Aaron Pettinari
L’ex pm ha deposto oggi al processo sul depistaggio di via d’Amelio
Sentiti anche gli ex legali di Andriotta e Scarantino
Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo su Contrada e Signorino; l’inchiesta aperta contro l’ex numero tre del Sisde; l’interesse di Paolo Borsellino per approfondire ciò che Falcone aveva scritto nei suoi diari, gli ultimi giorni vissuti accanto a quello che era di fatto un suo maestro. C’è tutto questo nella deposizione dell’ex magistrato, oggi avvocato, Antonio Ingroia, sentito nell’ambito del processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio, che vede imputati tre poliziotti. (alla sbarra ci sono Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei, accusati di calunnia in concorso aggravata).
Una deposizione resasi necessaria in particolare dopo l’audizione in Commissione regionale antimafia, dove aveva riferito di un incontro avuto con il Procuratore capo di Caltanissetta, Gianni Tinebra, il giorno dopo la strage di via d’Amelio, in cui gli parlò delle dichiarazioni di Gaspare Mutolo su Bruno Contrada.
“Di questo episodio parlai una prima volta in un libro – ha ricordato Ingroia rispondendo alle domande del pm Maurizio Bonaccorso – Nei giorni successivi alla strage ci venne comunicato che il Procuratore capo di Caltanissetta, Tinebra, aveva ottenuto di avere un ufficio all’interno del palazzo di giustizia di Palermo. Mi contattò, dicendomi che voleva incontrarmi. Era piuttosto informale. Lui voleva farsi un’idea se ci fossero cose di particolare rilievo rispetto le attività che Paolo svolgeva. Mi disse che era una chiacchierata e che quelle cose sarebbero state verbalizzate in un secondo momento. Io non feci rilievi. Nelle ore concitate mi sembrava normale che tra colleghi ci si scambiasse impressioni. Quindi lo misi in parte di ciò che appresi. La sera stessa dell’attentato mi trovai con alcuni colleghi, Maria Teresa Principato e Ignazio De Francisci, a parlare nei corridoi, seduti su una panchina. Mi dissero che il sabato del 18 Paolo si recò in tutti gli uffici dei magistrati, come una sorta di commiato. Disse loro che aveva interrogato il collaboratore Gaspare Mutolo e che questi, fuori verbale, gli aveva anticipato di voler fare delle rivelazioni su uomini dello Stato che erano collusi con Cosa nostra. In particolare fece i nomi di un magistrato, Domenico Signorino, e di un alto funzionario del Sisde e della Polizia, Bruno Contrada. Queste cose le dissi a Tinebra che non mi sembrò particolarmente impressionato da quel che dissi. Ci lasciammo con un saluto cordiale e lui disse che mi avrebbe chiamato prossimamente per verbalizzare”.
Cosa che poi avverrà solo nel dicembre 1992, quando fu chiamato dai magistrati nisseni Fausto Cardella ed Ilda Boccassini. Nel frattempo la Procura di Palermo aprì un fascicolo nei confronti di Contrada, proprio partendo da quelle dichiarazioni di Mutolo.
L’atmosfera pesante
Nella sua deposizione Ingroia ha ricordato il clima che si respirava nella Procura di Palermo falcidiata nell’arco di 57 giorni dalle morti di tre magistrati e degli agenti delle scorte. “L’atmosfera era pesante – ha detto rivolgendosi al Tribunale – c’erano le dichiarazioni di Mutolo. Poi l’omicidio di Ignazio Salvo ed il tentato omicidio contro Germanà. Quando iscrivemmo Contrada nel registro degli indagati, questi ancora era al suo posto. Inoltre ci trovavamo delle intercettazioni di Contrada in cui si apprendeva che lui aveva degli appuntamenti riservati con magistrati del nostro stesso ufficio. E questo magistrato della Procura (su domanda dell’avvocato Repici ha fatto il nome di Giusto Sciacchitano, ndr) non ci comunicò nulla di questi contatti con Contrada”.
L’incontro tra Contrada e Borsellino dal Ministro
Ingroia ha anche ricordato un altro elemento che gli fu riferito nel corso del tempo dal maresciallo Canale (stretto collaboratore di Borsellino) e dalla stessa moglie del giudice, Agnese, ovvero la famosa telefonata ricevuta dal Viminale per incontrare il ministro degli Interni. “Ciò che colpì Paolo Borsellino – ha detto in aula – è che in quel giorno al Viminale incontrò anche Bruno Contrada, il quale gli avrebbe fatto una sorta di domanda del tipo: ‘come sta la mia vecchia conoscenza, Gaspare Mutolo?‘. Un modo per far sapere a Borsellino che Contrada fosse a conoscenza di quell’inizio di collaborazione che doveva essere super segreta. Questo fatto, tenuto conto di quanto gli disse Mutolo, fu percepito come un segnale preoccupante come a dire che qualcuno all’interno del Ministero stava mandando un segnale del tipo: ‘Contrada non è solo, ma ci siamo noi dietro di lui'”.
Proseguendo nella ricostruzione dei fatti Ingroia ha anche ricordato che al tempo, in Procura, c’erano già le voci sulla presenza di Contrada sul luogo della strage, e che in molti pensavano che Contrada potesse essere direttamente coinvolto nella strage di via d’Amelio (tanto che a Caltanissetta fu aperto un fascicolo che alla fine si risolse con un’archiviazione).
L’informativa del Sisde su Scarantino
Ingroia, sempre rispondendo alle domande del magistrato Bonaccorso, ha anche ricordato un fatto importante, ovvero che “durante il processo Contrada venne fuori il famoso gruppo di lavoro della Criminalpol e dalla testimonianza di un funzionario a lui vicino emerse l’esistenza dell’informativa redatta sulle parentele di Scarantino. Contrada se ne attribuiva la paternità durante il processo, a fini difensivi, per dimostrare che non era colluso e che, grazie a lui, si era individuato quello che mancava alla procura nissena: il legame di Scarantino con pezzi grossi dell’organizzazione mafiosa”. Un dato che si contrappone alla dichiarazione di Contrada in Commissione antimafia quando, nel giugno 2021, disse: “Se io avessi trattato Vincenzo Scarantino dopo 24 ore mi sarei accorto che era un cialtrone e che raccontava cose false”.
Successivamente Ingroia ha parlato dei rapporti che diventarono sempre più difficili con la Procura di Caltanissetta, ancor di più con lo stesso Tinebra.
“Nel passare degli anni – ha ricordato – mi sono convinto che da parte del dottore Tinebra vi fosse da una parte una posizione di conflittualità e contrarierà rispetto le iniziative che assumeva la procura di Palermo. E vi furono cose che mi indussero a fare delle dichiarazioni in cui criticavo la sua posizione rispetto la pista dei famosi ‘mandanti esterni'”.
Successivamente Ingroia ha riferito che quando era sostituto procuratore, interrogò il falso pentito Vincenzo Scarantino. “Ci era stato segnalato – ha detto – che aveva delle presunte dichiarazioni da fare su Contrada, il quale, secondo Scarantino, avrebbe contribuito a fare sfumare delle operazioni di polizia e su un presunto coinvolgimento di Berlusconi in un traffico di droga. Mi parvero subito dichiarazioni inattendibili, in particolare quelle su Berlusconi. E infatti non trovammo riscontri. Si discusse se procedere per calunnia, ma non avevamo prove che quelle dichiarazioni fossero volutamente depistanti. C’era anche il rischio che se avessimo accusato questo pentito per calunnia, si sarebbe innescata una guerra”.
Borsellino e le indagini su Capaci
Ingroia ha anche raccontato ciò che apprese dal giudice rispetto la sua volontà di presentarsi davanti ai giudici nisseni per riferire in merito alla strage di Capaci. Un dato che si coglieva già nel giugno 1992 quando, a casa Professa in un incontro pubblico, aveva pubblicamente dichiarato di essere un “testimone” e di voler riferire degli elementi solo alla Procura competente.
“Borsellino – ha ricordato l’ex procuratore aggiunto di Palermo – aveva intenzione di presentarsi a Caltanissetta se non convocato, nel momento in cui avesse completato una serie di verifiche e approfondimenti che stava facendo. Diceva: ‘Quando avrò le idee chiare sui mandanti e la strage di Capaci mi presenterò io alla Procura”.
Durante l’esame alcune contestazioni ad Ingroia sono state fatte rispetto a dichiarazioni rese in un verbale del novembre 1992, in cui parlava di Borsellino e della diffidenza che questi aveva per Contrada rispetto ad alcune confidenze ricevute da Giovanni Falcone.
“Falcone sospettava che Contrada aveva avuto un ruolo nell’attentato all’Addaura fallito”, diceva in quel verbale. Oggi Ingroia ha dichiarato di “non saper dire che queste conoscenze fossero fonte diretta di Borsellino o altro. Certo poi una fonte fu anche Antonino Caponnetto che riferì delle diffidenze di Falcone. Ed anche Canale riferì di queste diffidenze. Che fossero dichiarazioni di prima mano di Borsellino mi sembra difficile”.
Ancora mafia-appalti
Altro argomento toccato è quello dell’ormai nota vicenda mafia-appalti. Quando era sostituto procuratore a Marsala Ingroia si occupò di uno stralcio su un appalto al porto turistico di Pantelleria. “Quell’indagine iniziò dopo che la procura di Palermo inviò parte del rapporto del Ros. Personalmente io ricordo una parte di un’ottantina di pagine con diversi omissis”. Rispondendo alle domande delle parti Ingroia ha anche ricordato la nota riunione del 14 luglio 1992, in cui si parlò dell’inchiesta in una riunione plenaria in Procura. “Borsellino non fece contestazioni, ma una richiesta di chiarimenti. Poi ci fu una battuta, non ricordo se con Lo Forte o con Pignatone, dove disse ‘non me la state raccontando bene questa cosa’. Alle volte lui faceva battute ironiche, col sorriso, ma lanciava dei piccoli messaggi anche per vedere la reazione della controparte”.
“La vicenda del rapporto del Ros nasceva dal fatto che lui intendeva approfondire le annotazioni che Falcone aveva annotato nella sua agenda elettronica, poi pubblicata da Liliana Milella. Lui diceva che Falcone era contrario che si scrivessero agende al tempo di Chinnici ed era rimasto colpito. Voleva capire il perché avesse superato questa sua posizione critica. Ed era convinto che nelle annotazioni potessero esservi dei richiami alla strage. E tra gli appunti c’erano annotazioni sul rapporto del Ros. Era uno dei temi da approfondire (perché negli appunti si parla anche di altro, come ricordato in precedenti udienze, come i riferimenti alle indagini su Gladio, ndr). Per approfondire mi chiese di organizzare un incontro riservato con Scarpinato, uno dei falconiani della Procura, ma non mi commentò l’esito. Ho letto che Scarpinato ha parlato di questo incontro”.
Durante la deposizione, rispondendo ad alcune domande dell’avvocato Fabio Trizzino, che è anche il genero del giudice ucciso nella strage, ha spiegato che Borsellino si fidava di lui e “pochi altri”. Borsellino aveva chiesto a Ingroia di affiancarlo nella gestione di due collaboratori, Gaspare Mutolo e Leonardo Messina. “Mi disse ‘Fai andare tutti questi in ferie e ci lavoriamo noi’. Perché stava andando in una procura che considerava per l’80 per cento controllata dal procuratore Giammanco. Poi c’era un gruppo sparuto chiamato in modo sprezzante i ‘Falconiani’ che per lui era un punto di riferimento”.
Quindi da una parte c’erano i “fedelissimi” di Giammanco (“Erano tutti gli aggiunti, tra cui Vittorio Aliquò, ad esempio. Ma anche pm come Giuseppe Pignatone, Guido Lo Forte o Sciacchitano. Era l’establishment del tempo”). E dall’altra, appunto, i falconiani. Su sollecitazione dell’avvocato di Salvatore Borsellino, Fabio Repici, ha dunque ricordato i nomi di chi firmò la “sfiducia” a Giammanco: “Il documento fu redatto da Scarpinato. Quell’iniziativa fu concepita in particolare da lui e da Alfredo Morvillo. Firmammo anche io, Ignazio De Francisci, Giovanni Ilarda, Antonio Napoli, Teresa Principato e Vittorio Teresi“.
Sempre stimolato nel ricordo dalle domande del legale ha ricordato alcuni passaggi dell’inchiesta su Contrada, in particolare alcune riunioni drammatiche in cui il magistrato Giusto Sciacchitano chiese che gli venisse revocata l’assegnazione dell’indagine su Contrada solo poco prima della richiesta di rinvio a giudizio, o ancora ciò che gli disse Borsellino sul famoso anonimo “Corvo 2”. “Borsellino era venuto a conoscenza di alcuni sospetti. A lui fu detto che probabilmente questo poteva venire dall’ambiente del Ros, perché si diceva da altri sostituti che nell’anonimo poteva esserci l’interesse proprio a valorizzare l’indagine mafia-appalti”.
L’ex legale di Andriotta: “Mai consegnati a lui documenti del pm”
Prima di Ingroia a salire sul pretorio erano stati altri due testimoni. La prima è stata l’avvocata Floriana Maris, ex legale dell’ex pentito Francesco Andriotta. “Escludo di avere mai consegnato dei documenti o degli atti con degli appunti della dottoressa Annamaria Palma a Francesco Andriotta” ha detto con certezza smentendo le dichiarazioni proprio dello stesso Andriotta’.
L’avvocata Maris, che ha assistito Andriotta solo per un’udienza nel 1995, è stata chiamata dalla difesa dell’imputato Mario Bo ed ha confermato quanto già detto durante un interrogatorio davanti alla Procura di Messina nel 2019, quando i pm indagavano sui pm Annamaria Palma e Carmelo Petralia, accusati di calunnia in concorso, la cui posizione è stata poi archiviata. “Assolutamente non ricordo, come pare abbia dichiarato Andriotta, che gli avessi consegnato dei documenti con degli appunti posti dalla dottoressa Palma. Noi siamo tra gli studi più stimati di Milano – ha ribadito oggi la legale – Per questo ero stata chiamata ad assistere prima il collaboratore Antonino Giuffrè. Visto che volevano un difensore con la bocca sigillata con ben presente le norme deontologiche. Io sono stata incaricata per questo dalla difesa, per cui mai e poi mai potevo accettare di fare il passacarte della procura”.
Rispetto a quella difesa che assunse al tempo, rispondendo alle domande del pm in controesame, ha ricordato: “Mi chiamò la dottoressa Palma per chiedermi se potevo assisterlo, perché viene sentito nel processo Borsellino. Eravamo a Rebibbia con i detenuti nelle gabbie urlanti, Andriotta venne letteralmente assalito non solo dagli imputati nelle gabbie ma anche dai loro difensori, perché il suo esame non si svolse sui fatti di causa ma sulle sue abitudini sessuali, omosessuali, un’udienza terribile senza nessuna civiltà. E Andriotta ebbe anche una crisi di nervi. Il clima era questo”.
La ritrattazione di Scarantino nel ricordo dell’avvocato Foresta
Altra testimonianza odierna quella dell’avvocato Santino Foresca che difese Scarantino prima come sostituto dell’avvocato Li Gotti, poi anche in prima persona. In particolare è stato chiamato a riferire di alcuni interrogatori avvenuti nel 1998, dove Scarantino ritrattò le proprie dichiarazioni per poi tornare sui propri passi.
“Il 2 settembre del 1998 era in corso l’interrogatorio del collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino, che io assistevo, quando a un certo punto il mio assistito ritrattò tutte le dichiarazioni fatte precedentemente” sulla strage di via D’Amelio, “dicendo di essere stato costretto a fare quelle dichiarazioni” ha detto Foresta. “Le sue parole sconcertarono un po’ tutti. Soprattutto i magistrati. Dopo un po’, nel corso dello stesso interrogatorio ritrattò la sua stessa ritrattazione e confermò quanto detto in precedenza ai magistrati”.
L’avvocato Foresta, che in passato ha assistito anche altri collaboratori come Gioacchino La Barbera e Santino Di Matteo, racconta in aula che quel giorno, nel 1998, all’interrogatorio, c’erano i pm Francesco Paolo Giordano, Annamaria Palma e Carmelo Petralia. “A me arrivò un avviso dell’interrogatorio – ha ribadito – All’epoca era la normalità, per cui mi recai alla Dna per assistere all’interrogatorio. Era stato assistito prima dal mio collega di studio Li Gotti”. “Scarantino – ha ricordato – partì un po’ a ruota libera e cominciò all’improvviso a ritrattare tutte le dichiarazioni fatte precedentemente, queste sue parole sconcertarono un po’ tutti, ma soprattutto i magistrati che conoscevano gli atti di indagine. Diceva di avere avuto delle pressioni ma non disse da chi”. E alla domanda dell’avvocato Scozzola se fossero stati i pm ha risposto: “Non penso proprio, i pm erano sconcertati. Petralia si mise le mani nei capelli. Ci si chiedeva: ‘se si è inventato tutto come fa a sapere alcune cose precise?’. Però nessuno fece riferimento a qualcosa di specifico. Dopo un po’ nel corso dello stesso interrogatorio ritrattò la ritrattazione. Quindi l’interrogatorio finì con la conferma del primo interrogatorio”. Foresta ha anche ricordato che vi fu una breve sospensione per “verbalizzare la ritrattazione”. Un dato che nel verbale ritrovato non compare. “Scarantino quando ritrattò la ritrattazione spiegò che aveva dei problemi derivanti soprattutto dalla moglie – ha detto ancora Foresta – rese plausibile la ritrattazione della ritrattazione. Disse che si era creata una tensione all’interno della sua famiglia. E per questo voleva ritrattare e tornare sui suoi passi. I magistrati prima restarono sconcertati poi presero per buona questa dichiarazione, ma una parte dello sconcerto era rimasto”. “Poi ritrattò la ritrattazione – racconta – e le cose tornarono alla normalità”. “Ma la parte sulla ritrattazione non fu cristallizata”, cioè non fu messa a verbale. Il teste, dunque, non ha ricordato chi avesse verbalizzato al tempo.
Il processo è stato poi rinviato al prossimo 22 dicembre.