da Giulia
India, 2 settembre 2016, i sindacati calcolano che 180 milioni di lavoratori indiani abbiano protestato contro la politica “anti-operaia, anti-popolare” del governo di centro destra NDA (Alleanza Nazionale Democratica) capeggiato dal partito BJP del primo ministro di Narendra Modi “che sta portando la vita di tutti i lavoratori e l’economia nazionale verso il disastro”.
È il 4° sciopero generale dal 2009, il maggiore sciopero mai visto al mondo, che ha coinvolto un numero di salariati pari a metà della popolazione degli Usa, e maggiore a quella complessiva di UK, Canada e Australia; esso ha arrecato un danno per la classe al potere sarebbe di circa 2,4 miliardi di €.
La lotta ha avuto il maggior seguito negli stati meridionali del Karnataka e del Kerala, interessato i grandi gruppi statali, nel carbone (Coal India Limited), gas e petrolio (Oil and Natural Gas Corporation – ONGC), impianti per centrali elettriche (Bharat Heavy Electricals Limited, BHEL), Aeronautica (Hindustan Aeronautics Limited, HAL) e, in generale, i settori energia, minerario, trasporti, telecomunicazioni, bancario e assicurativo, tessile, auto, porti, siderurgia, petrolifero, armamenti, servizi sociali, educazione, e i dipendenti pubblici del governo centrale e degli stati federali.
L’appello allo sciopero è stato lanciato dal Comitato Sindacale Congiunto (JTUC), vi hanno aderito dieci confederazioni sindacati, [1] ed è stato appoggiato da federazioni indipendenti e di impiegati statali. L’unica confederazione sindacale che non ha partecipato è stato la BMS, Bharatiya Mazdoor Sangh, legata al partito hindu nazionalista e paramilitare Rashtriya Swayamsevak Sangh, considerato il padre del partito di governo, Bharatiya Janata Party, al quale ha fornito per decenni la maggior parte dei quadri ed entrambi i suoi primi ministri.
Ecco i 12 punti delle rivendicazioni avanzate dai lavoratori:
- urgenti misure di contenimento dell’aumento dei prezzi tramite l’universalizzazione del sistema di distribuzione pubblica;
- misure concrete per l’occupazione;
- rigida applicazione di tutte le leggi sul lavoro, e sanzioni severe per le loro violazioni;
- previdenza sociale universale per tutti i lavoratori;
- salario minimo giornaliero di 690 rupie (9,25 €), e mensile di almeno 18 000 rupie (240 €);
- pensioni di almeno 300 rupie al mese (40€) per tutti i lavoratori;
- stop al disinvestimento nelle imprese pubbliche del governo centrale e degli stati;
- stop al lavoro interinale nei contratti a tempo indeterminato; salari uguali per uguali prestazioni;
- eliminazione dei massimali per il pagamento e l’accesso ai sussidi, ai fondi di previdenza;
- obbligo di riconoscimento dei nuovi sindacati entro 45 giorni, e immediata ratifica delle convenzioni ILO, sulla contrattazione collettiva e sulla libertà di associazione (C87 e C98);
- stop alle riforme della legge sul lavoro;
- stop agli investimenti esteri nelle ferrovie, assicurazioni e Difesa.
La forza di questa protesta esprime la crescente rabbia e il desiderio di lotta da parte della classe operaia indiana. Le sue cause stanno nel peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro prodotte dalla politica economica neoliberista degli scorsi 25 anni, perseguita dai precedenti governi di centrosinistra dell’INC (Indian National Congress, Partito del Congresso), come pure da quelli dell’Alleanza Democratica capeggiati dal nazional conservatore BJP (Bharatiya Janata Party), dell’attuale primo ministro Narendra Modi.
Le riforme antioperaie di Modi
Mentre Modi e il suo ministro delle Finanze si vantano di aver riportato l’India a crescere di oltre il 7% l’anno, i salari hanno perso potere di acquisto a causa dell’inflazione e della pesante crisi occupazionale. È da ricordare che il salario medio giornaliero di un lavoratore maschio con diploma di scuola superiore si aggira sui 7€, quello equivalente di una donna sui 5,23 € (WSJ, 22.07.2015).
Nei due anni al potere, il governo Modi ha tagliato la spesa sociale, compresa quella destinata al già disastrato sistema sanitario pubblico e al programma nazionale per la garanzia dell’occupazione rurale, volto a garantire almeno 100 giorni di lavoro l’anno per un membro non qualificato di ogni famiglia rurale che lo richiedesse, allo scopo di mobilitare la forza lavoro eccedente per sviluppare le aree rurali. [2]
Tra le misure anti-operaie del governo l’introduzione per decreto di contratti a tempo determinato per il settore abbigliamento, l’aumento delle ore di straordinario consentite da 50 a 125 ore al trimestre, il trasferimento del fondo di previdenza per operai e impiegati al mercato azionario. I sindacati denunciano le riforme del lavoro introdotte in modo unilaterale, sia dal governo federale che da quelli degli stati, volte ad escludere la maggioranza dei lavoratori dalla tutela della legislazione sul lavoro. Già ora meno del 4% dei lavoratori indiani ne sono tutelati.
Il governo BJP ha al contempo aumentato la spesa militare, [3] accelerato le privatizzazioni, intascando oltre 7,5 miliardi di €, e ridotto o eliminati i limiti per gli investimenti esteri in vari settori economici chiave (Difesa, ferrovie, banche, banche, assicurazioni, farmaceutica); ha di recente introdotto una tassa del 18% sui beni e servizi, che serve a trasferire ulteriore carico fiscale sui lavoratori; ha presentato una legge che riduce le restrizioni ai licenziamenti e alla chiusura di impianti nelle fabbriche con meno di 300 dipendenti e, in attesa che questa venga approvata, incoraggia i governi degli stati federali a introdurre leggi che eludono i regolamenti nazionali sul lavoro, e asseconda il padronato che si oppone all’organizzazione sindacale dei suoi dipendenti.
Una crescita “senza lavoro”
Secondo il rapporto 2016 Asia-Pacific Human Development dell’United Nations Development Program, dei 300 milioni di indiani entrati nel mercato del lavoro tra il 1991 e il 2013 solo 140 milioni hanno trovato lavoro. Ogni mese un milione di giovani si affaccia sul mercato della forza lavoro. Ma nonostante si aggiri sul 7%, la crescita economica indiana è ad intensità di capitale e non ad intensità di forza lavoro, avviene cioè relativamente “senza lavoro”. L’economia genera meno posti di lavoro per unità di PIL industriale. Ad esempio nel manifatturiero, se dieci anni fa occorrevano 11 operai per produrre una merce del valore di 1milione di rupie, oggi ne servono solo 6. [4] Questo per l’enorme aumento della produttività per addetto nei settori a tecnologia più avanzata, ma anche perché i settori tradizionalmente ad alta intensità di mano d’opera [5] stanno meccanizzando sempre più la produzione, con investimenti che sostituiscono macchinari alla forza lavoro umana. Un altro fattore della crisi occupazionale indiana è il trasferimento di attività di grandi gruppi dall’India alla Cina e al Vietnam, dove i salari sono ancora inferiori (!!). Ad esempio da parte di Nokia, nel finanziario MNCs, Goldman Sachs e Nomura, JP Morgan; il gruppo cementiero Lafargue, Essar Group nel settore raffinerie e gestione portuali, etc.
Contraddizioni capitalistiche e lotta di classe in India
Lo sviluppo capitalistico dell’India è, come ovunque, molto contradditorio. Se da una parte c’è un’economia indiana “avanzata”, che si adegua allo sviluppo in corso nelle grandi potenze, dall’altra peggiora l’economia delle campagne dell’India, dove risiede oltre il 60% dei suoi 1,2 miliardi di abitanti. L’abitante rurale medio oggi consuma 550 calorie meno di quelle che poteva consumare nel 1975-70. Quasi la metà dei bambini sotto i cinque anni sono rachitici, a causa della cronica malnutrizione.
La lotta di classe è la risposta “naturale” dei lavoratori indiani alle enormi contraddizioni sociali che scuotono l’India. La loro potenza numerica è un fattore oggettivo a loro favore, la loro capacità di organizzarsi in modo autonomo sarà l’elemento determinante dell’esito delle loro battaglie.
Purtroppo l’influenza sui lavoratori organizzati dei due partiti stalinisti è ancora forte. A partire dai primi anni Novanta il CPI Communist Party of India e il CPM, Communist Party of India (Marxist) hanno ogni anno organizzato scioperi generali, allo scopo di contenere la protesta dentro canali istituzionali e parlamentari. Pur definendosi comunisti, in varie occasioni essi hanno sostenuto di fatto la politica dei governi di centro, per la maggior parte quelli a guida del Partito del Congresso.
Ma non è garantito che questi partiti riescano ad imbrigliare a tempo indeterminato la rabbia della popolazione in generale e dei lavoratori in particolare. Lo ha dimostrato lo sciopero nello scorso aprile di decine di migliaia di lavoratori del tessile-abbigliamento e di altri settori nella città di Bengaluru (ex Bengalore) nell’India meridionale, contro il tentativo del governo di sottrarre il denaro dei loro fondi pensionistici. Lo sciopero è avvenuto al di fuori del controllo dei sindacati ed è durato diversi giorni nonostante la repressione poliziesca.
Anche in occasione di questo sciopero generale la repressione ha cercato di intimidire e ostacolare la volontà di lotta. Ne riportiamo un esempio: alle 5,30 di mattina il giorno dello sciopero generale la polizia ha arrestato 12 lavoratori della fabbrica di auto Maruti di Manesar, tra essi 8 attivisti sindacali, mentre cercavano di convincere i propri compagni di lavoro a scendere in sciopero; poi i poliziotti sono entrati nei villaggi dei dintorni per costringere gli operai ad andare al lavoro. Ma questa azione anziché farli desistere ne ha confermato la volontà di lotta. Sono scesi in sciopero i lavoratori di Maruti Suzuki Manesar, dei 2 impianti di HeroMotocorp, Honda, Daikin AC, Nerolac, centinaia di fabbriche di Gurgaon-Manesar, Dharuhera, Bawal, Neemrana.
E gli attivisti operai di Maruti hanno lanciato l’appello a diffondere la notizia, hanno rivendicato l’immediato rilascio degli arrestati e hanno chiamato i compagni di classe ad unirsi e scioperare!
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[1] INTUC, Indian National Trade Union Congress, l’ala sindacale dell’Indian National Congress; AITUC, All India Trade Union Congress, la più antica federazione sindacale e una delle cinque maggiori, ala sindacale del CPI, Communist Party of India; Hind Mazdoor Sabha (HMS, in Hindi significa all’incirca ‘Assemblea dei lavoratori dell’India’); CITU, Centre of Indian Trade Unions, ala sindacale del CPM, Communist Party of India (Marxist); TUCC, Trade Union Coordination Centre; SEWA, Self-Employed Women’s Association of India – Associazione delle donne lavoratrici autonome dell’India; AITUCC, All India Central Council of Trade Unions, politicamente legata al Communist Party of India (Marxist-Leninist) Liberation; UTUC, United Trade Union Congress, legato al Revolutionary Socialist Party; LPF, Labour Progressive Federation, federazione sindacale del Tamil Nadu, stato federale del Sud India, legato a Dravida Munnetra Kazhagam (Federazione Dravida per il Progresso).
[2] Il programma, varato nel 2005 sotto la pressione dei movimenti sociali e dei braccianti agricoli, pur rappresentando al suo picco solo lo 0,8% del PIL indiano, aveva prodotto effetti positivi: generato 2,8 miliardi di giorni lavorativi per 54 milioni di nuclei famigliari, aumentato i salari rurali, ridotto il divario salariale di genere, migliorato l’accesso ad alimentazione, educazione e sanità, ridotto la migrazione per povertà. A seguito dei tagli operati dal governo sul programma (-36%), dal 2012 viene registrato un “cambiamento drammatico nel mercato del lavoro rurale, a causa del crollo dei salari”. (2014, Mid-year review of the economy, Rassegna economica semestrale, del governo indiano). [Guardian, 5.2.2105, https://www.theguardian.com/global-development/2015/feb/05/india-rural-employment-funding-cuts-mgnrega]
[3] La spesa militare ha visto un aumento del 43% nel decennio 2006-2015, divenendo, secondo SIPRI, la sesta maggiore del mondo; nel 2016-2017 si passa dall’1,75% al 2,25% del PIL
[4] D.K. Joshi, capo economista di Crisil gruppo di rating e ricerca, India Today, 20.04.2016
[5] Tessile, pelle, metalli, automobili, gemme e gioielli, trasporti, Information Technologies / esternalizzazione del processo di produzione (BPO) e tessitura a mano e meccanica
3 settembre 2016