Domande scomode: un articolo di Pierlugi Sullo con molti link, la Rwm, la storia della Valsella (nel ricordo di Franca Faita), una canzone di Gualtiero Bertelli…
ome un sindacato che si dice dei lavoratori sostiene le imprese dei datori di lavoro
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L’acqua minerale, l’ambiente, la CGIL – Pierluigi Sullo
Gabriele Polo è un mio vecchio compagno del manifesto, lo stimo molto e in una parola lo considero un amico. Così che quando mi disse, tempo fa, che era stato incaricato di riorganizzare la comunicazione della Cgil, mi sono congratulato: il sindacato ha bisogno di parlare di più e meglio a tutti quanti, secondo me. E il Primo Maggio sono andato a vedere il nuovo sito internet approntato appunto da Gabriele e che andava on line quel giorno. Vario, vivace e interessante, si chiama collettiva.it e, nel presentarlo, Gabriele scrive che lo scopo è «curare il lavoro per curare il nostro territorio».
Siccome sono curioso ho fatto un largo giro nel sito, ho visto la sezione “ambiente” (https://www.collettiva.it/copertine/ambiente/) e sono corso a vedere. C’era un unico articolo, quel giorno, anzi un comunicato. I sindacati degli alimentaristi della Basilicata, tutti e tre, protestano contro una nuova norma regionale che, raddoppiando le royalties regionali, «rischia di mettere in ginocchio il settore delle acque minerali». Questa norma regionale, si spiega, «interviene sul prezzo del canone delle concessioni, incrementando le royalties». I tre sindacati aggiungono che «mentre il Governo nazionale decide di rimandare una tassa sbagliata come la plastic tax […] la Regione Basilicata decide di approvare nella distrazione generale una norma poco ponderata e non suffragata da un’analisi comparata della profittabilità del settore, che rischia di determinare ricadute negative anche sui posti di lavoro». L’occupazione prodotta dalle acque minerali è, dicono i sindacati lucani, di 400 posti circa. La conclusione è: «Non è corretto applicare alle acque minerali la stessa logica utilizzata per l’estrazione degli idrocarburi».
Leggendo, mi venivano in mente una sacco di obiezioni, e di dubbi. Per esempio: di quale cifra stiamo parlando, tanto gravosa da mettere in difficoltà la «profittabilità del settore»? E la tassa sulla plastica perché è «sbagliata»? E la causa di quella «distrazione generale» sarebbe la pandemia, presumo, che la Regione Basilicata usa come schermo per una operazione come questa, alla maniera dei decreti balneari dei tempi della Democrazia cristiana. Si allude infine alle royalties del petrolio, troppo basse per i danni ambientali che i pozzi hanno prodotto sull’ambiente, con imbrogli colossali da parte delle compagnie petrolifere (e poi, comunque, in generale mettere a paragone petrolio e acqua è tutt’altro che dissennato, date le analisi globali sul fatto che l’acqua potabile, grazie alla siccità e agli sprechi, è sempre più rara e preziosa, mentre il prezzo del petrolio precipita).
In ogni modo mi metto a trafficare su internet, in base a un vecchio ricordo di circa 15 anni fa, quando l’acquisizione delle fonti del Vulture, a Rionero, da parte di Coca Cola, provocò proteste a causa del prezzo bassissimo che la multinazionale avrebbe pagato in base alla normativa sui diritti minerari. Ma anche la privatizzazione suscitò critiche: infatti un referendum sull’acqua pubblica lo abbiamo perfino vinto, qualche anno dopo.
Cercando, trovo la presentazione di un progetto di legge, alla Regione Basilicata, da parte di alcuni consiglieri delle varie sinistre, incluso il Pd. Era il 2011, e in base ai dati di otto anni prima, le aziende del settore avevano messo in vendita un miliardo di litri per un incasso di 283 milioni. Le concessioni sono costate per anni poco più di 300 mila euro, mentre alla Regione toccavano analisi e adempimenti e controlli vari, sulle fonti, per cui si spendevano più di 300 mila euro. Sono canoni antichi, si dirà, e infatti le ultime proposte regionali parlano di 1,5 euro ogni 1000 litri nella plastica, e 1 euro per l’acqua in vetro. Nel dicembre del 2019 il Sole 24 ore intitolava sul “record”: oltre un miliardo di litri imbottigliati nel bacino lucano, che rappresenta più del 30 per cento delle riserve di acqua potabile del paese. Le imprese quindi pagherebbero un milione e mezzo, di meno se in vetro. Fate il confronto con il fatturato.
A fine 2019 gli industriali erano per altro in guerra contro la cosiddetta «plastic tax», quella «sbagliata» per i sindacati, che avrebbe penalizzato il settore, con ricadute sull’occupazione ecc. E infatti il Governo (uno a caso) ha in pratica congelato quella misura, che sarebbe servita, nelle intenzioni, ad abbassare la quantità di plastica in giro ovunque, compreso il mare, lo stomaco dei pesci e di conseguenza il nostro organismo, come ormai tutti sanno. Ma no ‒ dicono gli industriali ‒ le nostre bottiglie di plastica (un cui esercito bene allineato opportunamente illustra, sul sito della Cgil, il comunicato dei sindacati lucani) sono «riciclabili al 100 per cento», e hanno una percentuale di materiale effettivamente biodegradabile. E certo, per riciclarle basta raccoglierle una a una, le bottiglie di plastica, e mandarle negli appositi impianti di riciclaggio, solo che la prima cosa non si fa che in minima parte e i secondi quasi non esistono.
Per non farla lunga: che senso che la Cgil si faccia portavoce, anzi parte attiva in una protesta che definirei reazionaria? L’aggettivo non è scelto a caso. Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, in epoca di “spillover” dei virus, che invadere, spremere, anzi “emungere” tutto il possibile dalla natura, in questo caso l’acqua, e invadere l’ambiente con la plastica, e deprimere gli acquedotti pubblici (l’Italia detiene il record mondiale di consumo di acqua minerale e si sta avviando al record di perdite dagli acquedotti, privatizzati e con scarsa manutenzione) non è il modo migliore di dare il via a un cambiamento. La “normalità” cui non vogliamo tornare è questa. E sarebbe utile che Maurizio Landini, il quale in tv parla a favore di «un nuovo modello di sviluppo», chiarisse nei dettagli di che parla, e se la «sicurezza» che giustamente pretende per i lavoratori riguardi anche l’aria che respirano, quel che mangiano e così via.
Ho trovato, nel sito della “vecchia” Rassegna sindacale, sempre della Cgil, non solo una vibrante protesta contro Coca Cola e il suo atteggiamento nei confronti dei lavoratori durante la pandemia (forse non erano i lavoratori lucani), un bell’articolo di due membri del Dipartimento ambiente e lavoro della Flai Cgil nazionale (lo stesso sindacato che in Basilicata protesta), Tina Balì e Andrea Coinu, i quali, in occasione della giornata mondiale per la Terra, scrivono della «differenza tra un passato fallimentare che mitizza il profitto e un’ipotesi di benessere diffuso, dove sia favorita la nascita di nuova occupazione nella cura dei prodotti, del territorio, delle persone e del rispetto». E la segretaria della Fiom, Francesca Re David, intervistata da un altro vecchio compagno del manifesto e mio amico intimo, Loris Campetti, dice: «Abbiamo maltrattato la Terra, ferito gravemente l’ambiente. Non serve uno scienziato per capire che questo virus, la sua velocità e la sua pervasività hanno molto a che fare con le ferite inferte all’ambiente: il massimo dei danni il Covid-19 l’ha provocato dove sono maggiori produzione e consumi, in Italia come ovunque».
Non è che i sindacalisti siano ciechi e sordi, il messaggio del virus, nonché della crisi climatica, dei danni dello smog ecc., è chiarissimo. Il problema è come far cambiare rotta al Titanic. Ma, se prendiamo il caso della Basilicata come un paradigma, diciamo così, forse qualche risposta si trova. Ossia, capisco che cambiare radicalmente la situazione di Taranto, 10 mila operai, sia assai complicato, anche se io sto dalla parte dei polmoni dei cittadini di Taranto (e ovviamente anche di quelli degli operai), ma in questo caso parliamo di 400 posti di lavoro.
Bene, e se si cambiasse la normativa sui diritti minerari, roba che risale a un secolo fa o più? E se si nazionalizzassero, o regionalizzassero (non so se è possibile), tutte le fonti di acqua potabile? Se invece di bottiglie di plastica (non si riesce nemmeno a immaginare, una montagna di un miliardo di quelle bottiglie), sostituendole con bottiglie di vetro che a restituirle, come facevo io da bambino quando la mamma mi mandava a ridare indietro le bottiglie del latte vuote, si ha un piccolo premio? E se i profitti di aziende rese pubbliche cadessero a, poniamo, 200 milioni? Non sarebbero a quel punto disponibili, quei soldi, per rimettere a posto colline e boschi della Basilicata e aggiustare gli acquedotti, far sì che l’agricoltura locale non sprechi troppa acqua e promuovendo quindi la piccola agricoltura individuale e cooperativa ecc., avendo mantenuto intatta l’occupazione e anzi assumendo persone per il rimboschimento, il cablaggio dei piccoli paesi, l’edilizia del restauro…? E non si potrebbe realizzare, anno dopo anno, quel che a Matera, molto amata come capitale europea della cultura, manca da sempre, ossia una ferrovia (che potrebbe essere elettrica, non inquinante), per fare un solo esempio?
Se la Cgil facesse uno sforzo di immaginazione, si troverebbe accanto migliaia di associazioni di ogni tipo e di amministrazioni locali e costringerebbe la politica, di sicuro in Basilicata, a fare la cosa giusta. Forse, per farlo, occorrerebbe una nuova contabilità: il “lordo” di un salario o stipendio non è solo quel che si versa in tasse e contributi, ma anche i danni ai diritti ambientali e sociali della collettività che la produzione causa, cioè quel che nel calcolo capitalista sono le “esternalità negative”, che non vengono nemmeno conteggiate.
QUI un articolo di www.acquapubblica.ar.it nel quale si accusa la Cgil, fra gli altri, di fare il doppio gioco sull’acqua pubblica, nel 2018.
qui l’istruttiva storia di Mauro Moretti, che attaverso una porta girevole magica da dirigente della Cgil nel 2006 diventa amministratore delegato di Ferrovie dello Stato, per otto anni, poi nel 2014 diventa amministratore delegato di Finmeccanica (dal 2017 Leonardo S.p.A.).
Campagna contro la Rwm, Cgil e Cisl: “Danneggia soprattutto i lavoratori” (29 giugno 2019)
…Emanuele Madeddu è il segretario della FILCTEM CGIl della Sardegna Sud Occidentale.
“Noi siamo totalmente contrari alla produzione di bombe che vadano a uccidere dei civili e dei bambini – afferma a EC – siamo per un embargo europeo nei confronti di questo commercio. Ma è giusto che RWM possa continuare a fabbricare bombe, destinate ad altri committenti e rispettando leggi e trattati, perché è legittimo che un paese abbia una sua industria bellica. Ho sentito tante volte la parola ‘riconversione’ ma di proposte concrete non ne abbiamo mai viste. Parliamo di 350 posti di lavoro altamente specializzati che meritano di lavorare. Qui il problema non riguarda i lavoratori, ma il Governo e le istituzioni europee. Poi, sembra che il problema qui sia solo RWM.. nessuno parla di quello che fa Leonardo o le altre fabbriche di armi in Italia… ripeto, noi siamo per l’embargo totale verso lo Yemen ma la fabbrica deve poter continuare a vivere”.
A Iglesias esiste un attivissimo Comitato per la Riconversione della RWM di cui Arnaldo Scarpa è portavoce e cofondatore.
“Contrapporre il problema etico al problema del lavoro è una forzatura. Lavoro e vita vanno insieme, non devono contrapporsi. Se esiste una contrapposizione allora questo lavoro è sbagliato. Perché qualsiasi lavoro che generi morte e distruzione va considerato tale. Noi la pensiamo cosi. Mi spiace per il Sindacato” dice a EC.
“È vero – continua Scarpa – che quel lavoro porta stipendi a 350 persone ma contemporaneamente porta morte, reale o potenziale, a migliaia di persone. Contrapponendo le due cose si forza un valore fondamentale che è quello della dignità del lavoro. Nel caso di RWM lo sfruttamento avviene prima di tutto da parte del gruppo Rheinmetall (la casa madre tedesca che proprio per i limiti imposti nel proprio paese ha spostato in Italia la fabbricazione delle bombe – NdA) che usurpa un territorio dove, purtroppo, pur di avere lavoro si è disposti a tutto o quasi. In più si trova anche davanti a una classe politica che fa finta di nulla, a livello nazionale come a livello locale. La posizione del sindacato sinceramente mi lascia perplesso. Perché il sindacato non fa lui proposte di riqualificazione invece di aspettare suggerimenti e progetti da altri? Perché il sindacato considera ‘etico’ produrre bombe?
Si nasce incendiari e si finisce pompieri, diceva Pitigrilli.
Io lavoratrice della Valsella – Franca Faita (29 gennaio 2006)
Care amiche, Cari amici,
sono Franca Faita. Mi dispiace molto di non aver potuto essere qui con voi a questo importante appuntamento odierno, a cui avevo volentieri promesso di esserci, perché ci tengo all’impegno della gente per la pace e il disarmo.
Ho lavorato nella fabbrica di mine, la Valsella Meccanotecnica di Castenedolo, poco lontano da Brescia, dal 1967. Fino al 1980, la Meccanotecnica (la fabbrica si chiamava così allora) produceva televisori e mobili in plastica. A quell’epoca eravamo 200 dipendenti. Nel 1980, avviene la prima crisi nel settore; l’azienda ci mette in CIG – Cassa Integrazione Guadagno – per 12 mesi. Nel 1983, l’azienda ci comunica che il mercato dei prodotti civili non tira più e che gli operai erano troppi: 30 dipendenti devono lasciare.
La ditta ci informa che saremmo diventati un’azienda militare, incorporando la ditta Valsella con 60 dipendenti. Siamo così diventati la famigerata “Valsella Meccanotecnica”. Da allora, abbiamo iniziato a produrre le mine antipersona e gli stipendi aumentavano senza bisogno di fare scioperi o proteste. Siamo andati avanti per 10 anni con commesse grandiose. Quando le commesse finivano, nessun problema per noi: ci mettevano in CIG e l’azienda continuava a pagare i salari.
Da parte sindacale, ad ogni incontro con la proprietà, chiedevamo: “Per chi sono tutte queste mine?”. La risposta era: “Segreto militare”. Si calcola che la Valsella, nella sua breve storia, abbia fatto oltre 30 milioni di mine! Chiedevamo: “Ma perché servono migliaia e migliaia di mine?”. Risposta: “Per difendere il territorio dal nemico”. I tecnici della Valsella si recavano spessissimo alla SEI, Società Esplosivi Industriali di Ghedi (Brescia). Come mai? Studiavano e facevano esperimenti per “migliorare” le mine. Ma anche quello era un “segreto militare”. La SEI riempiva di esplosivo le mine prodotte dalla Valsella; ma dove andavano a finire tante mine? Ancora, “segreto militare”.
Ma era già stata messa in atto una moratoria. Se non si vendevano più le mine, non era certo per la consapevolezza da parte dei dirigenti delle fabbriche dei danni che queste provocavano, ma solo perché la legge non lo permetteva più.
Un grande giorno è stato quello in cui sono stata chiamata dal dottor Gino Strada. Mi presentò una cassetta piena di mine dicendomi:
– “Le conosci?”.
– “Sì, le conosco”, risposi.
– “Ma tu sai cosa fanno?”.
– “Servono a difendere il territorio dal nemico”, risposi.
– “Cara Franca, queste mine stanno provocando tantissime vittime civili, che con la guerra non c’entrano, non c’entrano con la difesa del territorio. La famosa Valmara 69 è quella più bastarda: ce ne sono a migliaia nel Golfo e in tutto il mondo…”.
Tornando a casa, ho cominciato a pensare che dovevo fare qualcosa. II primo pensiero è stato quello di licenziarmi. Ma se io andavo via, la Valsella avrebbe continuato a produrre le mine e la SEI avrebbero continuato a riempirle. Da quel giorno, la mia vita è cambiata. Ho cominciato a parlarne con tutte le maestranze, a spiegare cosa facevano quei pezzi di plastica che noi avevamo prodotto. La risposta di tutti era: “Se non le facciamo noi, le fanno gli altri”.
Ricordo quando padre Marcello (Storgato), un missionario saveriano di Brescia, mi ha portato a Ginevra, dove ho incontrato Kher Man So, un bambino della Cambogia, con una gamba mozzata da una mina, mentre andava a scuola in bicicletta. Ho negli occhi ancora l’immagine di quel bambino che mi ha chiesto di “non costruire più mine”.
Perciò io, con altre poche operaie, abbiamo continuato a parlarne anche fuori dei cancelli della fabbrica e in giro per l’Italia. Ricordo l’impegno con le scuole per sensibilizzare i bambini e i giovani; ricordo l’impegno e il coraggio del sindaco di Castenedolo Luigi Frusca e della sua vice Santina Bianchini.
Al primo incontro internazionale contro le mine, tenutosi a Brescia nel 1994, abbiamo partecipato anche 5 operaie della Valsella: Chiara, Maria, Agnese, Ferdi ed io. Ci siamo presentate con uno striscione e la domanda più lecita del mondo: “Perché per lavorare e vivere dobbiamo costruire mine che uccidono?”. Sempre più gente capiva e ci seguiva. E il coraggio di richiedere la riconversione della Valsella aumentava sempre più. La vita in fabbrica era molto dura per noi, e soprattutto per me, perché ero controllata a vista. Ho avuto da soffrire, da sopportare.
Dal 1994, la Valsella non ha più prodotto mine; non per volontà dell’azienda, ma per la forza nostra e di chi ci ha aiutato; per la tenacia di chi ha lottato fino a far approvare la legge 374 del 1997. Così pure la SEI ha smesso di riempire le mine di esplosivo, anche se continua a riempire di esplosivo vari tipi di bombe, nella sua sede rinnovata e potenziata di Domusnovas, in Sardegna.
Io voglio dire a tutti voi, che le mine hanno già fatto troppi danni e troppi morti, e che purtroppo continueranno a farne ancora, finché non saranno disinnescate e distrutte tutte le mine che sono state disseminate e piazzate in tante parti del mondo. Io voglio dire a tutti voi, che anche le bombe della SEI SpA e le armi di ogni altra fabbrica, hanno già fatto troppi danni e troppi morti. È molto meglio non farne più.
Care amiche, Cari amici,
stiamo attenti perché le aziende, quando si tratta di produzione militare e bellica, ci raccontano tante balle. Io l’ho provato di persona. La battaglia della Valsella ci è costata 18 mesi di CIG e senza stipendio. Ma ne è valsa la pena. Nel 1998, la Valsella è stata messa in liquidazione ed è stata prelevata da un’altra Società; è stato fatto un accordo sindacale per distruggere tutto quello che riguardava la produzione delle mine antipersona e per produrre solo prodotti civili. A me è stato dato l’incarico di tagliuzzare e distruggere tutta la documentazione aziendale che riguardava la sperimentazione, la produzione e il commercio delle mine. Gli stampi sono stati danneggiati e venduti a “ferro vecchio”. Noi siamo fieri di questo risultato. E ringrazio il nostro Presidente Carlo A. Ciampi per avermi voluto onorare con il riconoscimento di “Cavaliere della Repubblica”.
Come donna e come madre e come sindacalista, sono fiera della battaglia che ho fatto; e la farei di nuovo. E prego anche voi di provare a fare lo stesso. Vi abbraccio e vi prego, ancora una volta, di credere nella via della riconversione. Fare prodotti che favoriscono lo sviluppo e il benessere di tutti i popoli, anche di quelli più poveri nel mondo, questo è l’unico investimento che rende, perché genera ricchezza, sicurezza e felicità condivisa. Mine, bombe e armi che producono distruzione, non sono un investimento, ma una pazzia che non dobbiamo più permettere.
(per vedere i video cliccare sull’immagine)
Qualche (indiscreta?) domanda:
- come mai chi è passato per le stanze di un sindacato non di base prende pensioni molto più alte dei lavoratori normali? (leggi qui)
- quanti e quali sono i sindacalisti (o ex sindacalisti) dei sindacati non di base che stanno in consigli di amministrazione dei fondi pensione e quanto prendono?
- quanti e quali sono i sindacalisti (o ex sindacalisti) dei sindacati non di base che stanno in consigli di amministrazione di enti pubblici e previdenziali e quanto prendono?
- quanti e quali sono i sindacalisti (o ex sindacalisti) dei sindacati non di base che stanno in consigli di amministrazione di imprese pubbliche e quanto prendono?
- quanti e quali sono i sindacalisti (o ex sindacalisti) dei sindacati non di base che stanno in consigli di amministrazione di imprese private e quanto prendono?
Per queste domande vale la privacy o la trasparenza?
a volte capita di “accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”.
diceva Stendhal: Il pastore cerca sempre di convincere il gregge che gli interessi del bestiame e i suoi sono gli stessi
un’ultima domanda: gli interessi del sindacato (non di base) e dei suoi sindacalisti sono gli stessi dei lavoratori, dei cittadini (e dei civili di paesi lontani)?
LA VIGNETTA – scelta dalla “bottega” – è di Roberto Zamarin. Il “Gasparazzo” dell’immagine era un operaio ribelle che contestava il sindacato: divenne il simbolo di Lotta Continua e degli scioperi più duri (talvolta gestiti contro la volontà dei sindacati confederali) degli anni ’70.