di LIANA MILELLA/larepubblica
Fino a tre anni di carcere. È questo il primo frutto avvelenato del decreto sulle intercettazioni. Da sei mesi a tre anni per il giornalista che, facendo il suo lavoro, troverà e deciderà di pubblicare una registrazione considerata «irrilevante» dal pubblico ministero per il suo processo, ma rilevantissima invece per la notizia che contiene.
Un documento con la classificazione di segretezza – come esplicitamente è scritto nel decreto del Guardasigilli Andrea Orlando – che però è stato temporaneamente escluso dal fascicolo processuale. Troppo facile quindi, per chi vuole incriminare il giornalista, non contestargli l’articolo 684 del codice penale, cioè “la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, arresto fino a 30 giorni o ammenda da 51 a 258 euro, quindi oblabile.
Visto che il documento è segreto e in quel momento è “fuori”, anche se temporaneamente, dal procedimento penale, si può contestare al giornalista, in concorso con il pubblico ufficiale che gli ha dato la notizia, l’ articolo 326 del codice penale, “rivelazioni di segreti d’ufficio”. Un reato pesante, punito appunto con la reclusione da sei mesi a tre anni.
Proprio nelle stesse ore in cui la Federazione nazionale della stampa chiede al governo «di rivedere la proposta sulle intercettazioni» e sollecita al Parlamento «radicali modifiche», tra i magistrati e gli esperti di diritto dell’ informazione serpeggia l’ allarme sul rischio delle manette per i cronisti.
Basta leggere il testo del decreto all’ articolo 3 e seguire i passaggi. «Gli atti e i verbali relativi a comunicazioni e conversazioni non acquisite sono immediatamente restituiti al pm per la conservazione nell’ archivio riservato e sono coperti da segreto». E ancora: «Non sono coperti da segreto i verbali e le registrazioni acquisite al fascicolo processuale».
Quindi i nastri scartati dai magistrati e chiusi nella cassaforte ad alta sicurezza le cui chiavi e la cui responsabilità sono nelle mani del solo capo della procura, in questa fase non sono inseriti nel fascicolo processuale, nel quale invece figurano tutti gli altri atti e le registrazioni che hanno avuto il via libera del pm perché considerati utili e necessari per provare il reato.
È ovvio che non si potranno più applicare le stesse regole se il cronista pubblica gli atti del procedimento penale, che contiene le carte sdoganate e ammesse dal pm, o se invece diffonde il materiale divenuto top secret ed escluso proprio per questa ragione dal fascicolo.
Nel primo caso si continuerà a contestare l’ articolo 684, la “pubblicazione arbitraria degli atti di un procedimento penale”, nel secondo scatterà la rivelazione di un segreto d’ ufficio.
Sia il premier Gentiloni che il Guardasigilli Orlando, presentando il decreto a palazzo Chigi, hanno insistito sul fatto che il diritto di cronaca «è salvo».
È vero che il decreto non interviene sulle pene per chi pubblica gli atti. Ma questo non deve stupire perché proprio il 326, la rivelazione di segreti d’ ufficio in concorso con il pubblico ufficiale, è stata più volte utilizzata per colpire e intimidire i cronisti. E si trattava di atti sì segreti, ma che non erano stati espressamente esclusi dal fascicolo del processo e inseriti volontariamente in una sorta di limbo di segretezza. Proprio come avviene adesso con la nascita dell’ archivio riservato che, dopo 180 giorni dalla piena entrata in vigore del decreto, giusto il tempo per le procure di organizzarsi, diventerà obbligatorio per ogni ufficio.
È evidente allora che il mestiere del cronista si complica e diventa ancora più a rischio. Non solo, come scrive la Fnsi, ci sarà l’ obbligo per le toghe di utilizzare «quando è necessario solo i brani essenziali delle intercettazioni» che spingerà nella zona grigia del segreto notizie che magari non hanno rilevanza penale, ma ne hanno dal punto di vista giornalistico. Ma per di più pubblicare quelle carte diventerà estremamente rischioso, con la prospettiva concreta di finire in cella per aver rivelato intercettazioni segrete che soprattutto la politica non vuole vedere sui giornali.
5.11.2017