da Clash City Workers
Logica ed ideologia di una controriforma
Il 20 febbraio scorso il Governo Renzi ha approvato i primi due decreti attuativi della Legge delega cosiddetta Jobs Act. Abbiamo così una nuova disciplina del licenziamento illegittimo, plasmata sulla figura del “contratto a tutele crescenti”, e una nuova disciplina degli ammortizzatori sociali.
La retorica che ammanta questi due decreti è la stessa che ha alimentato la propaganda della Legge Delega, e la conosciamo bene: in un’epoca di mercati globalizzati e competitivi, le aziende devono prendere decisioni veloci ed essere libere di allocare istantaneamente e come meglio credono le risorse produttive, come la forza lavoro. Il sistema ha quindi bisogno di flessibilità. Un mercato del lavoro troppo rigido, in cui risulta troppo difficile per le aziende disporre liberamente dei lavoratori, licenziando quando e come vogliono, disincentiva le imprese ad assumere, aumenta la disoccupazione ed ha un effetto in generale negativo sulla competitività dell’intero sistema-paese; determina inoltre un sistema iniquo per gli stessi lavoratori, visto che le aziende finiscono per ricorrere alla flessibilità di cui hanno bisogno attingendo ad un bacino di “esclusi”, perennemente penalizzati rispetto ai “garantiti” ed alle loro tutele, tanto da portare l’intero peso della flessibilità di cui il sistema avrebbe bisogno.
Se questa è la premessa, in linea con la retorica di Governo e padroni, questa la soluzione: eliminando le rigidità e lasciando così il mercato libero di agire si contribuirebbe a risolvere non solo il problema della competitività del sistema-paese, ma anche quello della disoccupazione e dell’iniqua divisione tra lavoratori garantiti e precari, o anche l’“apartheid” tra “core e periphery workers” (usando il lessico del Senatore Ichino, tra i principali promotori del Jobs Act).
Proprio Ichino sintetizza bene la logica del provvedimento, in una relazione al Senato in cui spiega come “dal vecchio sistema tendente a difendere il lavoratore dal mercato del lavoro [con il Jobs Act si passa] a un sistema di protezione tendente a difenderlo nel mercato”. Nel mercato si troverebbe quindi non la causa dei problemi dei lavoratori italiani – come pretenderebbe una vecchia ideologia – bensì la soluzione. La soluzione ai problemi causati, in primis, da un “un ordinamento del lavoro caratterizzato da profonde disparità di protezione, generatore di quel dualismo delle tutele che negli ultimi anni ci è stato ripetutamente rimproverato dall’Unione Europea”.
Proprio sulle pressioni internazionali è tornato, sempre in una relazione al Senato, un altro grande alfiere della riforma, l’ex-ministro del lavoro Sacconi, sottolineando come la “necessità di superare le rigidità in uscita [cioè la difficoltà di licenziare] del mercato del lavoro italiano è stata oggetto di sollecitazioni da parte di istituzioni sovranazionali, quali l’Unione Europea, la BCE e l’OCSE”. Come dimenticare in effetti la famigerata lettera che la BCE mandò al Governo Berlusconi nell’estate 2011 in cui, tra le misure necessarie ad “accrescere il potenziale di crescita” si indicava proprio una “revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti” di modo da facilitare “la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori più competitivi”. D’altronde, come prosegue sempre l’ex-Ministro, se si prende in considerazione l’indice EPL (Employment Protection Legislation) elaborato dall’OCSE, come misura del grado di rigidità dei regimi posti a tutela dell’impiego, va sottolineato che le riforme intervenute in Italia fino al 2012 hanno comportato una riduzione di tale indicatore legata solo alla maggiore flessibilità in entrata.”
Insomma, per i padroni è stato più facile assumere attraverso convenienti contratti “atipici” o agenzie interinali, ma è rimasto difficile licenziare. Almeno finora.
Se la riforma Fornero è intervenuta solo parzialmente su questo fronte, ci ha pensato il Jobs Act ad affondare il colpo, guadagnando l’immediato plauso dell’OCSE, per la soddisfazione del Ministro Padoan il quale vorrebbe convincerci di quanto la riforma del mercato del lavoro produrrà “un beneficio gigantesco”, con “più occupazione, ricchezza, e quindi più fiducia dei cittadini”.
L’ideologia dietro la logica
A parte per la gran parte della stampa italiana, che si è dimostrata allineata e pronta a bersi per intero la retorica governativa, a chiunque risulterebbe facile svelarne le contraddizioni.
Il primo paradosso è che a lamentarsi dell’iniquità che regnerebbe nel mercato del lavoro italiano, è proprio chi per primo ha contribuito a crearla, come appunto l’ex-ministro Sacconi, principale artefice di quella selva di contratti “atipici” in cui è intrappolato l’esercito di precari delle cui sorti adesso paventa profonda preoccupazione. Ma poi è proprio il tipo di soluzione proposta a svelarne l’ipocrisia: con il nuovo contratto a tempo indeterminato a “tutele crescenti”, l’instabilità occupazionale caratteristica del mondo del lavoro precario non viene combattuta, ma piuttosto estesa anche a chi finora ha goduto di -relative- garanzie! Il prezzo dell’uguaglianza sarebbe quindi un generale livellamento al ribasso, “quasi che il mercato del lavoro fosse uno di quegli ambiti in cui il mal comune equivale a mezzo gaudio”, come dice bene il giudice del lavoro Luigi Cavallaro.
In sostanza si fa leva su di una situazione drammatica che si è contribuito a creare per aggravarla e generalizzarla. Anche perché per contrastare l’utilizzo di contratti atipici, il massimo che si propone di fare il Ministro del Lavoro Poletti è sperare che il nuovo contratto a tempo indeterminato abbia “caratteristiche di attrattività normativa ed economica in grado di invertire la tendenza in atto in questi anni che ha visto aumentare i contratti precari”.
Perché infatti niente o quasi è stato intaccato nella selva dei contratti atipici, che anzi sono stati addirittura incoraggiati: per esempio attraverso la facilitazione dell’uso dei contratti a tempo determinato (grazie all’eliminazione della causale e alla possibilità di rinnovarli ben 8 volte) prevista nella prima parte della riforma del lavoro approvata l’altr’anno. Infine, con il pretesto di ‘razionalizzarla’, viene anche indebolita l’attività ispettiva, fondando un’unica Agenzia di Ispezione del Lavoro (frutto della fusione di quella del Ministero, dell’Inps e dell’Inail) con lo scopo di dichiarato di risparmiare!
Anche la presunta estensione degli ammortizzatori sociali a categorie prima escluse è un’uguaglianza al ribasso: i 24 mesi di indennità NASPI sono solo per chi ha sempre lavorato nei quatto anni precedenti, l’ammontare dell’indennità è legato a quello dei contributi versati e cala progressivamente e – altra innovazione di Renzi – si perde il diritto alla disoccupazione in caso di rifiuto a svolgere attività di riqualificazione professionale o ad accettare le nuove offerte di lavoro proposte dai centri per l’impiego. D’altronde, il Governo mostra di quale “estensione” degli ammortizzatori parla quando prevede in sede di bilancio la diminuzione del gettito fiscale proveniente dalla tassazione degli ammortizzatori sociali.
Questo significa che o il nuovo contratto sarà talmente conveniente per i padroni – e quindi disastroso per i lavoratori!- da rimpiazzare contratti precari di sempre più facile utilizzo, o la situazione rimarrà invariata. In ogni caso non si vede proprio come verrebbe alleviata la “drammatica condizione” in cui versano i lavoratori italiani!
Inoltre, come dimostra un recente studio sulla disoccupazione in Italia 1, non c’è alcuna evidenza per cui la disoccupazione giovanile, quella cioè che più rifletterebbe le eccessive tutele dei lavoratori “garantiti”, sia dovuta alla rigidità del mercato del lavoro, mentre quello che è certo è che questa cresce quando cresce la disoccupazione generale. Questo significa che non sono i diritti di chi già lavora a rendere difficile ad un giovane trovare lavoro, ma che è l’andamento complessivo della disoccupazione a rendere più o meno facile un nuovo inserimento. Ma il Governo d’altronde insiste che sarà proprio grazie a questa riforma che aumenterà l’occupazione. È dalla Legge Treu del 997, passando per la Legge 30 e la Riforma Fornero, che assistiamo però a riforme peggiorative che vengono giustificate con il “rilancio dell’occupazione” e l’unica cosa ad esser stata rilanciata è la corsa al ribasso nelle condizioni di lavoro. Inoltre, come ammette O. Blanchard, capo economista del Fondo Monetario Internazionale e noto alfiere delle virtù salvifiche del mercato, dopo uno studio comparato sul mercato del lavoro in Europa: “le differenze nei regimi di protezione del lavoro appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi” 2. D’altronde proprio lo stesso OCSE 3, che pure ne è tra i principali promotori, ha recentemente messo in dubbio le doti della flessibilità nel generare occupazione e crescita (come molti economisti di sinistra sostengono da tempo). In effetti, una manodopera docile e ricattata può di certo essere ben più “produttiva”, ma questo può rappresentare un motivo per i padroni di investire ancor meno in macchinari e tecnologia, così che, nel complesso, la produttività del lavoro potrebbe addirittura calare 4. L’unica cosa a crescere sarebbe quindi lo sfruttamento!
Andando oltre l’ideologia con cui si traveste, è proprio questa la logica di questa ennesima controriforma.
La logica dell’ideologia
Per capirla torniamo su di un intervento che Mario Draghi, in qualità di presidente della BCE, fece due anni fa presso il Consiglio Europeo. Tra le slides mostrate in quella “lezioncina” ai capi di Governo dell’Unione, Draghi ne ha proiettate alcune in cui viene mostrato come i paesi europei in avanzo 5 siano quelli in cui, almeno fino all’avvento della crisi economica, i salari nominali sono cresciuti allo stesso livello della produttività (o addirittura meno), mentre i paesi in deficit, come l’Italia, sono quelli in cui i salari sono cresciuti maggiormente. Ma attenzione, quello che non hanno mancato di sottolineare tanti commentatori 6, è che i salari di cui parla Draghi sono quelli nominali, cioè non aggiustati con l’inflazione (che alzava i prezzi dei beni e quindi diminuiva il potere di acquisto di questi stessi salari). Se l’inflazione fosse tenuta in considerazione, si vedrebbe come nel periodo considerato, ma anche nei due decenni precedenti 7, in quasi tutti i paesi i salari hanno perso terreno nei confronti della produttività e ad esser cresciuti sono stati i profitti! Nei paesi “virtuosi”, quelli in surplus, questo processo di deflazione salariale è stato ancor più accentuato ed ha reso ancor più competitive le merci prodotte in quei luoghi.
Quello che il presidente della BCE sta proponendo, e che il Governo italiano ha prontamente accolto, quindi, è quello di seguire questi paesi in una corsa al ribasso nelle condizioni di lavoro, nella speranza che la “domanda globale” (citata nella slide precedente) garantisca il necessario sbocco per le merci prodotte e che con queste manovre venga ristabilita la famigerata fiducia. La stessa fiducia di cui parlano Poletti, l’OCSE, Padoan, e che ormai abbiamo capito in che cosa consista: nella certezza, per i padroni, di poter sfruttare a proprio piacimento i lavoratori.
Evidentemente per la borghesia questa fiducia è più importante di quella legata agli eventuali effetti positivi di manovre espansive, nonostante i palesi fallimenti delle politiche di austerity degli ultimi anni. Come d’altronde scriveva l’economista polacco Kalecki a proposito degli “effetti politici della piena occupazione”: “la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale.”
Se questo sembra illogico o assurdo, è solo perché è il frutto illogico e assurdo, ma inevitabile, di un “modo di produzione entro il quale l’operaio esiste per i bisogni di valorizzazione di valori esistenti, invece che, viceversa, la ricchezza materiale per i bisogni di sviluppo dell’operaio” ed in cui di conseguenza “l’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto”, come diceva il vecchio Marx.
Se, infatti, in un periodo di così grave crisi i capitalisti non hanno di certo il problema di combattere la minaccia della piena occupazione, hanno comunque l’opportunità di approfittare al massimo della dilagante disoccupazione. Quella disoccupazione il cui principale effetto politico è quello di mettere in concorrenza disperata i proletari, condannati a farsi la guerra gli uni contro gli altri per ottenere le poche briciole a disposizione. Mettendo i “precari” contro i “garantiti”, i giovani contro i vecchi, le donne contro gli uomini, il Jobs Act fa leva sugli interessi (e la disperazione) dei singoli individui contro gli interessi della classe a cui appartengono. Se volessimo riassumere in una frase la sua logica, questa sarebbe: proletari di tutto il mondo, scannatevi!
Tutto perduto? Non è detto…
Ricapitoliamo: l’unica crescita a cui punta realmente il Jobs Act è quella dello sfruttamento. Con i due nuovi decreti attuativi, il contratto a tempo indeterminato sarà caratterizzato dalla stessa instabilità tipica dei contratti precari: potendo essere licenziato da un momento all’altro ed avendo in cambio al massimo una piccola indennità, nell’eventuale e sempre più improbabile vittoria nella costosa sede processuale, ogni lavoratore si troverà in uno stato di ricatto permanente.
Con la riforma degli ammortizzatori sociali si procede con la sostituzione della cassa integrazione con la NASPI – abbiamo già spiegato come questo serva ad individualizzare il rapporto del lavoratore con lo Stato erogatore di sussidio, spezzando i suoi legami sia con il posto di lavoro che con i colleghi, cosa che veniva usata come base di rivendicazioni collettive – e lega l’erogazione dell’indennità, che dovrebbe essere un diritto del lavoratore visto che la paga con i suoi contributi e le sue tasse, al giudizio sospettoso dello Stato che deve verificare se veramente il lavoratore è disoccupato involontario o piuttosto vuole campare senza faticare. Questo significa la possibilità di interrompere il versamento della NASPI se il disoccupato rifiuta le proposte di lavoro o di formazione professionale che gli gira il suo centro per l’impiego, finendo a fare corsi professionali inutili o lavori lontani da casa o pagati male (se non meno della stessa indennità di disoccupazione) per non restare a casa senza né lavoro né NASPI.
Gli schemi degli altri decreti attuativi dimostrano che il famoso sfoltimento della giungla di contratti atipici, è una grande bufala: viene eliminato solo il co.co.pro (che però rimarrebbe in quei settori dove è previsto dalla contrattazione collettive), mentre viene incentivato l’uso del voucher, la forma più odiosa e truffaldina.
Ricordiamo poi che nella prima parte del Jobs Act (il decreto Poletti convertito in legge nel Maggio scorso) il contratto precario più diffuso, cioè quello a tempo determinato, viene incentivato essendo eliminato l’obbligo di giustificarne l’utilizzo, aumentato il numero di rinnovi possibili ed estendendone la durata. Stesso discorso per l’apprendistato, che riceve un’altra serie di facilitazioni.
Gli altri punti della Legge Delega, di cui ancora non sono stati resi noti i possibili decreti attuativi, completano questo quadro di perenne minaccia e ricattabilità prevedendo la possibilità di demansionamento e di telecontrollo.
Non a caso l’ex Ministro del Lavoro e parlamentare del Nuovo Centro Destra Sacconi, attuale presidente della commissione lavoro del Senato, può affermare soddisfatto che grazie a questo provvedimento “risulta profondamente cambiato lo statuto dei lavoratori per licenziamenti, mansioni e tecnologie, così come viene confermata la Legge Biagi che perde solo il lavoro ripartito, applicato peraltro a meno di 300 lavoratori.” Di fatto questa legge è quanto la destra ha sempre sognato di ottenere senza mai riuscirci, perché ha dovuto tenere conto di una forte opposizione sociale.
Un’opposizione sociale che non è mancata, a dir la verità, neanche in questo caso: innanzitutto con la grande giornata di mobilitazione del 25 Ottobre, con quasi un milione di persone in piazza, poi con lo sciopero della FIOM del 14 Novembre insieme ai movimenti sociali e quindi con lo sciopero generale del 12 Dicembre – per citare solo quelli che avevano obiettivo esplicito il contrasto al Jobs Act. E poi con le decine di manifestazioni locali, contestazioni ed iniziative sparse per tutto il Paese. Un’opposizione che il Governo ha deciso di non ascoltare minimamente, procedendo speditissimo verso l’approvazione dei decreti attuativi, complice anche la scelta della CGIL di non portare avanti la lotta con determinazione. D’altronde lo avevamo detto, la CGIL aveva pensato il 25 ottobre e il 12 dicembre non certo per far cadere il Governo, ma per dimostrare al Governo che con lei si deve trattare, che rappresenta pur qualcosa, che ha ancora un ruolo di “mediatore sociale” importante in questo momento storico. Registrata la chiusura totale di Renzi e venendo a mancare qualsiasi tipo di sponda politica credibile, la lotta è scemata proprio nel momento in cui avrebbe dovuto mostrare la massima risolutezza.
Nell’ultimo direttivo nazionale del principale sindacato italiano, la lotta si ridimensiona e viene in sostanza demandata alla contrattazione e a un’eventuale campagna referendaria di abrogazione della riforma o addirittura alla stesura di un nuovo Statuto dei lavoratori che scavalchi a sinistra il Jobs Act. Il dibattito giornalistico intanto si è concentrato sul teatrino della politica: i dissidi interni al PD, in cui la minoranza “di sinistra” è arrivata a dichiarare che il provvedimento prende in giro i precari e devasta i lavoratori (apriti cielo!), l’impermeabilità del Governo rispetto ai pareri del parlamento sul licenziamento collettivo, e, tornando al fronte sindacale, la supposta discesa in campo del segretario della FIOM Landini, già individuato come il possibile “Tsipras italiano”. Dall’altra parte Renzi può contare non solo sui suoi megafoni mass-mediatici, ma anche su una campagna politica e propagandista in cui può trovare il sostegno di pezzi di borghesia italiana entusiasti del regalo ricevuto. Per primo Marchionne, che, benché tempo fa abbia detto che il Jobs Act non avrebbe influenzato le sue politiche aziendali, avendo già imposto autonomamente le stesse condizioni di ricattabilità e sfruttamento, ha attribuito le 1000 nuove assunzioni nello stabilimento di Melfi 8 proprio ai recenti provvedimenti governativi, offrendo un assist al Premier, che ha potuto approfittarne nel suo attacco al sindacato.
Nonostante tutta l’arroganza che la borghesia è in grado di mettere in scena, dietro le quinte si può leggere la preoccupazione di chi sa di star giocando una carta molto importante e potenzialmente incendiaria. Perché non passerà molto tempo prima che milioni di lavoratori capiscano sulla propria pelle in cosa si traducano realmente le promesse fatte con il Jobs Act, mentre dall’altra parte la classe dirigente italiana è costretta a scommettere ancora una volta in una ripresa economica incerta che, nonostante le ‘autorevoli’ previsioni di chi negli ultimi anni non ne ha mai azzeccata una, difficilmente verrà rilanciata da misure come questa. Anzi! Se è vero che la borghesia sta approfittando alla grande delle condizioni materialmente sempre più disastrose in cui versa il proletariato italiano e della confusione e lo sconforto che regnano tra molti lavoratori, dall’altra parte è anche vero che è costretta a misure come questa proprio per scaricare su di essi i costi di una crisi che non riesce a controllare e che, con queste stesse misure, potrebbe finire addirittura per acuire.
Inoltre, benché lo scenario che ci consegna questa riforma appaia terribile e sembrerebbe portare soltanto a una competizione spietata tra lavoratori sempre più ricattabili, anche in queste condizioni la giusta determinazione e capacità organizzativa può essere in grado di strappare risultati rilevanti. Perché la solidarietà tra lavoratori può sempre innescare lotte capaci di vincere e condividere un destino di discriminazione e sfruttamento come quello cui il Jobs Act vorrebbe consegnarci tutti, potrebbe alimentarla.
Lo dimostra, da ultimo, la recente importante vittoria nazionale delle lotte nel settore della logistica, dove l’articolo 18 è applicabile con difficoltà e dove per i molti lavoratori stranieri pende anche il ricatto del permesso di soggiorno. Proprio dalle lotte dei facchini, che tra l’altro scesero in piazza contro il Jobs Act il 14 Novembre ed il 12 Dicembre andando oltre le divisioni sindacali, si possono trarre indicazioni utili. Ad esempio sulla questione degli appalti: c’è infatti il grosso rischio che lavoratori licenziati e riassunti nel cambio dell’appalto finiscano per essere inquadrati con il nuovo contratto a tempo indeterminato. Da tempo le lotte nella logistica ci hanno insegnato a puntare alla responsabilità del committente e ad evidenziare la continuità nel rapporto di lavoro nonostante cambi l’intermediario; con le recenti disposizioni normative questo tipo di lotta acquisirebbe un’ulteriore rilevanza. Un altro spunto potrebbe essere quello della creazione di una cassa di resistenza per i lavoratori licenziati per motivi sindacali e politici e la costruzione di una rete di solidarietà tra di essi, dato che, purtroppo, sono verosimilmente destinati ad aumentare con il Jobs Act.
Queste sono solo alcune piccole indicazioni concrete, a cui potrebbero aggiungersene molte altre. L’importante, come scrivevamo a Dicembre, è che in un frangente come questo la nostra prima preoccupazione non sia quella di improvvisare micro-coalizioni o cartelli elettorali, ma di creare la mobilitazione sociale più vasta e radicata possibile. Una mobilitazione capillare, consapevole, reale e non mediatica, che utilizzi le forme organizzative esistenti per scavalcarle, per crearne di nuove. E che esprima un programma sintetico, chiaro, accessibile alle masse. Partendo proprio dalla lotta contro il Jobs Act e contro i decreti attuativi sul riordino dei contratti atipici – perché se ne chieda realmente la fine! -, e quelli poi sul demansionamento e sul telecontrollo che dovrebbero essere approvati nei prossimi mesi.
Perdere una battaglia non significa infatti perdere la guerra.
Rimaniamo uniti ed inflessibili contro il Jobs Act!
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Note:
1 si vedano Antonella Stirati (2008) La flessibilità del mercato del lavoro e il mito del conflitto tra generazioni, e Elia M. (2013), La condizione sociale del lavoro nell’era della flessibilità.
2 si veda keynesblog.com e Stirati (2012) Crescita e “riforma” del mercato del lavoro.
3 si veda economiaepolitica.it.
4 si vedano gli studi di Paolo Pini, disponibili su keynesblog.com.
5 quelli cioè che, come la Germania, registrano maggiori entrate che uscite nel bilancio nazionale. In realtà, Draghi non distingue l’avanzo primario, quello in cui cioè tra le spese non vengono conteggiati gli interessi sul debito. Nel qual caso apparirebbero tra i paesi virtuosi anche quelli che, come l’Italia, sono in consistente avanzo primario ma soffocati dagli ingenti interessi sul debito.
6 si veda sbilanciamoci.info.
7 si veda economiaepolitica.it.
8 in realtà dei 1000 lavoratori assunti e/o rientrati, 300 sono in “somministrazione” a tempo determinato, altri 100 in trasferta da Cassino. L’accordo aziendale (Ccsl) inoltre prevede l’abolizione della pausa pranzo e 736 euro in meno complessivamente rispetto al precedente Ccnl, senza considerare che quando si lavora il sabato o la domenica non si percepirà straordinario e senza parlare dei ritmi di lavoro insostenibili.
28 Febbraio 2015