quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa
di Francesco Schettino
È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per esperienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta [1]. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.
Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.
In questo caso si fa riferimento a un’altra sostanza che pian piano sta assumendo questo ruolo per gran parte del capitale mondiale: genera dipendenza e assuefazione; violente alternanze di depressione ed euforia, senza che ci sia modo di intervenire altrimenti per arginare questo bipolarismo. In molti penseranno che si stia alludendo al profitto, forma monetaria dello sfruttamento; altri, più correttamente immagineranno che il riferimento è al plusvalore ricordando la naturale “voracità” del capitale che Marx non tarda mai di rimarcare. In realtà stiamo parlando di un qualcosa che non agisce in maniera benefica sul ritmo di accumulazione, bensì, proprio come l’eroina, può determinare effetti stupefacenti nell’immediato a cui seguono – più o meno immediatamente – reazioni nefaste ed incontrollabili.
Incatenati ad una situazione critica, per certi versi più profonda rispetto a quella emersa nel 2008 col fallimento di Lehmann Bros. (Lb), le sorti del capitale legato al dollaro e all’euro (ma in generale anche quelle degli altri fratelli nemici) sono dipese profondamente dalle cosiddette iniezioni (non è un caso che l’analogia tenga anche volendo usare la terminologia tecnica) di liquidità all’interno del sistema. In altri termini, i cosiddetti quantitative easing (ossia gli allentamenti quantitativi) proposti prima dalla Federal Reserve e poi da molte altre banche centrali in giro per il mondo hanno tenuto in vita un sistema che non solo in quasi dieci anni di disastro economico non è riuscito a risolvere gli insolubili problemi, ma li ha persino amplificati.
Il problema della “iniezione fatale” si è riproposto all’inizio dell’anno corrente, 2016, quando, per le ragioni di cui si discuterà in seguito, a fronte di un empasse generalizzata dell’accumulazione mondiale, sancita dal continuo ribasso delle stime di crescita del Pil mondiale da parte del Fmi e dalle difficoltà incontrate della locomotiva cinese, le reazioni dei mercati borsistici di ogni parte del mondo sono state a dir poco drammatiche; il crollo è stato talmente drastico che ciò ha indotto molti a presupporre che si stessero riproponendo le stesse dinamiche del celebre settembre del 2008. Uno dei più rilevanti rappresentanti del capitale legato all’euro, il governatore della Bce, Mario Draghi, è stato costretto, non per altro, a promettere di iniettare nuova liquidità nel sistema, sebbene ciò, come già ampiamente dimostrato dalla storia, non abbia un effetto benefico neanche nell’immediato, in termini di accumulazione reale, ossia di produzione e vendita di merce; tuttavia, proprio come accade ad un tossicodipendente in astinenza, ciò è stato sufficiente per far passare il morale delle borse da un profondo rosso all’euforia. Tuttavia, questa sensazione è durata molto poco, forse meno del previsto e, nei prossimi paragrafi tenteremo di spiegarne il perché.
Il momento dell’iniezione
Gli inizi degli anni settanta furono il periodo in cui l’accumulazione di capitale iniziò ad incontrare, a livello mondiale, le prime sonore battute d’arresto dovute principalmente alla crisi Usa e del dollaro palesatasi con la decisione unilaterale di concludere gli accordi di Bretton Woods. La stessa generazione che era stata soggetto nel decennio precedente di importantissime battaglie, seguendo paradossalmente la fase recessiva del capitale, sembrava anch’essa esaurire la propria spinta rivoluzionaria, richiudendosi più spesso in droga e rock’n’roll piuttosto che proporre e ribadire rivendicazioni di classe. La band Rolling Stones, arcinota al pubblico in quel periodo, oltre che per il suo ottimo rock-blues, anche per la disinvoltura nella gestione di un’ampia gamma di droghe pesanti da parte di alcuni dei suoi membri, cantava, nel 1972, “per favore, sorella morfina, tramuta questo incubo in un sogno”. Il successo del pezzo, le cui parole in realtà erano state scritte da Marianne Faithful e non già da Mick Jagger, era dovuto alla capacità di interpretare quello che era uno stato fisico comune, ossia un insieme di forti sensazioni che apparteneva trasversalmente alla generazione nata perlopiù tra le bombe della seconda guerra mondiale e l’immediata ricostruzione: la dipendenza dalle droghe pesanti conduceva rapidamente agli inferi, da cui, solo apparentemente, una iniezione di eroina o morfina avrebbe potuto far riemergere peraltro per un periodo molto limitato e a condizione che, nel ritorno verso la triste “normalità”, l’incubo sarebbe divenuto ancora più nero e spaventevole… e così fino alla presumibile resa incondizionata, come è accaduto fin troppe volte.
Non deve essere molto distante ciò che è passato per la mente dei voraci rappresentanti del capitale fittizio quando Draghi ha convocato una conferenza stampa, e, come già detto, ha proposto il proseguimento dell’allentamento monetario, aprendo, come in molti hanno sottolineato, di fatto una “fase due” del celeberrimo bazooka della Bce. Come è noto, infatti, il primo mese del 2016 è stato straordinariamente drammatico su tutte le piazze finanziarie mondiali: solo nella prima metà del mese di gennaio i prezzi di borsa si sono sgonfiati (e non “bruciati” giacché non c’è nulla di materiale, bensì solo scommesse fittizie) dell’equivalente di ben 5.600 mrd $. Nel dettaglio, la borsa di Shanghai ha perso il 15%, Dow Jones e Nasdaq circa il 10%, e su questi dati si è attestato anche il mercato europeo, seppur con valori leggermente più negativi, e quello giapponese. Insomma, in quindici giorni la ricchezza fittizia si è ridotta di una cifra equivalente ad un terzo del Pil statunitense. Un crollo generalizzato, che mostra, evidentemente, delle falle sistemiche che hanno indotto gli operatori di borsa e dunque il capitale in generale, in crisi, a supplicare per un intervento delle autorità monetarie (Bce e Fed, in particolare) trattate alla stregua di veri e propri pushers (spacciatori di liquidità) che si cercano affannosamente quando si entra nelle terribili crisi di astinenza. Per quanto estremamente esasperata nelle modalità di espressione, la manifestazione di questa dipendenza non è cosa nuova, né tantomeno poco intuibile. La sola grande differenza è che si estrinseca con una violenza inaudita e sancisce, nei fatti, che dopo otto anni ben poco è stato risolto, nonostante le parole dei lacchè della classe al potere e dei suoi rappresentanti istituzionali.
Quasi tre anni fa, a seguito del diffondersi tra le banche centrali della “moda” di battere moneta a suon di quantitative easing (specie negli Usa), già avvertivamo dei rischi che un’inondazione di liquidità avrebbe potuto comportare e scrivevamo al riguardo (Schettino F., 2014, Diluvio di liquidità, La Contraddizione, 143): “Seguendo alla lettera una litania ben nota a Wall Street (sell in may and go away), la prima metà del mese di maggio dell’anno corrente, 2013, ha visto gli operatori del capitale speculativo abbandonare ogni remora, immergendosi in un volume di “affari” che, se da una parte trova pochi precedenti anche prima del crollo di Lb, dall’altra ha permesso a molte piazze finanziare di superare alcune soglie (cosiddette psicologiche) ottenendo dei risultati che, innegabilmente, rimarranno nella storia: l’abbondante utilizzo del termine rally, ormai patrimonio non più esclusivo della stampa specializzata, rappresenta proprio questa serie di movimenti che, in poche settimane, ha traghettato la borsa di Francoforte a superare gli 8.200 punti [Dax] già nei primi giorni di maggio, i 15.000 negli Usa [Dow Jones], ad uno stato euforico sui listini nipponici, oltre ad aver garantito alla gran parte delle piazze finanziare profitti particolarmente soddisfacenti, aggiungendo nuovi tasselli alla scia di performance che dall’inizio dell’anno si è stabilizzata in territorio nettamente positivo.
La questione, già intrisa di sospetti, considerando le inenarrabili fatiche registrate nell’accumulazione reale, di valore, diviene ancora più preoccupante se si osserva che l’assalto ai titoli di stato non si è limitato a quelli emessi da paesi che, almeno prima del 2008, avevano dimostrato di essere sufficientemente solventi; quel che più colpisce è che questa mostruosa richiesta è stata rivolta persino ai paesi meno stabili del continente africano. In Ruanda, ad esempio, la recente emissione di titoli ha ricevuto una clamorosa over-subscription: ciò vuol dire che il volume della domanda per l’acquisto dei titoli del debito pubblico ruandese è stato di ben otto volte superiore rispetto all’offerta, nonostante i tassi di rendimento non fossero particolarmente alti, da rendere ragionevole l’accollo di un rischio così significativo; se si considera che il tasso di rendimento è persino più basso rispetto a quello offerto dagli omologhi italiani sino a qualche mese fa, ci si rende conto dell’entità dell’anomalia. Da questo punto di vista sembra opportuno sottolineare come questi titoli, con scadenza a 10 anni, siano stati emessi in valuta straniera (dollari Usa), riproponendo, sebbene su scala per ora inferiore, quel meccanismo adottato in diversi paesi latinoamericani (Argentina in primis) tra la fine degli anni ottanta ed il decennio successivo, che ha reso praticamente impossibile la restituzione di tale debito contratto in valuta “forte”, divenendo così una delle cause principali del conseguente default.
Un andamento dei titoli azionari così sostenuto, in generale, può essere giustificato da due fenomeni alternativi e del tutto divergenti: da situazioni di accumulazione netta strettamente positiva e diffusa a livello mondiale (o almeno da uno scenario presumibilmente migliorativo), questione che spinge i valori delle azioni presenti in borsa a crescere di una misura simile; dalla condizione opposta, ossia nelle fasi più acute della crisi da sovrapproduzione, quando una pletora di capitale monetario accumulatasi nelle mani della classe dominante, individua nel giuoco di borsa l’unica possibilità per autovalorizzarsi attraverso il profitto (senza passare per merce e plusvalore), tramutandosi in pianta stabile in capitale fittizio; in assenza, dunque, di accumulazione crescente, il risultato più ovvio è che, a livello più ampio, un miglioramento sostenuto dei valori dei titoli di borsa non fa altro che rigonfiare bolle speculative in ragione geometrica.
Anche gli apologeti più servili del modo di produzione del capitale – che ideologicamente continuano a chiamare “economia di mercato” come se il mercato fosse una fattispecie esclusiva del capitalismo – in questo momento non se la sentirebbero di sostenere che l’accumulazione mondiale stia procedendo a gonfie vele. Scartata pertanto la possibilità che i rally di borsa siano indotti da una esaltante fase di produzione e circolazione di neovalore a livello mondiale, quella del violento rigonfiamento di una immensa bolla speculativa – conseguenza e, pertanto, non causa della crisi di accumulazione – resta l’ipotesi più agghiacciante e al tempo stesso più conforme alla realtà.
Un esempio su tutti può fornire un’adeguata rappresentazione di ciò che sta avvenendo sui mercati finanziari internazionali. Certamente tutti ricordano la bolla legata ai derivati sui mutui subprime, ossia quei pacchetti azionari-immondizia che già dal 2006 furono messi in circolazione, con l’approvazione colpevole delle agenzie di rating, ma che erano minati alle fondamenta da una più che certa insolvenza da parte dei debitori, quei soggetti statunitensi che, privi di ogni tipo di garanzia (lavoro stabile, proprietà ecc.), avevano preso a prestito cifre ingenti per l’acquisto di immobili che, dopo l’esplosione della bolla di fine 2008, avrebbero inevitabilmente perso in quanto insolvibili. Uno tra quei tanti bond era denominato Mabs 2006-Fre1 ed era uno strumento costruito su mutui subprime di circa duemila persone (che, come previsto, in gran parte non avrebbero restituito le somme contrattate) il cui valore, già a fine 2008 era giunto, per ovvie ragioni, ad una cifra praticamente nulla: ma come questo, una miriade di strumenti simili erano stati venduti in ogni parte del mondo – proprio perché dotati di una buona valutazione rilasciata dalle agenzie di rating – lasciando nelle mani degli acquirenti ciò che si rivelò essere un pugno di mosche quando, alla fine del 2008, il giuoco veniva svelato e l’immensa bolla iniziò a detonare.
Ebbene, ciò che spaventa di più, è che, dopo un quinquennio di crisi pesantissima, di rassicurazioni da parte dei rappresentanti istituzionali che i comportamenti “dissoluti” svolti nel decennio precedente il crollo di Lb non si sarebbero più verificati, all’inizio del 2013 un fondo speculativo del Colorado ha avuto il coraggio di acquistare proprio il “maledetto” Mabs 2006-Fre1, nonostante il tasso di insolvenza di chi contratta questi mutui sia salito al 57%; perdipiù, è importante sottolineare come tale scelta non sia stata frutto di una scellerata strategia suicida, in quanto non pochi operatori hanno messo gli occhi sul titolo, dacché la sua valutazione di mercato si è più che raddoppiata in poco meno di cinque mesi. È questo uno dei tanti casi in cui la realtà soverchia nettamente ogni tipo di immaginazione e, ci racconta che, come dieci anni fa, anche la “spazzatura è divenuta oro” [vedi anche W.Riolfi, sole24ore, 8.5.2013].
La questione di maggior rilievo è che, il caso appena descritto, non è affatto sporadico: dall’inizio dell’anno corrente, infatti, il volume delle emissioni dei cosiddetti “titoli-spazzatura” ha superato quello del biennio 2006-2007, periodo di maggior rigonfiamento della bolla speculativa, esplosa solo qualche mese dopo. Pertanto, non sorprendono, ma al tempo stesso devono far riflettere, le recenti dichiarazioni di importanti agenti del capitale come Warren Buffett per cui “le obbligazioni sono ora un terribile investimento; quando le cose cambieranno, la gente perderà un mucchio di denaro”; oppure quelle di Mohamed El-Erian (direttore generale della Pimco, uno dei più grandi fondi di investimento al mondo) per cui “quest’onda finirà prima o poi per infrangersi”: individuarne le modalità e le conseguenze, al momento, data l’importanza qualitativa che il fenomeno sta assumendo, è cosa ardua”.
Semplificazione monetaria (quantitative easing)
La sovrapproduzione di capitale altro non è che sovraccumulazione di capitale: impossibilitati nella produzione di plusvalore e, per questo, liberati dalla produzione di merci, la proiezione nella speculazione nel tentativo di usurpare quote di profitto ai fratelli nemici in fase di crisi è una necessità più che una scelta. È l’incedere stesso della crisi, e dunque la riduzione tendenziale del saggio di profitto, da una parte a favorire fenomeni di concentrazione, dall’altro a creare quella massa di capitale monetario che viene liberata dalla produzione di merce ma che, proprio perché capitale, ha il dovere di autovalorizzarsi accedendo all’unica fonte di profitto (non di plusvalore) che esiste, ossia quella dei mercati borsistici: “la crescente concentrazione non appena abbia raggiunto un certo livello, provoca una nuova diminuzione del saggio del profitto. La massa dei piccoli capitali frantumati viene così trascinata sulla via delle avventure: speculazione, imbrogli creditizi ed azionari, crisi. Quando si parla di pletora di capitale ci si riferisce sempre o quasi sempre, in sostanza, alla pletora di capitale per il quale la caduta del saggio di profitto non è compensata dalla sua massa – e questo avviene sempre nel caso di nuovi capitali di formazione derivata – oppure alla pletora che questi capitali, incapaci di funzionare da soli, mettono a disposizione dei dirigenti delle grandi industrie sotto forma di credito. Questa pletora di capitale viene determinata dalle stesse circostanze che generano una sovrappopolazione relativa e ne costituisce quindi una manifestazione complementare, quantunque i due fenomeni si trovino ai poli opposti, capitale inutilizzato da un lato e popolazione operaia inutilizzata dall’altro” [Marx, C,iii, 15].
La pletora di capitale (monetario), che è cresciuta a dismisura con l’incedere dell’ultima crisi capitalistica – al pari della “liberazione” di forza-lavoro, a testimonianza della gravità della situazione – è pertanto frutto endemico della crisi; essa, già presa isolatamente, riesce a spiegare una buona parte dell’impressionante volume delle operazioni del capitale fittizio mondiale sia precedenti che successive alla fine del 2008: l’eccesso di capitale ha iniziato ad accrescersi già dagli inizi degli anni settanta, quando proprio l’accumulazione mondiale è entrata in crisi, espandendo i suoi tentacoli mortiferi in molte aree del mondo (sudest asiatico, sud America, paesi ex sovietici ecc.). Tuttavia, come abbiamo già più volte sottolineato in passato, negli ultimi 6/7 anni, un’ulteriore e mastodontica iniezione di liquidità, con l’obiettivo di contrastare l’ipotetico credit crunch (stretta creditizia), ha estremizzato tale fenomeno e reso, ovviamente, più devastanti, per ora almeno in potenza, le sue conseguenze.
Una stima quantitativa della montagna di liquidità in eccesso e presente sul mercato mondiale, in quanto capitale fittizio, è praticamente impossibile da fare: gli “addetti ai lavori” parlano di alcune migliaia di miliardi di euro, sebbene in molti reputino tale volume sottostimato rispetto a quello reale. Del resto è dagli ultimi mesi del 2008 che i cosiddetti quantitative easing vengono promossi ormai in ogni parte del mondo: questo strumento di politica monetaria (espansiva), in sintesi, consiste nella creazione di una nuova quantità di moneta liquida stampata dall’autorità locale che, per ovvii motivi, viene data in prestito a tassi molto bassi, spesso negativi, – e pertanto vantaggiosi – a imprese che, teoricamente, dovrebbero essere colpite dal credit crunch, essendo escluse dai consueti canali di finanziamento (prevalentemente quello bancario o obbligazionario).
Essendo il capitale più inguaiato quello legato al dollaro, a iniziare questa danza (potenzialmente) suicida delle iniezioni di liquidità, è stata ovviamente la Federal reserve [Fed] che decideva di stampare ben 1700 mrd $ ex novo, già agli inizi del 2009, per tentare di tamponare una situazione a dir poco drammatica; preparava così il terreno per lo spostamento dell’epicentro della crisi nei territori del capitale legato all’euro, suo principale antagonista, cosa che si sarebbe concretizzata in poco più di due anni in pianta stabile. In contemporanea, la Banca d’Inghilterra, sempre più allineata alle scelte politiche ed economiche della sua vecchia colonia, procedeva nell’acquisto di titoli potenzialmente tossici per un importo pari a circa 300 mrd €, per mezzo di sterline, anch’esse, appena sfornate dalla zecca di stato. La situazione era però talmente grave che Bernanke dovette ricorrere, solo qualche mese dopo alla seconda tranche, immettendo altri 600 mrd $ (qe ii), a cui corrispondeva un’analoga manovra in territorio britannico, sebbene di importo nettamente inferiore. Poi quando, a fine 2012, la Fed promulgò il cosiddetto qe-infinity, ossia il pompaggio di circa 50 mrd $ a settimana finché la disoccupazione non fosse ritornata sotto livelli “accettabili”, allora si comprese che un problema immenso sarebbe emerso nel momento dell’interruzione del programma e, quindi, al varo della cosiddetta sterilizzazione del mercato, ossia quando la Fed avrebbe dovuto iniziare le manovre per prosciugare il mercato della liquidità immessa, almeno in parte.
Ma i problemi erano straordinariamente impellenti e, pertanto si puntò a dare una boccata d’ossigeno subito, rimandando ad un imprecisato domani le drammatiche conseguenze. La Banca centrale europea, in quel periodo vittima delle sue stesse regole – improntate sul controllo del livello dei prezzi – non aveva la possibilità normativa di replicare a tali metodi aggressivi e divenne così la vittima sacrificale degli attacchi speculativi che ne seguirono e che acutizzarono, in maniera quasi mortale, le crisi del debito dei piigs che ancora viviamo [2]. La mossa della Bce di inizio 2015 di promulgare un vero e proprio qe è stata senza dubbio tardiva ed è probabilmente intervenuta quando la frittata era già stata fatta: con tale programma la Bce avrebbe fornito al sistema bancario europeo, fino a settembre 2016 nuova liquidità pari a 1.140 mrd €, quantità suddivisa in emissioni settimanali di 60 mrd € circa. Questo nuovo denaro è stato ceduto alle singole banche centrali nazionali che hanno avuto mandato di acquistare i titoli del debito pubblico emessi dallo stato sul mercato secondario, quindi non all’emissione, non violando così il principio di “divorzio” tra autorità monetarie e governo sancito a livello europeo (ma anche diffuso altrove) almeno dagli anni novanta. Sui limiti potenziali di una tale manovra già abbiamo scritto abbastanza nel no.150 della Contraddizione e, effettivamente, a distanza di un anno, possiamo sostenere, senza troppi crucci di venir smentiti, che l’impatto sull’accumulazione è stato di scarsa entità; i dati sul Pil 2015 dei paesi dell’eurozona difficilmente superano il punto percentuale. E considerando, da questo punto di vista, la spettacolare caduta del prezzo del petrolio e la svalutazione dell’euro rispetto al dollaro, in effetti si potrebbe pensare persino ad una neutralità sostanziale, almeno in relazione alla produzione di merce e valore. Spesso in passato [in particolare no.135 della Contraddizione] sottolineavamo come la maggior parte di questa nuova immensa liquidità fosse destinata principalmente all’acquisto di nuovi strumenti derivati di natura speculativa: affossata, de facto l’approvazione della legge Dodd-Frank – che nella propaganda usamerikana avrebbe dovuto dare nuove regole ai mercati finanziari in quanto colpevoli, secondo la propaganda di classe, della crisi – già dal 2011, le cose si incanalavano su un pericoloso piano inclinato per il capitale mondiale. Scrivevamo allora, e oggi ne vediamo le più materiali conseguenze: subito dopo la detonazione del 2008 “la musica è ripresa, con la stessa orchestra e gli stessi direttori di prima”.
Piove sul bagnato
Per sbrogliare tutta questa matassa di numeri è innanzitutto significativo rimarcare come la crisi di sovrapproduzione generi una pletora di capitale monetaria, a causa dell’impossibilità dello stesso di autovalorizzarsi – scriveva efficacemente Marx “la sovrapproduzione in modo speciale ha per condizione la legge generale di produzione del capitale, di produrre nella misura delle forze produttive (cioè della possibilità di sfruttare, con una data massa di capitale, una massa di lavoro la più grande possibile) senza riguardo per i limiti del mercato esistenti o per i bisogni solvibili, e di realizzare questo per mezzo di un continuo allargamento della riproduzione e dell’accumulazione” [Teorie sul plusvalore, cap. 14, (f.725)]. In altri termini, giacché il capitale non trova convenienza nel produrre merce, poiché il mercato è saturo, e dunque non può giungere al profitto attraverso la produzione di valore (il celebre d-m-d’) è costretto a gettarsi in larga parte nel giuoco di borsa con lo scopo di rapinare ai capitali concorrenti quote di profitto (d-d’). Dunque, al contrario di quello che sostengono molti economisti o operatori di mercato, non ci si trova dinanzi ad un credit crunch perché c’è poca liquidità: viene interrotto il canale di prestiti da istituti bancari ad aziende o a singoli lavoratori poiché in una fase di crisi come quella attuali gli uni non offrono garanzie di restituire a causa del glut of the market; gli altri, molto più semplicemente, poiché non possono garantire, vista la progressiva precarizzazione del lavoro. In questo caso si potrebbe forse dire che di capitale monetario liquido ce ne è troppo, ma le condizioni di mercato ne impediscono una ripartizione più adeguata.
Per queste ragioni, se gli agenti del capitale fossero presi in considerazione come un unicum, ossia se si vedesse la classe dominante nella sua unità, la conseguenza più ovvia sarebbe quella di sostenere che un’inondazione di liquidità a livello globale potrebbe generare neanche il minimo effetto sulla produzione materiale e anche sui rapporti di forza esistenti all’interno della concorrenza tra capitali. Tuttavia, soprattutto in una fase di crisi violenta e persistente come quella attuale, la molteplicità della classe dominante è un aspetto molto evidente a causa della conflittualità che emerge con altrettanta chiarezza. Dunque, la tempistica con cui le diverse Banche centrali, strumento di ogni singola cordata di capitalisti, è intervenuta ha fatto senza dubbio la differenza. Già in numerosi articoli che scrivemmo in passato sulla Contraddizione [cfr. 130, 131, 135 ecc.] facemmo emergere come molte fasi della crisi post 2008 fossero attribuibili proprio a ingenti movimenti finanziari in parte foraggiati da queste iniezioni di liquidità. Tra i tanti va ricordato il mortale attacco speculativo del febbraio 2010 che solo apparentemente era diretto ai titoli del debito greco quando, in realtà, come poi dimostrato ampiamente, sancì la capitolazione del capitale a base euro nei confronti di quello ancorato al dollaro Usa, iniziando così a generare una prospettica unione (vedi ttip) in funzione anti-asiatica. Pertanto, non deve stupire che – per quanto solo in apparenza – l’economia mondiale più inguaiata, quella Usa, sia riuscita ad alzare la testa più rapidamente, anticipando le mosse dei fratelli nemici che, per quanto dovute, si sono rivelate del tutto inefficaci e non più in grado di contrastare l’offensiva ormai andata a segno. Da questo punto di vista sembra utile ricordare come non sia casuale l’utilizzo terminologico (bazooka), da parte degli agenti della classe dominante, per indicare le misure di politica monetaria messe in atto da Draghi a cui in parte si faceva riferimento all’inizio di questo articolo: l’evidente connotazione bellica conferita alla manovra “inconsueta” sancisce che, come al solito, gli appartenenti alla classe dominante e coloro che ne gestiscono gli interessi abbiano un grado di coscienza di classe e del funzionamento del sistema infinitamente superiore a quello dei lavoratori.
Dell’inutilità sostanziale, in termini di accumulazione, abbiamo già detto: tuttavia, osservando la questione, sempre dalla prospettiva della conflittualità interna alla classe, emerge un ulteriore aspetto che, per certi versi consolida le considerazioni già fatte e getta ulteriori ombre su quelli che potrebbero essere gli scenari futuri. Come è ampiamente noto ciò che sta accadendo sui mercati asiatici, in particolare da almeno un quarto di secolo da oggi, influisce pesantemente su tutto il sistema del capitale: in diversi articoli avevamo persino lanciato la provocazione che la “comunista” Cina fosse divenuta la locomotiva del capitalismo del xxi secolo o, da un’altra prospettiva ancora, che l’unico grande paese sedicente comunista avesse salvato l’attuale modo di produzione da una rovina altrimenti poco evitabile. Dalla metà del 2015, però, e precisamente dall’agosto di quell’anno, quando le autorità monetarie locali decisero di svalutare lo yuan, permettendo così in automatico un guadagno in termini di competitività per le merci cinesi (a discapito di quelle europee, statunitensi ecc.), si iniziava a guardare verso oriente con diffidenza e giustificato terrore. In molti ricorderanno che la reazione immediata fu sancita da un crollo strepitoso di tutte le borse mondiali condito da un diffuso senso di panico che però, in non poche settimane, non con poca fatica, rientrò: in quell’occasione si iniziava a parlare nuovamente di una presunta “guerra valutaria” riprendendo un’idea sviluppata negli Usa e poco diffusa in Europa (The Currency War, J.Rickards) secondo cui, in estrema sintesi, il fulcro della lotta capitalistica si stesse svolgendo attorno alle svalutazioni delle diverse valute (dollaro, euro, yuan e yen in primis) per tentare di accaparrarsi quote di mercato superiori a danno dei capitali concorrenti.
Apparentemente, una spiegazione del genere sembrerebbe convincente: il mito della “svalutazione competitiva” viene applicato al mercato mondiale e, secondo i fautori di questa teoria, la concorrenza si giocherebbe principalmente sulla tendenza a ribassare il valore della propria moneta tentando di rendere più a buon mercato la mercanzia prodotta nel territorio di riferimento. La questione è però assai più complessa e non è riducibile ad una questione contabile impostata così semplicemente: prescindendo dalle specificità del capitale e del suo modo di produzione, viene adottato qui un punto di vista borghese, per questo molto prossimo a quello dei fautori della fuoriuscita dall’euro (vedi anche Bagnai e altri). Non che la questione valutaria non abbia la sua rilevanza, tutt’altro. Come abbiamo scritto molte volte sulla Contraddizione, l’accezione valutaria è quella che più caratterizza l’attuale fase dell’imperialismo: tuttavia, se stralciata dalle leggi generali dello sviluppo capitalistico e dunque dalla produzione di valore al livello mondiale – che implica imprescindibilmente la conflittualità di classe, nonché quella interna ad entrambe – la questione si svilisce a divenire unicamente una storia contabile, per questo di scarso interesse (per un approfondimento sulla questione delle aree valutarie si invitano i lettori a consultare il sito: www.contraddizione.it/temi). Bisogna tuttavia anche ammettere che, seppur esso rappresenti unicamente un aspetto della questione, la politica ribassista sui cambi è, anche e soprattutto a causa della crisi generalizzata, una realtà a cui tutte le grandi banche centrali (Ue, Usa, Cina, Giappone) si stanno appoggiando, per tentare di dare una piccola boccata d’ossigeno all’asfittico capitale locale. Però, come sottolinea anche la stampa specializzata [M. Longo, sole24ore, 04.02.2016], nel momento in cui tutti costoro ormai propongono la stessa politica monetaria “non convenzionale”, che consiste un’inondazione di liquidità connessa a tassi di interessi reali che divengono negativi – che in altri termini significa che i tassi di interessi nominali sono più bassi dell’inflazione, ossia che prendere a prestito denaro non solo non costa nulla, ma è di per sé un investimento – allora gli effetti sono nulli, nei termini della “svalutazione competitiva” giacché sono mosse che si neutralizzano tra di loro. In altri termini, ammettendo implicitamente che un pompaggio di liquidità non fa altro che generare inflazione, questa corsa al ribasso si basa su generose iniezioni nel sistema. A quel punto non sarà strano rilevare come questo capitale monetario inizierà nuovamente il giro della morte solo che in proporzioni significativamente più elevate di prima aggravando il sistema del capitale di altra zavorra. La sua conversione in capitale speculativo (o fittizio) è ormai data per scontata e solo questo fattore non potrà che agire generando nuove fibrillazioni sul mercato azionario in prima battuta e poi, chiaramente, su quello della produzione di merce.
Dunque, volendo tirare momentaneamente le somme, ciò che emerge con sufficiente nitidezza è che nonostante in sette anni siano stati pompati nell’sistema mondiale dalle sole Bce, Fed e Banca Giapponese una quantità di moneta non troppo lontana dai 7.500 mrd $ (che, per capirci, è una cifra prossima al doppio del Pil annuale tedesco), il capitale mondiale è da una parte in fase di sostanziale stallo se si considerano le prospettive di crescita previste (al ribasso) dal Fmi (circa il 3% a cui si aggiunge una crescita demografica superiore all’1%); dall’altro un fardello di straordinario peso di capitale fittizio sta lentamente schiacciando il capitale produttivo di valore o impiegato nella sua circolazione a livello mondiale. È evidente, pertanto che, in generale, i qe non sono stati così efficaci nell’agire sull’accumulazione di capitale (cosa di fatto affermata da una recente ricerca della Commerzialbank sull’efficacia di quello europeo), bensì, di fatto, sono stati in grado di creare una bolla straordinaria la cui pericolosità e dinanzi agli occhi di tutti, agenti del capitale in primis. In sostanza, questa folle corsa alle iniezioni di liquidità e al ribasso dei tassi di interesse, ha di fatto sentenziato che, il divorzio delle banche centrali dai governi, si è di fatto concretizzato nel fatto che la politica monetaria sia divenuto uno strumento utilizzato in grande prevalenza al fine di alimentare operazioni speculative il cui volume ormai raggiunge dei livelli straordinari. Dunque, a distanza di otto anni dall’esplosione violenta della crisi, si assiste ad una repentina autofagocitazione da parte del non-capitale (modo in cui Marx definiva il capitale fittizio) ai danni di quello produttore di valore. In una delle più evidenti contraddizioni, non esistendo alcuna scissione, a livello di proprietà, del capitale industriale con quello speculativo, la negazione (capitale fittizio) spinge ancora più in basso il punto di crisi cibandosi delle briciole del capitale produttore di merce (affermazione) che, sempre più in difficoltà di accumulazione, risulta completamente dominato dall’altro.
La questione energetica
Questo straordinario appesantimento del volume delle transazioni fittizie è senza dubbio uno degli elementi che è alla base dei crolli che sembrano non aver alcuna intenzione di rallentare in tutto il mondo, tanto da non fare ormai neanche più notizia (nel frattempo che elaboriamo questo articolo, il principale indice di borsa italiano è arrivato a sgonfiarsi in un mese del 20%; l’indice S&P ha perso circa 2 mmrd $ dall’inizio dell’anno e così via). In molti si son chiesti se il contemporaneo tracollo del prezzo del petrolio possa esserne una causa e, qualora ciò fosse appurato, perché le due grandezze, intuitivamente correlate negativamente, debbano procedere, in questo inizio d’anno, scivolando in un abbraccio mortale: l’apparente ossimoro concettuale è che per anni si è raccontato che il prezzo alto del petrolio tirava su i costi delle aziende e dunque bisognava licenziare per rilanciare la produzione, mentre oggi sembra che nonostante il repentino calo, la produzione non dia alcun segnale di controtendenza. Sull’andamento del prezzo del barile c’è poco da aggiungere: solo nell’ultimo anno la sua valutazione si è dimezzata, proseguendo la spettacolare corsa che nel giro di sei anni lo ha portato da 140 $ a circa 30 $, con ovvi stravolgimenti economici e politici a livello mondiale. Senza dubbio, il crollo dei prodotti energetici (non solo il petrolio, ma anche il gas e derivati) ha, di fatto, inginocchiato tre economie che, secondo alcune analisi, erano il reale obiettivo della “manovra” che ha prodotto una riduzione così marcata: stiamo parlando di Russia, Venezuela e Iran. L’attore principale di tale stratagemma è stato ovviamente l’Arabia saudita – storico alleato degli Usa – che negli ultimi mesi ha spinto la produzione a tal punto da causare un ribasso così formidabile, non tenendo conto, forse, come si vedrà più avanti, di alcune complessità che nel frattempo si son aggiunte.
Indipendente dalla volontà esplicita, i risultati sono andanti in tale direzione: il bilancio commerciale russo è immediatamente andato in rosso, imponendo un crescente indebitamento al paese che, al momento attuale, risulta essere il più evidente antagonista del capitale legato al dollaro, soprattutto dal punto di vista militare: le questioni dell’Ucraina e della Siria, ancora drammaticamente aperte, sembrano quotidianamente sul momento di precipitare, aprendo a scenari bellici difficili da intuire ed anticipare. Discorso analogo per quanto riguarda il Venezuela che, essendo il secondo produttore di greggio al mondo, aveva ancorato la tenuta del cosiddetto “socialismo del xxi secolo” ai surplus commerciali conseguenti alla vendita di petrolio: come è noto, il presidente Maduro, non a caso sonoramente sconfitto nelle recenti elezioni parlamentari, si trova alla testa di un paese profondamente spaccato politicamente e incapace di garantire anche le merci basilari a grandi parti della popolazione: dunque, con il barile ai minimi storici, tutte le conquiste sociali del “petrosocialismo” sono state fortemente messe in discussione. Chiaramente, ciò non potrà che generare effetti significativi sugli equilibri del subcontinente latinoamericano e sui rapporti con gli Usa, in particolare per quel che concerne Cuba che negli ultimi anni aveva creato un rapporto di forte dipendenza proprio con il Venezuela: è ancora incerto se questo possa avere un peso significativo su una presumibile svolta reazionaria in molti dell’America latina, a partire dal Brasile – di cui si discuterà successivamente – già in parte iniziata con la vittoria di Macri in Argentina e della destra appunto in Venezuela. Infine l’Iran, stato canaglia per antonomasia nell’immaginario dei governi statunitensi, unica nazione espressamente sciita e per questa, ed altre ragioni, in profonda ed esplicita opposizione al governo saudita, e stato chiave non solo per le questioni energetiche.
Se la volontà, più o meno esplicita, di inginocchiare le economie russe e venezuelane si coniuga abbastanza chiaramente con la strategia imperialista del capitale legato al dollaro di questo inizio secolo, qualcosa in più relativamente all’ostilità saudita\iraniana va quanto meno accennata poiché rappresenta un passo importante per comprendere anche altre dinamiche, comprese quelle inerenti il sedicente califfato e la prossima invasione di Libia. La strategia palese dei Saud era dunque quella di inondare il mercato di petrolio, facendo leva sulla crescita della domanda cinese, per mettere definitivamente fuori giuoco l’Iran che, alle prese con le sanzioni sul nucleare, avrebbe subito dei danni ingenti non potendo competere su un mercato con un prezzo così basso. L’affermazione dell’Arabia Saudita come potenza leader nell’area mediorientale sarebbe divenuta cosa scontata e ciò avrebbe potuto pesare anche nell’economia della guerra in Siria, paese legato all’Iran anche perché governato da Bashar Assad, sciita anch’egli come tutto il suo governo. Tuttavia, gli accordi sul nucleare, con i 5 + 1 dell’Onu nel luglio 2015, hanno completamente capovolto le attese saudite, portando nel giro di pochi mesi all’eliminazione delle sanzioni all’Iran (gennaio 2016) che ha acquisito reputazione, dimostrando una inattesa fermezza dinanzi anche alla plateale provocazione saudita consistita nella decapitazione dell’Imam sciita Al Nimr. La conflittualità tra i due paesi rimane comunque molto elevata: in molti, infatti, sostengono che il regime waabita finanzia più o meno direttamente il califfato, il cui prioritario nemico non è, come si vuol far credere, l’occidente, bensì proprio gli sciiti, mentre l’Iran è, naturalmente, un suo fermo oppositore. A livello militare, i Saud spendono annualmente circa 80 mrd $, 12% del Pil, seguendo solamente Usa, Russia e Cina come totale investito: perciò non stupisce affatto che il più importante alleato, il governo statunitense, sia il maggior fornitore da cui hanno ricevuto armamenti per un totale di 90 mrd $ in soli quattro anni. Anche l’Iran, da quello che trapela, non risparmia in questi termini, raggiungendo i 30 mrd $ l’anno, di cui il 70% viene speso per la sovvenzione dei cosiddetti guardiani della rivoluzione, Pasdaran. In termini di produzione di greggio, l’Arabia saudita ha un potenziale nettamente più elevato, raggiungendo quasi 10 mln di barili, contro i quasi 3 iraniani che potrebbero divenire rapidamente 4\5 specie a seguito dell’eliminazione delle sanzioni. La strategia anti-Iran, pertanto, ha funzionato ben poco e, allo stato attuale, Rouhani viene considerato alla stregua di un interlocutore attendibile per il capitale internazionale così come l’economia iraniana che, di fatto, sicuramente ha subito il crollo del prezzo del petrolio ma non meno di quanto sia accaduto proprio all’Arabia saudita: l’immediato viaggio d’affari di in Europa, e in Italia, che ne è il secondo partner commerciale, rappresentano probabilmente anche una vittoria da parte della Russia, e in parte della Cina, che hanno sempre sostenuto il governo di Teheran, anche quando era presieduto da Ahmadinejad.
Peraltro, oltre all’obiettivo persiano, l’incremento della produzione – mossa decisa unilateralmente, dacché l’Opec ormai ha un peso molto marginale – nei programmi di Riad era destinata alla potenziale crescita di domanda proveniente dall’idrovora cinese e da quella indiana; allo stesso tempo, l’atteso fallimento dei produttori di shale oil statunitense avrebbe di fatto ridotto la produzione complessiva mondiale permettendo un adeguato rialzo proprio del prezzo medio. Ma, purtroppo, così non è andata e il governo saudita si trova a navigare in acque particolarmente agitate trovandosi per la prima volta con un deficit commerciale di quasi 90 mrd $. Le ragioni sono abbastanza chiare: da una parte le fibrillazioni dell’economia cinese, di cui si parlerà successivamente, non hanno garantito quella domanda necessaria ad assorbire la sovrapproduzione di greggio. Dall’altra, la teoria secondo cui la convenienza di estrazione dello shale oil statunitense sarebbe esistita qualora il prezzo di ogni barile fosse stato superiore ai 60 $ (break even) si è rivelata insensata, non considerando che le recenti innovazioni tecnologiche permettono di estrarre petrolio di scisso a costi nettamente inferiori, creando peraltro dei danni naturali imponenti – che però non vengono mai contabilizzati proprio perché pubblici, ossia di nessuno, secondo la vulgata liberale. Dunque, il governo saudita, e forse in parte anche gli Usa, hanno sostanzialmente commesso un grave errore strategico sia dal punto di vista economico, e dunque politico, che da quello militare, fallendo oltretutto nel tentativo di finanziare gruppi jiadisti contro Assad in Siria e non riuscendo ad eliminare la resistenza sciita, sostenuta dall’Iran, in Yemen [3].
Una volta osservato in quali condizioni di conflittualità si sono svolte le cause della riduzione del prezzo del petrolio, è più semplice comprendere anche le ragioni che sono alla base della correlazione diretta con l’andamento delle borse mondiali. Esistono migliaia di modelli che spiegano i nessi tra borse e petrolio, ma la loro numerosità è un ovvio indice della loro imprecisione: non è certamente questa la sede per discuterli o proporne uno che possa avere una valenza assoluta ma è invitiamo a riflettere su alcuni elementi. Innanzitutto, come già visto, i due andamenti riflettono: una crisi generalizzata a livello produttivo, non più adeguatamente soccorsa dalla Cina, come si vedrà più avanti; una feroce instabilità politica e militare, oltreché economica, in larghe parti di Europa, Africa e Asia; infine, come visto a principio di questo articolo, lo spropositato eccesso di liquidità che negli anni ha inondato il mercato mondiale. Su quest’ultimo punto, forse il più pericoloso per la tenuta del sistema, è di rilievo aggiungere alcune riflessioni: proprio per la sua specificità, gli indici di borsa hanno una relazione con la produzione di valore molto flebile, specie in fasi in cui esistono rigonfiamenti di bolle speculative in giro per il mondo, ossia nelle fasi di crisi molto avanzata. Per quanto riguarda il prezzo delle merci energetiche, sarebbe un errore limitarsi ad osservarne la relazione con la produzione di valore o il suo trasporto (circolazione); è altrettanto, se non di più, di rilievo analizzare la tipologia delle scommesse prevalenti sulle cosiddette commodity, proprio sul mercato di borsa: se prevale la posizione rialzista, mentre il petrolio scende, chi ha effettuato investimenti fittizi di questo tipo, e cioè sull’aumento dei prezzi del petrolio, ci perde un mucchio di quattrini, indipendentemente dall’effetto che esso può avere sulla produzione di merci e così via. Quindi, in una economia mondiale dominata in questo momento da valori fittizi che sono dieci volte superiori rispetto al quello monetario delle merci complessivamente prodotto, è inevitabile che l’andamento del mercato speculativo, relativamente al prezzo del barile di petrolio, sia nettamente più importante rispetto all’altro, generando questo tipo di andamenti solo apparentemente contro-intuitivi.
Una crisi incontenibile
Il crollo delle borse mondiali assume ogni giorni connotati più spaventevoli: quotidiani e organi di stampa si affrettano a incensare momentanei rimbalzi ma, per usare gergo tecnico, dopo solo qualche ora devono convenire che si tratta dell’ennesimo “gatto morto”. Questa metafora, con un senso dell’umorismo abbastanza noir, viene utilizzata per indicare una ripresa apparente, momentanea e di poca entità a cui seguiranno cali ancora più vistosi: infatti, si dice, che anche un gatto morto lanciato da un’altezza significativa rimbalza un po’, ma ciò non implica che sia vivo, tutt’altro. Dunque, per molte ragioni, sembra di essere tornati alla fine del 2008 quando tutto sembrava precipitare nel baratro senza che si riuscisse a intravedere una via d’uscita. Nell’ormai lontano 2013 (F.Schettino, Diluvio di liquidità, La Contraddizione no.143) concludevamo l’articolo con un presagio che sembra quanto mai adeguato alla realtà che stiamo vivendo: “la situazione tarda ad assumere connotati significativamente diversi dal biennio 2007-2008 ed il livello di accumulazione mondiale è sempre stagnante, o addirittura negativo se si espungono dal calcolo i dati cinesi. Questo dimostra come le conclusioni di sicofanti analisti di mercato o prezzolati d’accademia abbiano, per l’ennesima volta, capovolto il rapporto tra cause e conseguenze: il problema, infatti, non era allora, e lo è ancor meno adesso, l’assenza di credito, bensì esso è rappresentato dall’impossibilità generalizzata di impiegare capitale monetario per produrre valore, a causa di una crisi di sovrapproduzione di merce che ormai ha pervaso ogni angolo del mondo.
Sembrerebbe, quindi, di assistere allo stesso film già visto poco prima dello scoppio della bolla della new economy (2000), preceduto dalle aggressioni speculative alle tigri asiatiche, passando poi per Russia e America latina, oppure giusto al ridosso del crollo fatale di Lb e affini. Tuttavia, rispetto ad allora, le cose sono mutate significativamente: la situazione contingente è stata preceduta da un quinquennio che ha messo a serio repentaglio, da molti punti di vista, il sistema capitalistico. La condizione della classe subalterna, e anche della piccola borghesia, è talmente prossima ai minimi di sussistenza, anche in quegli stati in cui per secoli essa ha vissuto al pari della aristocrazia proletaria, che, di certo, una violenta deflagrazione della bolla difficilmente potrebbe lasciare intatte le istituzioni capitalistiche, così come abbiamo imparato a conoscerle da almeno mezzo secolo a questa parte”.
Rispetto al periodo in cui avevamo redatto l’articolo, alcune cose si sono persino aggravate pesantemente e ciò non fa altro che condire la situazione di elementi ancor più agghiaccianti. Intorno al 2010, ossia dopo due anni di feroci sconvolgimenti, non furono in pochi – spesso e volentieri terzo-mondisti o intellettuali\accademici, “anime belle” di sinistra, pronte all’ennesimo innamoramento politico – a intravvedere nei paesi emergenti e soprattutto nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) un presunto modello di capitalismo alternativo a quello “classico” in cui le relazioni mondiali seguissero le consuete regole di dominio del capitale statunitense o europeo su tutto il resto mondo in un’ottica (erroneamente) neocoloniale (men che mai imperialista). Immaginando un inesistente antagonismo Nord-Sud del mondo in luogo della scientifica dialettica tra le classi, pensavano che la crescita anticiclica che questi paesi avevano dimostrato di saper conseguire in un periodo di vacche magrissime, potesse rappresentare la giustezza di un presunto modello alternativo in grado di salvare il capitalismo, facendolo traslare su un piano di maggiore umanità.
Gli straordinari risultati in termini di crescita da parte della Cina mettevano da una parte in crisi i modelli econometrici tradizionali e dall’altra finivano per inorgoglire fin troppo anche intellettuali di un certo calibro che, accecati dalla bandiera rossa e dalla mera esistenza di un carrozzone burocratico come il Pcc, vedevano nella grande nazione asiatica qualcosa di simile ad un riscatto del socialismo reale nei confronti di un moribondo capitalismo. Anche coloro che, tra questi, avevano osservato le cose in buona fede, dovevano però ammettere che la sensibile crescita cinese generasse contraddizioni in graduale incremento, anche e soprattutto all’interno della massa di lavoratori che sono soggetti del processo di valorizzazione mondiale né più e né meno come gli omologhi di tutto il mondo. Discorso parzialmente simile avveniva per il Brasile che, dopo quattro mandati di presidenza del governo Pt (partito dei lavoratori) sembrava aver permesso quello straordinario balzo in avanti al più grande paese sudamericano generandone una trasformazione talmente forte da portarlo nelle prime posizioni mondiali in termini di Pil, arrivando a superare, nel 2013, persino l’Italia. La cosa che maggiormente abbagliò molti analisti fu che accanto a questi risultati in termini di crescita, si affiancavano apparenti riduzioni della disuguaglianza e sensibili abbattimenti della povertà: dunque, un modello in grado di coniugare crescita sensibile a riduzione di povertà e distribuzione del reddito sembrava poter essere di straordinario interesse per molte nazioni alle prese con le prove più violente create dall’emersione della crisi. Se per quanto riguarda la riduzione della povertà è giusto prendere atto dell’efficacia delle manovre adottate (riduzione di 20 mln di poveri in dieci anni), per quanto riguarda sia la crescita che la distribuzione del reddito, già mettemmo in guardia sulla caratteristica profondamente apparente di entrambi i fenomeni e sul loro legame indissolubile con i flussi finanziari che negli anni erano attirati dalla politica di alti tassi di interesse sui titoli pubblici brasiliani (regolarmente superiori al 10% in tutto il periodo) che facilmente si conciliavano con un costo del denaro praticamente pari a zero (o negativo) in Usa, Eu e Giappone. In altri termini, era giuoco abbastanza semplice che molti capitalisti prendessero a prestito senza costi dal sistema monetario statunitense o europeo per acquistare immediatamente titoli locali lucrando su un differenziale pari al 10-15% (garantito dallo stato) che in un periodo di buona accumulazione è già significativo; in uno di forte e perdurante contrazione è simile ad una manna dal cielo. Per quanto riguarda, invece, la distribuzione del reddito, già in articoli passati denunciammo il fatto che la riduzione della disuguaglianza fosse guidata principalmente dalla crescita del Pil, mentre a livello strutturale la distribuzione del reddito si stesse modificando generando un profilo di maggiore polarizzazione che, in caso di stagnazione o di crisi, avrebbe potuto generare persino violenti scompigli sociali [4]. Poi, anche sulla Russia, specie nel periodo di maggiore attrito bellico nella questione Ucraina, in molti avevano cominciato a seguire con interesse il modello di sviluppo locale e a considerare Putin come un paladino della democrazia mondiale, dimenticando che non è la geografia a fare il socialismo, bensì la proprietà dei mezzi di produzione (che allo stato attuale non è neanche in lontana discussione).
Si tratta, senza alcun dubbio, di situazioni assai complesse: si può affermare, in estrema sintesi, che il Brasile è entrato in crisi per una pluralità di ragioni, tra cui spicca la vertiginosa fuga di capitale che ha lasciato un paese indebitato fino al collo, con una struttura produttiva basata principalmente sull’industria agroalimentare (soia, caffè, carne e altri prodotti di cui è primo esportatore mondiale) e dunque poco capace di competere su tanti settori; allo stesso tempo non va assolutamente tralasciata la spaventosa crisi dell’industria petrolifera Petrobras – secondo alcuni il vero collante dell’intero stato brasiliano – che, anche grazie alla riduzione del prezzo del greggio, ha subito una riduzione del 90% del proprio valore di borsa in pochissimi mesi, generando un problema strutturale di proporzioni molto ampie. Per quanto riguarda la Russia, sicuramente la conflittualità “per interposta persona” con gli Usa ha assunto un ruolo preponderante giacché ha determinato delle sanzioni internazionali che, inevitabilmente hanno avuto un effetto significativamente negativo sui conti del paese. Se a questo, come già ampiamente documentato, si aggiunge l’effetto sortito dalla manovra dell’Arabia saudita, ossia il crollo del prezzo delle merci energetiche, il quadro si chiude, restituendo una immagine di un paese inevitabilmente accerchiato politicamente e con dei conti pubblici di gestione sicuramente problematica.
Tuttavia il grande malato degli ultimi mesi, sembra esser diventato proprio quel grande paese che, per anni, come già detto, ha tenuto in parte fuori dalle sabbie mobili di una crisi che appare insolubile l’intero sistema del capitale: la Repubblica popolare cinese. In realtà, più che di problemi strutturali (che come vedremo non mancano) sarebbe più opportuno parlare di compatibilità con il sistema capitalistico. Riassumendo brevemente la faccenda, la Cina è attualmente la seconda potenza economica mondiale e in pochi anni dovrebbe divenire la prima, sebbene alcuni analisti, tenendo conto di alcune questioni, già oggi la reputino tale. Il primo problema che si pone per il capitale mondiale è che l’economia più florida del pianeta, e anche per alcuni versi la più potente – nonostante gli accerchiamenti continui promossi dai fratelli nemici attraverso la chiusura di accordi tpp e ttip – per quanto abbia assunto un volto innegabilmente capitalista, ancora è privata di quelle istituzioni necessarie a far star tranquillo il capitale mondiale. Indipendentemente dal fatto che l’unica realtà politica sia quello comunista, ciò che rende le cose complicate nella gestione degli affari è la difficile penetrabilità degli uomini del capitale internazionale all’interno della stanza dei bottoni. In altri termini, la loro capacità di influenzare le scelte di politica economica e monetaria è prossima allo zero; non è un caso che la grande fibrillazione che poi ha aperto alla serie straordinaria dei crolli di borsa in ogniddove è avvenuta quando, unilateralmente, le autorità cinesi hanno deciso di svalutare la propria moneta, con lo scopo di rendere più a buon mercato le merci prodotte e valutate in yuan. Considerata la mole di merci che ogni giorno escono dalle fabbriche cinesi e che ora, rispetto a 5/10 anni fa, sono prevalentemente di proprietà locale, la cosa ha spaventato violentemente i mercati, causando una fragorosa caduta che ha riguardato anche la borsa di Shanghai. Un copione molto simile è stato seguito anche alla fine del 2015 quando, dinanzi all’ennesima svalutazione “ad orologeria” della moneta cinese, si è innescato quella catena disastrosa che arriva sino ai giorni in cui redigiamo l’articolo.
Le questioni sono numerose, ma quella che maggiormente fa discutere è la ragione per cui una economia che presenta dei tassi di crescita del Pil così sostenuti che in Europa e Usa se li sognano da più di mezzo secolo, sia considerata in un fase delicata se non di crisi. Ufficialmente, la Cina è cresciuta del 7,3% nel 2014 e del 6,9% nel 2015: questi sono dati che, per quanto distanti dalla soglia “psicologica” dell’8%, rappresenterebbero qualcosa di straordinario; tuttavia, sono in non pochi a cominciare a dubitare della loro validità e affidabilità. Infatti, è stato calcolato da un dipendente della China Energy Group che, come del resto è intuitivo, dal 2005 al 2013 mediamente, per ogni punto di Pil di crescita, la domanda di energia elettrica aumentasse di un 1,09%. Nell’ultimo biennio, a fronte dei tassi di crescita ufficiali, nel 2014 la crescita della domanda di energia elettrica è aumentata del 3,8%, mentre nel 2015 (dati di novembre), solo dello 0,6%. Per quanto le trasformazioni dell’economia cinesi siano molto forti e, orientate ad un forte incremento di servizi, relativamente al settore industriale, ciò difficilmente può giustificare uno scollamento così violento, specie nel 2015, in cui al 6,9% di crescita del Pil corrisponderebbe meno dell’1% dell’aumento di consumo di elettricità: insomma, tutto è possibile, però i dubbi restano e si amplificano soprattutto alla luce del fatto che le autorità cinesi per ben due volte nello stesso anno sono costrette alla svalutazione, cosa evidentemente necessaria dinanzi alla forte difficoltà, più o meno palese, di accumulazione di capitale. Dunque, che siano i dubbi sulle stime del Pil, l’incontrollabilità delle autorità politiche e monetarie, lo “shadow banking” – che altro non è se non un sistema di credito informale che raggiunge il 34% del Pil – o anche l’indebitamento, cresciuto spaventosamente insieme al rischio sistemico (800 mrd $), in ogni caso, la Cina non rappresenta più quell’ancora di salvataggio sicura che negli scorsi anni ha in pratica tenuto a galla il sistema. L’inserimento, alla fine del 2015 da parte del Fmi dello yuan nel paniere delle valute che concorrono a formare i Dsp (diritti speciali di prelievo) di fatto permette alla moneta cinese di divenire a tutti gli effetti, al pari di dollaro Usa, euro, yen e sterlina, una valuta utilizzabile a livello internazionale sia come riserva che per gli scambi di merci o servizi. Per quanto questa mossa sia stata osteggiata da molti operatori, giacché la Cina non sembrerebbe aver implementato sufficientemente le riforme in senso liberale, come richiesto dalle autorità sovranazionali, sembrerebbe che essa possa essere letta come un tentativo di stabilizzare le volatilità eccessive garantite negli ultimi mesi dalle autorità monetarie locali, oppure, questione ancora più profonda e importante, preparare il terreno al conferimento internazionale del Mes (market economy status) il che cambierebbe sostanzialmente gli assetti produttivi mondiali.
È probabilmente questo il perno attorno a cui gira una parte delle turbolenze che sono divenute oramai plateali: a distanza da 15 anni dall’ingresso all’interno del Wto (Organizzazione mondiale del commercio), come accordato allora in quella sede, la Cina ha legittimamente fatto richiesta, in modo più o meno ufficiale, di ottenere il Mes, ossia di essere riconosciuta come economia di mercato al pari di tutte le altre potenze economiche mondiale. Tralasciando per un attimo le potenziali reazioni isteriche di coloro che ancora vedono nella Cina il baluardo comunista nel mondo, la cosa ovviamente è tutt’altro che limitata ad una etichettatura ma potrebbe avere degli effetti assolutamente sconvolgenti. Nonostante in molti cavalchino inconsapevolmente la litania “ormai siamo invasi dalle merci cinesi”, in realtà, proprio per la sua specifica configurazione almeno parzialmente centralizzata, nei confronti dell’economia dell’Rpc esistono dazi e politiche fiscali (alla faccia del tanto decantato liberismo) che riducono sensibilmente il flusso di merci e servizi potenzialmente in arrivo dal grande paese asiatico aumentandone il prezzo o riducendone la quantità per legge. Qualora venisse concesso il Mes, una gran parte queste misure sarebbero rimosse, con evidenti ripercussioni per quei settori che al momento vivono praticamente all’ombra di dazi e contingentamenti. Solo per quanto riguarda l’Italia, le conseguenze sarebbero ingenti, considerando che il 40% delle aziende europee protette da tali politiche sono proprio italiane. I settori più colpiti sarebbero, secondo uno studio governativo pubblicato dal sole24ore (10.12.2015): chimica, siderurgia, ceramica, la filiera della carta e bulloneria potrebbero venir spazzati letteralmente dall’apertura alla reale concorrenza cinese con evidenti ripercussioni drammatiche sull’occupazione europea. Si consideri che la sovracapacità produttiva cinese dell’acciaio eccede le 300 mln di tonnellate, ossia il doppio della produzione annuale dell’intera Europa; nella ceramica sarebbero a rischio 200 mila addetti, mentre nella filiera della carta si arriverebbe a poco meno di 700 mila, non considerando gli inevitabili effetti sull’indotto. Questa è una realtà sufficientemente nota alle autorità europee che non c’è giorno che passa che cercano di impedire che a livello internazionale venga condivisa la concessione del Mes; d’altra parte, gli Usa potrebbero giocare tatticamente sulla questione e, utilizzando il Mes come arma di ricatto, avrebbero la possibilità di costringere l’Ue ad accelerare il processo di conclusione degli accordi ttip che solo apparentemente aprirebbe delle reali possibilità al capitale legato al dollaro [5].
Considerazioni finali
Il quadro delineato, per quanto non esaustivo, data la relativa brevità dell’articolo, fornisce un numero sufficiente di elementi per tentare di individuare una chiave di lettura sull’attualità e le sue prospettive. Dopo otto anni, l’economia mondiale si trova nuovamente a combattere contro una crisi che sta riemergendo in tutta la sua violenza. Alla fine del 2008 spiegammo, in aperto contrasto con tutta la stampa e ovviamente con gli accademici – saliti improvvisamente in massa sul carro degli esperti di crisi, dopo aver fatto carriera su modelli che prevedevano crescita senza tregua e diretta all’infinito –, perché non avesse alcun senso parlare di crisi finanziaria o speculativa, e che, al contrario, quello che accadde dopo il fallimento pilotato di Lb fosse l’epifenomeno di una crisi di sovrapproduzione che serpeggiava già dall’inizio degli anni settanta. Allo stesso modo, nel 2016, a distanza di otto anni, nonostante le più fantasiose e creative ricostruzioni giornalistiche e pseudo-scientifiche, continuiamo a dire che i problemi che si erano accatastati prima dell’esplosione della crisi del 2008 sono gli stessi che ancora oggi affliggono mortalmente il capitale mondiale, giacché la grandissima parte delle manovre messe in atto hanno avuto la stessa funzione che una dose di metadone assume nel corpo di un tossicodipendente giunto agli sgoccioli. Gli Usa, così come gran parte degli stati europei sono effettivamente a rischio recessione, sebbene i lacchè della classe dominante si arrabattino alla ricerca di nuovi capri espiatori utili a fantasiose spiegazioni di contingenza. Le stesse dichiarazioni di Lagarde, direttrice del Fmi, della fine del 2015 sono emblematiche e vanno in questo senso: “ci troviamo in una congiuntura difficile e complessa”. Nonostante lo smantellamento del mercato del lavoro mondiale, ossia la precarizzazione diffusa della classe subordinata e, più in generale, la promozione di politiche che potessero agire in maniera antagonistica nei confronti della crisi, l’asfissia del capitale si è aggravata e la vitale ossigenazione cinese sta perdendo grande parte dello slancio, mettendo a serio repentaglio la tenuta complessiva del sistema. La crisi da sovrapproduzione sta probabilmente attraversando la sua fase più difficile e gli strumenti utili a camuffarla sembrano essere esauriti. In tutto ciò, l’inondazione di liquidità divenuta di pertinenza quasi esclusiva del capitale fittizio potrebbe assumere un ruolo in palese contrasto con le attese e le dichiarazioni di intenti: questa immensa massa di prodotti finanziari gonfiatisi in una o più bolle nel tempo potrebbe ancora una volta agire allo stesso tempo come innesco ed amplificatore della crisi da accumulazione, svelando, come avvenuto nel 2008, a seguito dell’esplosione della crisi dei subprime, la prevalente natura fittizia del capitale mondiale e l’oscurità, sempre più nera, del tunnel dove il modo di produzione si è ormai incanalato da anni.
[1] Si veda anche il documentario Blue Moon a cura di Matite Spezzate, https://vimeo.com/69889032
[2] Schettino F., Metti una sera a Manhattan, La Contraddizione, no.131, 2010.
[3] Per un approfondimento della questione si suggerisce di leggere gli articoli scritti da Alberto Negri sul Sole24ore a partire nel gennaio 2016.
[4] Per un approfondimento si rimanda a: Coggiola O. (2015), L’America latina in scena, La Contraddizione no.150; Schettino F. (2014), Polarizzazione e disuguaglianza, La Contraddizione, no. 148.
[5] Si veda anche: Schettino F. (2014), Accordi e disaccordi, La Contraddizione, no.149.
11 febbraio 2016
[il testo è disponibile in formato .doc Crisi_irrisolta_di F Schettino o al link http://www.contraddizione.it/Contraddizioneonline.htm]