Balcani: esperto all’ ANSA, ritorni dei foreign fighter una sfida seria. L’Ue dovrebbe aiutare finanziariamente e con assistenza tecnica, avverte Stefano Giantin da Belgrado.
Ritorni e potenziali minacce
Da Belgrado, la capitale del Paese certamente meno coinvolto nel fenomeno ma forse più direttamente minacciato di altri, l’allarme all’Europa attraverso Stefano Giantin, dell’agenzia Ansa.
«I Balcani occidentali sono l’area d’Europa con la più alta concentrazione di “foreign fighters” rientrati dalla Siria e dall’Iraq e l’Europa dovrebbe aiutare la regione a far fronte a questa sfida a lungo termine. Lo suggerisce Adrian Shtuni, Ceo della Shtuni Consulting e fra i principali esperti di terrorismo e d’estremismo violento nei Balcani, in un’intervista all’ANSA. Pensa che l’Ue dovrebbe fare di più per aiutare i Paesi dei Balcani a far fronte ai ritorni da Siria e Iraq dei “foreign fighter”? Uno dei principali risultati della mia ricerca è che i Balcani occidentali sono attualmente la regione in Europa con la più alta concentrazione di “returnees” dalla Siria e dall’Iraq».
Il numero ufficiale è di circa 460 persone. La concentrazione è ancora maggiore se si prendono in considerazione le singole nazioni. Il Kosovo conta 134 ritornati per milione di abitanti.
Islam balcanico arrabbiato
«La Macedonia settentrionale ne ha 42 per milione. Per mettere in prospettiva questi numeri, il Regno Unito ha 6 rimpatriati che pongono “problemi di sicurezza nazionale” per milione, Germania e Francia circa 4 per milione. L’Italia ha solo 12 rimpatriati segnalati (0,2 per milione) in totale. I numeri descrivono chiaramente le dimensioni delle sfide sociali e alla sicurezza nazionale. Partita a lungo termine che diventa ancora più scoraggiante se si considerano le risorse finanziarie insufficienti e le capacità e le competenze specialistiche disponibili nei Balcani».
Altri 500 ancora sul campo
«La necessità di assistenza è abbondantemente chiara, soprattutto se si considera che altri 500 cittadini dei Balcani occidentali sono ancora in Siria e in Iraq, detenuti principalmente in prigioni e campi curdi, in attesa di essere rimpatriati. Il loro eventuale ritorno è destinato ad intensificare la sfida. L’Ue e le sue agenzie specializzate farebbero bene a prendere in esame qualsiasi tipo di assistenza per affrontare questo confronto, meno come “aiuto ai Balcani” e più come un investimento strategico nella sicurezza dell’Ue».
I rimpatriati da Siria e Iraq rappresentino un serio rischio per la sicurezza dei Balcani e dell’Europa?
Non esiste una risposta univoca
«I ritornati associati in un modo o nell’altro, attivamente o passivamente, a una organizzazione terroristica come lo Stato islamico rappresentano per definizione un potenziale rischio per la sicurezza nazionale. Tuttavia, è importante fare una distinzione tra “rischio” generale di sicurezza (o pericolo) e “minaccia” alla sicurezza. Mentre il potenziale rischio dei rimpatriati non è in discussione, il fatto che rappresentino o meno una minaccia effettiva dovrà essere determinato attraverso valutazioni su ciascun individuo da parte di professionisti».
Non soltanto perseguire
«Oltre al monitoraggio da parte delle forze dell’ordine, i ritornati richiedono supporto psicologico e sociale per il successo della riabilitazione e del reinserimento. Il primo obiettivo sarebbe quello di ottenere che i ritornati – e quelli che escono dalle carceri dopo aver scontato una pena per attività terroristiche – si distacchino dall’estremismo violento. Inoltre i bambini (dei foreign fighter, nda) dal punto di vista umanitario sono vittime, perché non hanno deciso di andare o di nascere in Siria e Iraq. Tuttavia, non è possibile ignorare il fatto che alcuni hanno ricevuto addestramento militare in campi terroristici, sono stati pesantemente indottrinati, a volte hanno partecipato a combattimenti armati e forse all’esecuzione di prigionieri».
Esistono numerosi film di propaganda che mostrano campi di addestramento per i bambini dei mujaheddin, i “cuccioli del califfato”.
Allo stesso modo, la lettura che le donne sono state per lo più vittime, andate in Siria contro la loro volontà, o sono state manipolate dai loro coniugi, ma è una generalizzazione non supportata da prove.
Propaganda jihadista sui social ancora in corso?
«Mentre recentemente c’è stato un calo della propaganda jihadista prodotta nelle lingue dei Balcani occidentali, i “jihadisti dei social media” continuano costantemente a prendere di mira il pubblico della regione, a diffondere l’ideologia e la propaganda di organizzazioni terroristiche come ISIS e al Qaeda, a incitare alla violenza terroristica. In un certo senso ciò non dovrebbe sorprendere in quanto i “foreign fighter” sono solo la manifestazione più visibile di un più grande problema jihadista nei Balcani occidentali, che include coloro che, sebbene impegnati nella causa, potrebbero non aver mai viaggiato in Siria e Iraq per condurre il jihad con le armi».
Mimetismo ‘social’
Migrati dalle piattaforme più popolari come Facebook o Twitter a quelle che forniscono più anonimato e crittografia.
«Ciò rende più difficile il compito delle forze dell’ordine incaricate di monitorare questi gruppi di “jihadisti dei social media”. La diffusione online della propaganda jihadista è un fenomeno in atto. Il fatto che la presenza jihadista online sia meno visibile rispetto a qualche anno fa non è necessariamente un indicatore di un minore impegno per la causa da parte dei radicali locali. Mentre la sconfitta territoriale del Califfato potrebbe aver smorzato l’entusiasmo degli aspiranti jihadisti di combattere all’estero, il numero di attacchi terroristici sventati di recente e gli arresti legati al terrorismo nei Balcani sono indicativi di attività terroristiche in corso nella regione».
16 Settembre 2019