di Manlio Dinucci
Il mondo guarda speranzoso a Washington perché aiuti il governo iracheno ad arginare l’avanzata di quella che il presidente Obama definisce «l’organizzazione terrorista che opera sia in Iraq che in Siria», dicendosi pronto a ogni opzione salvo l’invio di truppe. È questa l’immagine diffusa dai grandi media che, come nel romanzo di Orwell, riscrivono in continuazione la storia, cancellando sia le sue pagine recenti (vedi il sostegno della Cia ai gruppi fondamentalisti islamici in Libia e in Siria), sia soprattutto quelle del passato, a partire dalle due guerre contro l’Iraq. Importante è quindi ricostruirle in termini essenziali.
La prima guerra del dopo guerra fredda
L’Iraq di Saddam Hussein, che invadendo il Kuwait il 2 agosto 1990 dà modo agli Stati uniti di mettere in pratica la strategia del dopo guerra fredda, è lo stesso Iraq fino a poco prima sostenuto dagli Stati uniti. Dal 1980, essi lo hanno aiutato nella guerra contro l’Iran di Khomeini, allora «nemico numero uno». Il Pentagono ha fornito al comando iracheno anche foto satellitari dello schieramento iraniano. E, su istruzione di Washington, il Kuwait ha concesso all’Iraq grossi prestiti.
Ma, una volta terminata la guerra nel 1988, Washington teme che l’Iraq, grazie anche all’assistenza russa, acquisti un ruolo dominante nella regione. Cambia di conseguenza l’atteggiamento del Kuwait, che esige da Baghdad l’immediato rimborso del debito e, sfruttando il giacimento di Rumaila esteso sotto ambedue i territori, porta la propria produzione petrolifera oltre la quota stabilita dall’Opec. Danneggia così l’Iraq, uscito da otto anni di guerra con un debito estero di oltre 70 miliardi di dollari, 40 dei quali dovuti a Kuwait e altri paesi del Golfo. A questo punto Saddam Hussein pensa di uscire dall’impasse «riannettendosi» il territorio kuwaitiano che, in base ai confini tracciati nel 1922 dal proconsole britannico Sir Percy Cox, sbarra l’accesso dell’Iraq al Golfo.
Gli Stati uniti, che conoscono nei dettagli il piano, lasciano credere a Baghdad di voler restare fuori dal contenzioso. Il 25 luglio 1990, mentre i satelliti militari mostrano che l’invasione è ormai imminente, l’ambasciatrice Usa a Baghdad, April Glasbie, assicura Saddam Hussein che gli Stati uniti non hanno alcuna opinione sulla sua disputa col Kuwait e vogliono le migliori relazioni con l’Iraq. Una settimana dopo, il 1° agosto, Saddam Hussein ordina l’invasione, commettendo un colossale errore di calcolo politico.
Gli Stati uniti bollano l’ex alleato come nemico numero uno e, formata una coalizione internazionale, inviano nel Golfo una forza di 750mila uomini, di cui il 70 per cento statunitensi, agli ordini del generale Norman Schwarzkopf. Il 17 gennaio 1991 inizia l’operazione «Tempesta del deserto». In 43 giorni, in quella definita «la più intensa campagna di bombardamento della storia», l’aviazione Usa e alleata (tra cui quella italiana) effettua con 2.800 aerei oltre 110mila sortite, sganciando 250mila bombe, tra cui quelle a grappolo che rilasciano oltre 10 milioni di submunizioni. Il 23 febbraio le truppe della coalizione, comprendenti oltre 500mila soldati, lanciano l’offensiva terrestre che, dopo cento ore di carneficina, termina il 28 febbraio con un «cessate-il-fuoco temporaneo» proclamato dal presidente Bush. Nessuno sa con esattezza quanti siano i morti iracheni: secondo una stima circa 300mila, tra militari e civili, sicuramente molti di più. In migliaia vengono sepolti vivi nelle trincee con carri armati, trasformati in bulldozer.
L’embargo e l’occupazione dell’Iraq
Nella prima guerra, Washington decide di non occupare l’Iraq, per non allarmare Mosca nella fase critica dello scioglimento dell’Urss e per non favorire l’Iran di Khomeini. Per questo a Washington scelgono di fare un passo alla volta, prima colpendo l’Iraq, poi isolandolo con l’embargo Nei dieci anni successivi, a causa dell’embargo, muoiono circa mezzo milione di bambini iracheni, più altrettanti adulti, uccisi dalla denutrizione cronica, dalla carenza di acqua potabile, dagli effetti dell’uranio impoverito, dalla mancanza di medicinali.
Questa strategia, iniziata dal repubblicano Bush (1989 –1993), viene proseguita dal democratico Clinton (1993 –2001). Mutano però, negli anni Novanta, alcune condizioni. L’obiettivo dell’occupazione dell’Iraq, in una posizione geostrategica chiave nella regione mediorientale, è ritenuto ora fattibile. Il Project for the New American Century, un gruppo di pressione nato allo scopo di «promuovere la leadership globale americana», nel gennaio 1998 chiede in una lettera aperta al presidente Clinton di «intraprendere una azione militare per rimuovere Saddam Hussein dal potere». In un successivo documento (settembre 2000) precisa che, «l’esigenza di mantenere nel Golfo una consistente forza militare americana trascende la questione del regime di Saddam Hussein», dato che il Golfo è «una regione di vitale importanza» in cui gli Stati uniti devono avere «un ruolo permanente».
La nuova strategia, di cui George W. Bush (figlio del presidente autore della prima guerra) diviene esecutore, viene decisa dunque prima che egli sia insediato alla presidenza nel gennaio 2001. Essa riceve un impulso decisivo con gli attentati terroristici dell’11 settembre 2001 a New York e Washington (la cui regia – dimostra una serie di prove – è sicuramente interna). L’intenzione di occupare l’Iraq appare evidente quando, dopo aver invaso l’Afghanistan nel 2001, il presidente Bush mette l’Iraq al primo posto tra i paesi dell’«asse del male». Nel febbraio 2003, il segretario di stato Colin Powell presenta al Consiglio di sicurezza dell’Onu le «prove» – fornite dalla Cia e rivelatesi poi false per ammissione dello stesso Powell – che il regime di Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa e sostiene attivamente Al Qaeda. Poiché il Consiglio di sicurezza si rifiuta di autorizzare la guerra, gli Stati uniti lo scavalcano. Il 19 marzo, inizia la guerra che porterà all’occupazione dell’Iraq. Il 1° maggio, a bordo della portaerei Lincoln, il presidente Bush annuncia «la liberazione dell’Iraq», sottolineando che in tal modo gli Stati uniti «hanno rimosso un alleato di Al Qaeda».
fonte: il manifesto, 18 giugno 2014