di Salvatore D’Albergo
La fase – che vorrebbe essere fatalmente conclusiva – del lungo, tortuoso percorso seguito dal processo di delegittimazione alla memoria storica, evocando i problemi teorici, sollevati alla Costituente dall’intesa tra democristiani, socialisti e comunisti, sulla connessione tra i Principi fondamentali e i principi della Prima Parte della Costituzione, per il perseguimento degli obbiettivi “emancipatori” coinvolgenti l’interesse dei lavoratori, mediante la disciplina a fini sociali della proprietà e dell’impresa.
Si tratta di un passaggio resosi indispensabile proprio perché appare inevitabile la spiegazione dell’importanza acquisita per almeno un quarantennio dei principi “giuridici” qualificatori della forma di stato di democrazia sociale, divenuti nel testo del 1948 gli assi portanti di un passaggio epocale dovuto alla forza cogente di norme “programmatorie” dei processi di trasformazione di quelle che erano state le teste di capitolo dello stato liberale a garanzia della proprietà privata e dell’impresa capitalistica.
Va, pertanto, sottolineato che sulla linea teorico-politica che è stata alla base dell’impostazione vincente di La Pira-Dossetti-Basso-Togliatti-Di Vittorio-Pesenti – cioè con una netta egemonia della cultura cattolica e marxista – le riserve più frenanti sono state sollevate da quel Partito d’azione esauritosi come forza unitaria organizzata nel rapido passaggio della fase costituente, e i cui eredi oggi stanno accompagnando l’involuzione da cui la funzione dei principi innovatori è coinvolta, nel contesto degli effetti di trascinamento derivanti dall’intreccio tra i principi “comunitari” e quelli dei singoli ordinamenti statali.
Vessillifero della linea contestativa del completamento dei tradizionali diritti di “libertà” con l’inserimento dei nuovi diritti “sociali”, è stato quel Calamandrei che – studioso di diritti processuale ( e docente, negli anni costituenti, anche di diritto costituzionale) – è stato un esemplare interprete della distinzione tra le “categorie” concettuali proprie dei “codici” come fonti “ordinarie” del diritto dalla categoria concettuale delle fonti “costituzionali” specialmente di carattere “rigido”, sicchè egli ha avviato la sua serrata persistente contestazione delle proposte degli esponenti dei rappresentanti dei tre partiti di massa, addirittura sulla pregiudiziale teorico- politica della competenza della Costituzione ad intervenire in materia “istituzionale” – come, appunto, la “forma di governo” – a differenza che nella questione “sociale”: e in un saggio del giugno 1945, prima di intervenire nel dibattito costituente, ha fatto opera di interdizione, sostenendo una tesi divenuta ora dominante, secondo cui i nuovi diritti di libertà sociale rappresenterebbero per lo stato una insostenibile “questione finanziaria”, al contrario dei classici diritti di libertà la cui soddisfazione “non costa nulla allo stato”. Senonchè – a parte il sofisma, teso ad eludere il fatto dell’intero sistema costituzionale del 1948, oggi nelle mani di una “commissione di esperti” assunti dal governo Pdl/Pd per condizionare il compito spettante agli organi del Parlamento, a imitazione del metodo illegittimamente usato in Francia dal De Gaulle del 1958 per instaurare il c.d. “semipresidenzialismo”, si presenta sotto il segno dominante della revisione della “forma di governo”, in nome del primato della “governabilità” contro il rispetto del nesso tra sovranità popolare, rappresentanza politica, pluralismo dei partiti e autonomia del Parlamento: cercandosi di occultare l’organicità dell’impianto che lega forma di governo e metodo elettorale, per coniugare il ruolo dei poteri “forti” e quello dei vertici dello stato/nazione e della cupola “sovranazionale”.
Ma quel che pericolosamente è in atto – per meglio condurre in porto l’operazione perseguita da vari decenni da centri di potere palesi e occulti – è l’attacco alla “forma di stato”, espressione su cui i costituzionalisti si mostrano incompetenti perché le vicende storiche delle forme di stato chiamano in causa principi di “filosofia politica” che connotano la funzione dell’organizzazione del potere nel conflitto tra valori che favoriscono o contestano la “giustizia sociale”.
Benché, infatti, nella mozione approvata per instaurare le procedure di revisione costituzionale il richiamo alla “forma di stato” preceda quelli riferiti alla “forma di governo”, al superamento del bicameralismo paritario, alla riduzione del numero dei parlamentari e alla riforma del sistema elettorale, un oscuro silenzio avvolge le questioni pregiudiziali che coinvolgono i Principi Fondamentali, e quelli che sono contenuti nella prima parte del testo costituzionale, poiché non ci si può far deviare dal fatto che anche la prospettiva “federalista” aperta dalla revisione ambiguamente introdotta nel 2001 (con soli 4 voti di maggioranza e un referendum confermativo passato nella distrazione cui sono stati indotti i votanti), è per certi versi motivo di più meditata valutazione dei criteri qualificanti il passaggio dalla forma di stato “liberale” (con la parentesi “fascista/corporativa”, entrata nel codice civile), allo stato che non è solo “democratico” quanto ai rapporti “politici”, ma anche “sociale” quanto ai rapporti etico-sociali ed economici.
E poichè le questioni legate alla forma di governo, insieme alle altre di cui è prevalente lo spazio occupato nelle discussioni sulle riforme istituzionali, attengono alla “funzionalità operativa” degli organi investiti del compito di attuare i principi della Repubblica fondata sul lavoro per avviare riforme volte a rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza “sostanziale”, rende necessario ricorrere alla memoria storica, evocando i problemi teorici, sollevati alla Costituente dall’intesa tra democristiani, socialisti e comunisti, sulla connessione tra i Principi fondamentali e i principi della Prima Parte della Costituzione, per il perseguimento degli obbiettivi “emancipatori” coinvolgenti l’interesse dei lavoratori, mediante la disciplina a fini sociali della proprietà e dell’impresa.
Si tratta di un passaggio resosi indispensabile proprio perché appare inevitabile la spiegazione dell’importanza acquisita per almeno un quarantennio dei principi “giuridici” qualificatori della forma di stato di democrazia sociale, divenuti nel testo del 1948 gli assi portanti di un passaggio epocale dovuto alla forza cogente di norme “programmatorie” dei processi di trasformazione di quelle che erano state le teste di capitolo dello stato liberale a garanzia della proprietà privata e dell’impresa capitalistica.
Va, pertanto, sottolineato che sulla linea teorico-politica che è stata alla base dell’impostazione vincente di La Pira-Dossetti-Basso-Togliatti-Di Vittorio-Pesenti – cioè con una netta egemonia della cultura cattolica e marxista – le riserve più frenanti sono state sollevate da quel Partito d’azione esauritosi come forza unitaria organizzata nel rapido passaggio della fase costituente, e i cui eredi oggi stanno accompagnando l’involuzione da cui la funzione dei principi innovatori è coinvolta, nel contesto degli effetti di trascinamento derivanti dall’intreccio tra i principi “comunitari” e quelli dei singoli ordinamenti statali.
Vessillifero della linea contestativa del completamento dei tradizionali diritti di “libertà” con l’inserimento dei nuovi diritti “sociali”, è stato quel Calamandrei che – studioso di diritti processuale ( e docente, negli anni costituenti, anche di diritto costituzionale) – è stato un esemplare interprete della distinzione tra le “categorie” concettuali proprie dei “codici” come fonti “ordinarie” del diritto dalla categoria concettuale delle fonti “costituzionali” specialmente di carattere “rigido”, sicchè egli ha avviato la sua serrata persistente contestazione delle proposte degli esponenti dei rappresentanti dei tre partiti di massa, addirittura sulla pregiudiziale teorico- politica della competenza della Costituzione ad intervenire in materia “istituzionale” – come, appunto, la “forma di governo” – a differenza che nella questione “sociale”: e in un saggio del giugno 1945, prima di intervenire nel dibattito costituente, ha fatto opera di interdizione, sostenendo una tesi divenuta ora dominante, secondo cui i nuovi diritti di libertà sociale rappresenterebbero per lo stato una insostenibile “questione finanziaria”, al contrario dei classici diritti di libertà la cui soddisfazione “non costa nulla allo stato”. Senonchè – a parte il sofisma, teso ad eludere il fatto che gli stessi diritti di libertà si reggono sull’ordine pubblico assicurabile dai costi finanziari dello stato- apparato (potere militare, di polizia e giudiziario, come attestato dalle politiche di bilancio degli anni ‘800 e primo ‘900) – il problema teorico non era eludibile, se lo stesso Calamandrei già prima di entrare a far parte della Costituente ha sostenuto che negare i diritti sociali “vorrebbe dire negare infatti la democrazia”: a tal punto da affermare che la questione sociale si presentava sulla soglia della costituente “come la più importante e la più urgente delle questioni costituzionali”, poiché i diritti sociali vanno classificati tra i “diritti pubblici del cittadino”. Per poi concludere apoditticamente che solo la Costituzione russa del 1936 era riuscita con il suo sistema economico a trasformare gli astratti principi di giustizia “in realtà di vita vissuta” con istituzioni che “garantiscono l’attuazione pratica del principio proclamato”, mentre nella incombente entrata in funzione della costituente italiana “dovremo mestamente accorgerci che ci sarà consentito soltanto di porre alcune premesse consolatrici, segnare mete che servano di faro al cammino dei figli e dei nipoti”.
Che il ruolo della Costituzione italiana si presentasse del tutto diverso, più volte era stato precisato da Togliatti di fronte ai richiami alla Costituzione sovietica fatti da La Pira e da Dossetti, perché nell’Urss erano stati costituzionalizzati i principi di “rivoluzione già compiuta”, mentre in Italia ci si apprestava al “prologo”, e non “all’epilogo”, di una rivoluzione sociale: quello che però sostenne Calamandrei a proposito del problema centrale, non solo “politico” ma anche “tecnico” della costituente, consisteva nell’antitesi, a suo dire, tra “politica” e “tecnica giuridica”, come anticipazione della sua inesausta contrarietà all’inserimento nel testo costituzionale di quella parte dei “diritti e doveri dei cittadini” derivanti dalla disciplina dei rapporti etico- socialiedeconomici,dacuiharicevutolasuaoriginale impronta la forma di stato di democrazia sociale, con tutte le implicazioni sulla democrazia politica e sulla forma di governo parlamentare e delle autonomie che sono oggetto del dibattito principale.
Coma la storia degli anni successivi – specie ‘60/70 – sta a dimostrare, dietro la “querelle” ripetutamente sollevata da Calamandrei stava una questione di fondo coinvolgente la natura e la funzione della scienza giuridica in generale, e del diritto costituzionale in particolare, destinati a subire innovazioni metodologicamente rilevanti proprio in rapporto al ruolo di “tecnica” e “politica”, poiché a causa del superamento della cultura liberaldemocratica di cui risentiva conflittualmente anche il Partito d’azione cui apparteneva Calamandrei, si andava dispiegando in Europa una tendenza a passare a politiche di “welfare state” il cui impulso prendeva corpo sotto l’egida di “principi” aventi anch’essi portata “normativa”, come guida verso obiettivi nuovi conseguibili mediante vincoli da porre sia verso lo stato, sia verso la proprietà e l’impresa privata: ciò che comportava la necessità di modellare la forma di governo con criteri “politici” coerenti con la qualità “sociale” delle rivendicazioni da
realizzare. Perciò gli è stato giustamente contestato (linea assunta già in fase di direttive di massima per la redazione del progetto di Costituzione) il fatto di dubitare che “le norme elaborate dalla prima e dalla terza Sottocommissione siano veramente tutte norme giuridiche”, tali da poter trovare posto in una legge; e nel denunciare infondatamente che a supporto dei “cosiddetti diritti sociali, la determinazione dei mezzi pratici per rendere effettivi questi diritti non è stata fatta”, sempre sul presupposto che i diritti sociali “non sono veri diritti”, ragion per cui in rispetto “della più corretta tecnica giuridica” i desideri che hanno “carattere sentimentale” ma non “un carattere giuridico” avrebbero dovuto essere sistemati in un irrilevante “preambolo” della Costituzione. Né Calamandrei ha esitato a evidenziare quello che era un limite derivante dalla sua concezione del diritto, risalente all’epoca della nascita del positivismo giuridico e della forma di stato liberale, quando nell’insistere nella sua pregiudiziale ha rimarcato il fatto che egli era “componente della seconda Sottocommissione”, alla quale spettava il compito di delineare i principi dell’ordinamento repubblicano, e quindi anzitutto della forma di governo; che doveva cioè trovare “i mezzi pratici “ attraverso cui debbono essere tutelati i diritti enunciati dalla prima e dalla terza Sotto commissione, come già si è visto, con alla base, ritornante ad ogni piè sospinto, l’idea che norme giuridiche siano propriamente quelle di natura “istituzionale”, nonché quelle che tutelano “i diritti politici in senso tradizionale”, donde il ripetuto ricorso ad o.d.g. volti a sottili distinzioni tra articoli recanti “finalità etico-politiche e articoli destinabili a diventare sanzionati con leggi, ma “ancora non maturi” a contenere diritti perfetti e attuali. La linea di attacco fatta come “giurista” era inequivocabile ed anche beffarda, se si rammenta che Calamandrei – affermato che l’art.1 che dice “questa bellissima cosa: la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro” – ha poi soggiunto con domanda retorica: “quando dovrò spiegare ai miei studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro, che potrò dire?”. La natura dissacrante dei suoi interventi è confermata dalla denuncia a carico di norme in cui si afferma che “l’iniziativa economica privata è libera”, e quella in cui si specifica che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” (si ride): per sostenere che la prima soddisfa “il conservatore, o liberale che sia”, e la seconda “il progressista”, e che quindi rimane aperto l’interrogativo se la Costituzione della Repubblica italiana, sotto l’aspetto sociale “è a tendenza conservatrice, o a tendenza progressiva, individualista o socialista”. E il sarcasmo raggiunge l’acme rivelatore dell’animus del giurista, laddove egli ha ritenuto di poter dissacrare le norme sulle misure economiche per la formazione della famiglia, sulla tutela della salute, sull’esercizio del diritto all’istruzione con borse di studio e assegni alle famiglie, norme che rappresenterebbero “una forma di sabotaggio della nostra Costituzione”, perché con l’entrata in vigore della Costituzione “noi sappiamo che questo non può essere vero per molte decine d’anni”. Ora, poiché i meriti politico-culturali enfatizzati (soprattutto dopo gli oltre 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione) nei confronti di Calamandrei tengono conto delle sue aspre critiche nei confronti della fase “centrista” del quadripartito dominato dalla DC; sia della sua collaborazione nella ferma denuncia della elaborazione della legge “truffa” del 1953 in senso maggioritario, nonché della critica “dell’ostruzionismo della maggioranza” che aveva bloccato l’attuazione dei principi costituzionali della Prima ma anche della Seconda parte; e poiché in genere viene rimarcata la sua sintesi politica secondo cui “per compensare le forze di sinistra della rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa”, in questa fase di attacco sistematico alla Costituzione, con il concorso di forze culturali e politiche eredi della fase costituente, è indispensabile chiarire che Calamandrei è stato assertore di una concezione “modernizzatrice” dello stato, e quindi insieme presidenzialista e federalista, in linea con le più consolidate visioni dello stato capitalistico di cui gli Usa sono stati il prototipo, sicchè le sue benemerenze postume ne completano la personalità di politico prima che di giurista, grande alfiere dei diritti di libertà che non a caso viene definita “negativa”, rispetto a quella “positiva” da lui ritenuta priva di garanzie effettive.
Si tratta di una posizione culturale che si presta ad una critica senza residui, ove si tenga presente che secondo Calamandrei la Costituente avrebbe fatto meglio a impegnarsi su non si sa quali “riforme” immediate, benché il suo compito fosse quello di emanare il testo costituzionale, e che le sue riserve sulla pretesa non azionabilità dei diritti sociali sarebbe stata smentita da quando è entrata in vigore la Corte Costituzionale, così come è risultata subito infondata la tesi ossessivamente imbracciata sulla inconsistenza giuridica dei diritti sociali, a fronte delle norme “istituzionali”: come dimostra il fatto che l’istituzione effettiva delle Regioni a statuto ordinario ha atteso il passaggio di tempo che va dal 1948 al 1970. Più ancora il compendio di riforme civili, e sociali, e di interventi di “governo democratico dell’economia” hanno avuto la legittimazione mediante le norme c.d. “programmatiche” che il comunista Crisafulli ha saputo subito inquadrare in una concezione del diritto in cui le norme di “principio” sono assurte a strumento di guida verso la trasformazione della società e dello stato.
Certo, un’altra benemerenza Calamandrei si è conquistata nella rigorosa difesa dei diritti politici delle minoranze, e quindi delle opposizioni, facendone espressa applicazione al caso delle discriminazioni contro il partito comunista, da lui ritenute illegittime – al contrario di quanto sostenuto nella Germania federale – sia perché il Pci “ha partecipato in misura più elevata di ogni altro alla lotta di Liberazione, ed è storicamente una delle forze fondatrici del presente ordine costituzionale; sia perché l’attività democratica di un partito non può essere sindacata o limitata sotto il profilo delle sue finalità ideologiche”: donde la necessità di limitarsi al rispetto della fedeltà “esterna” al metodo democratico, cioè il rispetto del fair play elettorale e parlamentare nella lotta con gli altri partiti.
Quel che, quindi, è decisivo rilevare, avvalendosi di una essenziale memoria storica, è che i rischi da affrontare in questa fase, nella quale si sono concentrati i problemi istituzionali più importanti – ad esclusione di quelli concernenti la magistratura – riguarda il tema solo accennato, pur essendo il primo in elenco, identificabile nella questione della “forma di stato”, poco approfondita dai giuristi per quella idiosincrasia che studiosi come Calamandrei hanno portato all’estremo, ma che più o meno palesemente coinvolge i giuristi – soprattutto “costituzionalisti” – i quali hanno scarsa dimestichezza con i contenuti dei rapporti sociali ed economici, tanto che solo il ristretto stuolo di giuristi competenti in materia di diritto amministrativo, di diritto commerciale e di diritto del lavoro, hanno mostrato di sapersi orientare nelle tematiche del governo dell’impresa, pubblica e privata, della programmazione economica e della programmazione finanziaria: il tutto con l’incidenza delle istituzioni sovranazionali, e le convergenti implicazioni sulla forma di stato e sulla forma di governo dall’ “esterno”, oltre che dall’ “interno”.
Tenuto altresì conto delle modifiche intercorse nel “sistema politico”, nella sua composizione e condizionamento, sul e dal sistema istituzionale, dopo la crisi dei partiti comunisti che sono stati – con diversa efficacia in Italia e in Francia – i punti condeterminanti della modifica – organica in un caso, e appannata, nell’altro – della forma di stato, con effetti a lungo andare delegittimanti, in nome di una cultura denominata “democrazia costituzionale” (Zagrebelsky, Ferrara, Rodotà) che fuori dalle apparenze comporta una riduzione ai soli aspetti “istituzionali” dei contenuti qualificanti la democrazia sociale del caso italiano, puntando più sulle “garanzie” della ridigità della Costituzione che sul “potere di indirizzo” delle assemblee elettive, come se il conseguimento di obiettivi di sviluppo della comunità e quindi dei cittadini non dipenda dal tipo – variabile – di efficacia dell’uso dei pubblici poteri in campo economico-sociale.
Donde l’inevitabile connessione tra le posizioni politico- culturali di un partito come il partito d’azione e degli attuali interpreti di un liberal-socialismo timoroso di nuocere agli interessi del ceto medio, ove disposto ad assecondare linee di intervento pubblico nell’economia mirate a promuovere effettivamente i diritti sociali dei gruppi più deboli: ciò che la complessità delle vicende di tipo “federalista”, avviate in nome del “mercato comune”, benché coinvolte in processi non ancora compresi in un modello definito, ha reso più gravemente insufficiente, oltretutto aggravando vieppiù il peso di una “governabilità” irretita da centri di potere elevati a cupola sopranazionale.
Ecco perché, lasciando in disparte l’approfondimento del passaggio da una forma storica all’altra di forma di stato – il cui nucleo di principi di fondo è il cuore dei conflitti di classe, nei vari ordinamenti politico-istituzionali – si immiserisce in sequenze di modellistiche asfittiche la questione delle forme di governo, che sono il presidio funzionale delle forme di stato, le cui teste di capitolo appartengono alla filosofia sociale e politica, da cui i giuristi cercano di astrarre in nome di una “purezza” metodologica che ne valorizza i contributi scientifici, proprio nella misura in cui gli aspetti “tecnico-giuridici” si ammantino di una autonomia – che diventa anche contrapposizione – rispetto ai valori “politici” da cui tutti i segmenti dell’organizzazione del potere sono qualificati. Perciò si finge che non esista un “popolo sovrano europeo” e il c.d. “parlamento europeo” è solo somma di spezzoni di rappresentanze “nazionali”, con un potere esiguo di assurda “codecisione”; i parlamenti nazionali, a loro volta, sono succubi dei rispettivi esecutivi: e le due parti di quella che si vuol definire “democrazia costituzionale” (sminuendo la portata complessiva della definizione) sono scindibili, partendo dalla valorizzazione della “democrazia sostanziale” con ricasco fatale sulla stessa democrazia “formale”, sostenendosi da parte dei giuristi che le due dimensioni della “democrazia costituzionale” sono tra loro già logicamente indipendenti, intese cioè come funzioni di “governo” e funzioni di “garanzia” di libertà sociale, la cui omessa attuazione è veicolo di riduzione della stessa democrazia politica, condizionabile dal nesso dei poteri “forti” padroni del mercato con i poteri “politici” autoritativi, a dimostrazione che la carenza della “democrazia sociale” è per se stessa luogo di incubazione di plebiscitarismi in cerca del “capo”, nell’insoluta alternativa tra forma di stato liberale e forma di stato socialista.