo economico. La dismissione del welfare state e la precarietà dei rapporti di lavoro risultano, così, due momenti della appropriazione privata del «comune». Il libro dell’economista di origine svizzera non si limita, però, a una rassegna dei cambiamenti avvenuti, ma si pone l’obiettivo di fornire strumenti per la trasformazione.
Sono stati scritti in un decennio, questi saggi di Christian Marazzi raccolti nel volume Il comunismo del capitale (Ombre corte, pp. 160, euro 23). Hanno il buon sapore che si sentiva nel bel volume che ha reso questo economista di origine svizzere abbastanza noto in Europa e negli Usa: Il posto dei calzini (pubblicato dalla casa editrice Casagrande nella Svizzera italiana e ripreso poi da Bollati Boringhieri). Lì, per la prima volta, il postindustriale era coniugato con la sovversione femminista ed il postmoderno trovava non una voce debole o molle per dichiararsi (come ci avevano abituato i suoi fondatori) ma mostrava i muscoli della rivoluzione sociale.
Leggo qui con voi le prime due parti di questo libro: la prima, «Biocapitalismo e finanziarizzazione» e la seconda, «Il lavoro nel linguaggio». Parto da una questione posta da Marazzi che sembra, a prima vista, bizzarra e mi chiedo con lui: perché i manager sono spesso dislessici? Perché – risponde Christian -se la difficoltà di focalizzare e decodificare i fonemi sviluppa nei dislessici, in generale, la capacità di vedere o percepire molto rapidamente il quadro d’assieme, il contesto nel quale si trovano ad operare i manager trasforma la condizione di dislettica nella facoltà di alterare e creare percezioni, organizza un’estrema consapevolezza dell’ambiente nel quale sono immersi. Pensiero ed intuito si applicano insieme su scene multi-dimensionali e qui esprimono potenza e creatività.
Quando Marazzi ci racconta queste avventure che capita ai manager di vivere, non lo fa proprio per riconoscere loro qualche dono sublime, per definirli come geni romantici – lo fa piuttosto per scavare, attraverso quella specifica competenza imprenditoriale, le caratteristiche della produzione postindustriale e la dinamica linguistica della nuova economia. Economia digitale e sociale, economia immateriale e cooperativa. La tesi è precisa: la nuova economia non conosce più quella delega tecnologica che costituiva il perno della divisione del lavoro nell’economia industriale (attraverso le macchine gli operai erano massicciamente delegati alla produzione); neppure conosce una struttura lineare, liscia e continua. Al contrario: in un ambiente arredato da tecnologie multimediali, dove è mobilitata l’attività vitale di tutti gli organi del corpo umano, ivi predomina una divisione cognitiva del lavoro e tecnologie discrete tendono a sostituire le vecchie tecnologie accumulative dell’industria fordista.
La potenza del dislessico
Il dislessico non può che trovarsi bene in questo ambiente. Non solo manager ma anche semplice operatore linguistico. La discontinuità dislessica diviene inventiva. Il processo industriale non procede più attraverso innovazione (quantitativa, dialettica, schumpeteriana) ma attraverso convenzioni sociali nutrite da connessioni di conoscenze e di affetti, da invenzioni vere e proprie, che interiorizzano l’intero insieme delle condizioni sociali al processo produttivo.
«Ciò dipende più dall’immaginazione che dalla logica, più dalla poesia e dall’umore che dalla matematica». (Non sarà dislessico anche Marazzi? Ed anche noi non vorremmo esserlo? È chiaro che sì). Tuttavia quel capitalismo che imprigiona il linguaggio e fa di questo la sua materia prima, trova in questo anche il suo limite. «Nel capitalismo dislessico la potenza creativa dell’agire umano si affranca dalle condizioni poste dalla logica lineare dell’economia di mercato. La crisi rivela questo suo interno divenire, l’alternarsi “delirante” tra creatività multi-sensoriale e ordine economico disciplinare». È così che avanziamo nella conoscenza del capitalismo contemporaneo. Capitalismo di crisi – è evidente: perché esso regola una materia vivente, perché pretende di eccitare all’invenzione produttiva dispositivi di soggettività che deve, al tempo stesso, controllare. Conseguentemente «l’impresa irresponsabile è la forma del comando capitalistico su una cooperazione sociale che, per manifestarsi come attività tesa all’innovazione e allo sviluppo economico, tanto dev’essere libera, ma altrettanto dev’essere piegata nel rapporto sociale di produzione».
Ma il capitale non è solo mascalzone (e neppure lo sono semplicemente gli imprenditori). È chiaro che nel postindustriale e nei regimi economici dove la valorizzazione è estorta alla forza lavoro intellettuale, sociale e cooperante, la legge del valore non funziona più nella stessa maniera di prima -poiché la misura della produttività sociale (cioè la funzione di controllo dello sviluppo ed eventualmente della crisi) deve esser comunque determinata. La finanziarizzazione dei processi economici risponde a questo scopo. Non deve dunque esser vista come una perversione speculativa e neppure come una semplice prolungazione delle forme classiche del capitale finanziario (alla Hilferding) – questa finanziarizzazione non sta fuori ma dentro la produzione sociale.
La fusione tra salario e reddito
In conseguenza di questa interiorità, il capitale finanziario rappresenta la fusione dell’insieme delle funzioni della moneta: la tradizionale distinzione tra salario diretto e salario socializzato, fra salario e reddito è in via di estinzione. Smettiamola di piagnucolare sulla distanza dell’economia finanziaria da quella reale! Se la comunicazione, il linguaggio e la cooperazione intersoggettiva stanno al centro dei processi di valorizzazione del capitale, questa interiorità è divenuta la forza del capitale. Ma è divenuta anche la sorgente di ogni sua crisi – è lì, nella contradizione fra linguaggio come bene comune e la sua appropriazione privata. «La new economy rivela la crisi di commensurabilità che è stata la chiave del suo stesso successo. (…) I mercati finanziari hanno assunto un ruolo che in passato aspettava allo Stato keynesiano, quello della creazione della domanda effettiva indispensabile per assicurare la continuità della crescita. Lo spostamento del risparmio dal debito pubblico ai mercati borsistici (…) ha dato origine alla prima quotazione del general intellect».
Quando il dominio capitalistico investe la vita e quando la finanziarizzazione si rivela come un vero e proprio campo di esercizio del biopotere, quando il capitale si appropria non più solamente dei mezzi di produzione ma di una forza lavoro disgregata e delle sue forme di vita, che cosa avviene allora? Quale sarà, in queste condizioni, il nuovo comune dei lavoratori? Una riappropriazione comune di tutto ciò che è privato? Una democrazia come forma di vita – sociale ed economica, linguistica e politica?