di Laura Naka Antonelli
ROMA (WSI) – Altro che Grexit o Brexit: sarà l’Italia a distruggere il sogno europeo e a trascinare tutti gli altri paesi nell’abisso. E’ il risultato dell’analisi che appare sul sito di informazione economica Bawerk.net.
“L’Italia è abbastanza grande da avere una importanza (è l’ottava economia sul pianeta). Noi riteniamo che l’Italia, nell’arco del prossimo o dei prossimi due anni, sarà sui radar di tutti, considerato il potenziale che ha di deragliare il progetto europeo. Grecia, Portogallo e Irlanda sono stati semplici soggetti di prova, di ciò che avverrà. La Spagna sarebbe stata una sfida, ma alla fine (il pericolo) è stato evitato. L’Italia (invece) trascinerà tutti con sé se continuerà a seguire l’attuale traiettoria. E non c’è nulla che lasci suggerire che le cose cambieranno”.
L’analisi continua:
“Il principale problema per l’Italia è il suo livello stagnante del PIL, che noi interpretiamo come una ‘Giapponizzazione” per l’economia. Sebbene di norma di tende a pensare alla deflazione, quando si sente la parola “Giappone”, tale osservazione non è del tutto corretta. E’ vero che il Pil nominale (del Giappone) si sgonfiò dopo la crisi degli anni ‘Novanta, fattore che zavorrò le entrate. Tuttavia, se si fosse trattato di un periodo di vera deflazione, il valore della spesa (pubblica) sarebbe sceso altrettanto, in quanto i prezzi pagati per i servizi erogati sarebbero scesi contestualmente. Ma non è questo quanto accaduto in Giappone, ed è più corretto affermare che il Giappone è rimasto intrappolato in una deflazione entrate/Pil nominale. Di qui, il bisogno percepito di ricorrere all’Abenomics o, detto in modo più chiaro, alla creazione boom di moneta, al fine di sostenere il Pil nominale e le entrate, e riducendo in questo modo il bisogno di emettere Bond“.
Così come mostra il primo grafico, prosegue l’articolo, il successo è stato finora modesto. “Notate che l’Abenomics non ha nulla a che vedere con la creazione di una vera prosperità (nessuno potrebbe essere così ignorante), ma è una strategia per tentare di tenere sotto controllo il problema della spirale del debito, aumentando la tassa sull’inflazione .
Ecco il grafico sul Giappone, che fa riferimento al trend negli anni del Pil nominale, delle entrate fiscali, della spesa pubblica, e dell’emissione di bond.
Ma quale spending review. La spesa pubblica è il cancro dell’Italia
L’Italia – continua l’analisi – si trova più o meno nella stessa situazione, dal momento che le entrate fiscali non riescono a tenere il passo con la spesa pubblica corrente, ovvero con i consumi del governo. Tra l’altro:
“gli investimenti – che oggi potrebbero essere ridotti senza conseguenze immediate – soffrono tanto che al momento, su base nominale, si trovano allo stesso livello degli inizi degli anni ’80 (vedi voce Capital Expenditure nel grafico di cui sotto). Ora, in una situazione in cui le entrate fiscali languono e le spese correnti continuano a salire, la differenza di norma viene finanziata attraverso l’emissione di debito, dunque di titoli di stato. Il punto è che “il gigante buco tra le future prospettive (funzione di cattive decisioni prese in passato) e le entrate è diabolicamente difficile da sanare, dal momento che richiederebbe grandi sacrifici oggi, senza tra l’altro alcun guadagno negli anni a venire”.
Paragonando l’Italia al Giappone, si può dire che anche nel caso italiano l’economia è in trappola, con un Pil nominale stagnante accompagnato da crescenti livelli di debito, che vengono utilizzati per pagare le spese correnti.
“Così come mostra il prossimo grafico, c’è un senso di inevitabilità nella torta italiana. Sappiamo tutti che il giorno del giudizio arriverà, dal momento che la traiettoria attuale è, per dirla chiaramente, non sostenibile. Qualcuno ci rimetterà, visto che lo Stato italiano, così come quello giapponese, utilizza i risparmi delle famiglie per finanziare i suoi consumi, dando al popolo la sensazione di investire i suoi soldi per il futuro. In altre parole, le famiglie italiane stanno investendo i loro risparmi in una banca in fondi pensione pubblici (come l’INPS, che sono utilizzati per finanziare le pensioni di chi va in pensione ora, ma che dovrebbero anche garantire liquidità per le pensioni del futuro”
Il punto è che i risparmi NON CI SONO: essi sono visibili solo nei documenti di bilancio, ma non esistono come controparte degli investimenti produttivi su base reale.
Di seguito il grafico sul debito italiano e sul Pil nominale in trilioni di euro
Investimenti inghiottiti nel buco nero delle spese statali
“Visto che gli investimenti produttivi sono inghiottiti nel buco nero nelle spese di uno Stato che non smette di espandersi e nel bisogno incessante di finanziare le spese correnti, le banche possono fare molto poco per alimentare gli investimenti e sostenere la crescita. Non è una coincidenza il fatto che gli asset delle banche stiano stagnando come il Pil nominale. Entrambi sono strettamente interconnessi, dal momento che, non trovando clienti che vogliano o che siano capaci di prendere soldi a prestito e investire, le banche riducono (gli asset) e dunque la crescita della moneta si ferma bruscamente, che sia attraverso il calo del moltiplicatore monetario e/o il calo della velocità di circolazione. In ognuno dei due casi, il Pil nominale smette di espandersi, mentre la fame insaziabile di spesa pubblica continua a far salire in modo incosciente il debito pubblico.
L’analisi prosegue, ricordando tutte le manovre che sono state adottate dalle banche centrali fino a poco fa, tra cui quelle con cui è stata inaugurata l’era dei tassi negativi o è stato prima lanciato e poi esteso il QE. Tutto, al fine di manipolare la domanda per il credito.
“Non c’è bisogno di dire che questa, tanto per iniziare, è una politica spacciata”.
Se mancano persone che prendono a prestito dotate di sufficiente merito creditizio, ovvero capaci di rimborsare i crediti eventuali che riceveranno, “costringere le banche a erogare prestiti a persone che non dispongono di merito creditizio si rivela una incredibile follia”. Ma il bisogno disperato di creare una crescita del Pil nominale è così profondo da travalicare le norme del buon senso. E in questo senso è interessante notare che i settori che hanno assistito a una crescita positiva dei prestiti, dopo che la Bce le ha provate tutte, sono esattamente i settori non produttivi che devono ancora effettuare un processo di deleveraging e liberare risorse al settore produttivo. Cosa che non sta avvenendo”.
In questo contesto:
“Non sorprende che gli investimenti dell’Italia siano indietro. Stando ai dati dell’Eurostat, su base lorda gli investimenti di oggi sono inferiori a quelli della metà degli anni ’90. Visto che la base del capitale si deprezza del 20% circa su base annua, non saremmo sorpresi di apprendere che lo stock di capitale in Italia è in fase terminale, visto che l’attuale struttura della produzione e il trend dei consumi non possono essere sostenuti senza un reale consumo di stock di capitale”.
Un altro fattore che mette in evidenza il buco nero che sta inghiottendo l’Italia è il calo della produttività del lavoro.
“Se il capitale per lavoratore scende, così come accade in una situazione dove, attraverso il deprezzamento, il capitale viene consumato, si dovrebbe prevedere una produzione inferiore per lavoratore. Ed è questo, esattamente, quanto sta accadendo in Italia da 15 anni a questa parte. Il processo ha accelerato il passo con il picco testato dagli investimenti, ed è sceso dopo la Grande Crisi Finanziaria, proprio come da attese”.
Il problema delle sofferenze bancarie
Tutto ciò avviene in un contesto in cui le banche italiane sono alle prese con “crediti non performanti (NPL) che valgono in via ufficale 200 miliardi di euro, e che stime non ufficiali fanno lievitare fino a 350 miliardi di euro.
“A un valore di 200 miliardi di euro, la crescita è di due cifre su base percentuale l’anno e rappresenta oltre il 12% del Pil nominale”.
Come far fronte alle sofferenze che stanno dilaniando i bilanci delle banche? Nella sua audizione al Parlamento europeo, il numero uno della Bce, Mario Draghi, ha parlato della possibilità che gli NPL delle banche possano essere “aggiunti alle ABS (asset backed securities) in modo da poter entrare a far parte del programma di acquisto di asset QE della Bce“.
“Sarebbe una vittoria per le autorità monetarie, in quanto il programma attuale del QE, diversamente dagli altri interventi della Bce, rimuove davvero il rischio sul credito dai bilanci delle banche. In più, più ABS allevierebbero il problema della scarsità di asset (da acquistare), con cui la Bce è al momento alle prese. Francoforte sta infatti cercando in modo frenetico asset aggiuntivi da acquistare al fine di evitare la trappola della Bank of Japan. E oggi, meno del 5% degli asset bancari dell’Italia sono cartolarizzati, in una situazione in cui il programma di ABS della Bce è quello che ha meno successo, con ABS acquistate per appena 18 miliardi di euro, rispetto ai 155 miliardi del terzo programma di acquisto di Covered Bond e ai quasi 600 miliardi di euro acquistati nel settore pubblico.
Italia, l’illusione della Bce. La soluzione è l’arrivo di una vera crisi
Ma “il problema sottostante di solvibilità è ovviamente non risolto da questo trucco, con il rischio sul credito che si è appena trasferito dal settore bancario privato al settore pubblico. E questo ci dice che quanto è probabilmente ovvio a tutti, inclusi agli uomini e alle donne che sono al potere, è che l’unica cosa che potrà davvero provocare un cambiamento reale è una crisi reale. Solo allora potremo affrontare onestamente la realtà attraverso la svalutazione dei debiti, il riallineamento dei consumi con la produzione (..) l’elettorato, i politici e la maggior parte dei politici che guidano l’Italia e l’Europa decideranno sempre di adottare o estendere una opzione, fino a quando essa sarà loro disponibile; e questo è vero specialmente quando loro stessi sono sprofondati in problemi così forti, che non esiste alcun modo piacevole per venirne fuori. In altre parole, il cambiamento, il vero cambiamento, non arriverà fino a quando non sarà assolutamente necessario, e imposto dalla fine dei giochi monetari”.
“L’Italia è un treno che procede gradualmente verso lo schianto finale. I consumi dell’Italia superano la produzione, come è stato per anni. L’erosione della base del capitale continua, la produttività del lavoro scende (e non abbiano neanche toccato il peggio della situazione demografica) e il tenore di vita sta stagnando. L’unica cosa che permette all’Italia di continuare è la sua capacità di rifinanziare ed emettere debito”.
Roma rischiò, continua il report, di perdere però anche l’accesso ai mercati per rifinanziarsi nel 2012. Il punto è che da allora nulla è cambiato, dal momento che l’Italia ha bisogno di procedere al roll over di bond per un valore pari al 25% del Pil.
“La chiave ovviamente è avere a disposizione un sistema bancario ‘sano’ che sbbia voglia e sia capace di continuare ad acquistare i nuovi titoli di stato emessi”.
Con un rapporto debito/pil superiore al 100%, la sensibilità dei tassi di interesse sale in modo esponenziale. Se in media gli interessi pagati sul debito insoluto crebbero di appena 40 punti base nel corso della crisi dell’euro del 2012, le spese per interessi in rapporto al Pil avanzarono di 80 punti base”.
Fu ovviamente la Bce a salvare l’Italia.
Brexit, una speranza? Solo cose buone con fine parassiti di Bruxelles
L’articolo si conclude con una premonizione e una speranza malcelata:
Quando il racconto della Bce passerà dalla fase di onnipotenza a quella di fallimento, l’Italia potrebbe non essere così fortunata.
“Se ci basiamo sulla media dei tassi di interesse italiani del periodo 2000-2005, pari al 4,8%, arriviamo alla conclusione che l’Italia oggi dovrebbe utilizzare il 6,5% del suo Pil solo per pagare gli interessi sul debito. Quando finalmente l’Italia si arrenderà alla realtà, quest’anno o il prossimo, il progetto europeo, così come viene chiamato, farà fronte a ostacoli insormontabili e collasserà su se stesso. A nostro avviso, assistere alla fine di questo edificio di parassiti di Bruxelles potrà portare solo a buone cose. E forse sarà il popolo britannico a salvarci dall’agonia e a porre fine a tutto il prossimo 23 giugno. Possiamo solo sperare”.
24 febbraio 2016