Intervista a tutto campo con il procuratore Carmelo Zuccaro
di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
“La ‘costruzione’ della falsa collaborazione dello Scarantino” come “espressione di gravi scorrettezze poste in essere da taluni investigatori per ottenere con mezzi illeciti dei risultati immediati nell’individuazione di alcuni dei responsabili della strage di via d’Amelio” e l’impossibilità di attribuire al pm Nino Di Matteo “errori importanti in questa vicenda”. Sono questi alcuni passaggi dell’intervista che il Procuratore capo di Catania, Carmelo Zuccaro, già Presidente della Corte d’Assise a Caltanissetta nel processo Borsellino ter in cui furono condannati i boss della Cupola mafiosa e, per la prima volta, si iniziò a parlare di mandanti esterni per le stragi, ci ha rilasciato. Un colloquio in cui il magistrato ha parlato anche dell’evoluzione di Cosa nostra, dei rapporti con la politica e l’imprenditoria e degli strumenti di contrasto alla criminalità organizzata. Un punto di vista ulteriore per cercare di comprendere il sistema criminale e ciò che avvenne tra il 1992 ed il 1993 partendo proprio da quello che la corte d’Assise di Caltanissetta, al processo Borsellino quater, ha definito come il “più grave depistaggio della storia”. Al di là delle opinioni sulla vicenda Scarantino è evidente che dietro alla strage di via d’Amelio vi è un nodo, quello dei mandanti esterni, che si intreccia anche con la scomparsa dell’agenda rossa e con quegli “elementi di verità” messi in bocca al picciotto della Guadagna.
Procuratore Zuccaro, con la morte degli storici padrini (su tutti il boss corleonese Totò Riina), ed i continui arresti gli analisti hanno definito la nuova mafia come una “mafia 2.0” che non appare, che evita, se può, la violenza e che si concentra solamente sugli affari. Qual è la sua opinione?
Per prima cosa va evidenziato che il ricorso sistematico alla violenza nelle forme più eclatanti dei cosiddetti “omicidi eccellenti” della strategia stragista appartiene in particolare ad una determinata stagione di Cosa nostra, che è quella che coincide con l’egemonia dei corleonesi, che va dagli inizi degli anni Ottanta sino alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, allorché vengono assicurati alla giustizia prima Totò Riina e poi i maggiori fautori della strategia stragista, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. In realtà, nella plurisecolare storia di Cosa nostra in Sicilia, questa si caratterizza non già per la contrapposizione frontale con gli apparati statali; bensì per la ricerca di una convivenza pacifica attraverso accordi collusivi più o meno diretti con esponenti politici, pubblici amministratori e funzionari, nonché con imprenditori, sulla base di un rapporto sinallagmatico di reciproca utilità attraverso il quale il potere mafioso si è spesso infiltrato ed ha condizionato l’operato dei poteri pubblici di ampi settori della società civile.
A Catania possiamo dire che tale strategia di infiltrazione e corruzione ha continuato ad essere perseguita anche nel periodo dell’egemonia corleonese, atteso che Nitto Santapaola e gli Ercolano, messi al potere dai corleonesi che hanno favorito l’eliminazione del precedente boss Giuseppe Calderone, sono stati sempre attenti ad evitare omicidi eccellenti nel territorio di loro pertinenza, con poche eccezioni, come l’omicidio di Giuseppe Fava, in cui si riteneva che fosse messo in pericolo dalle coraggiose inchieste giornalistiche dello stesso proprio il rapporto di affari che la famiglia catanese di Cosa nostra aveva stabilito con i maggiori imprenditori catanesi dell’epoca, i cosiddetti cavalieri del lavoro.
Sono ancora i Santapaola-Ercolano al centro della mafia catanese?
La vera pericolosità criminale di un sodalizio mafioso non la si misura tanto dal suo potenziale militare, che pure costituisce una riserva strategica da utilizzare nei casi, peraltro ormai sempre meno frequenti, di contrasto con gli altri clan per la supremazia nel territorio, quanto dalla sua rete di collegamenti con i poteri forti all’interno delle istituzioni e della società civile, che creano una barriera protettiva che consente alla compagine criminale di diminuire l’incisività dell’azione di contrasto dello Stato e di sviluppare la propria vocazione ad appropriarsi delle risorse pubbliche distogliendole dalle finalità di pubblico interesse. Sotto questo profilo indubbiamente la famiglia catanese di Cosa nostra può ancora vantare una posizione di preminenza in quanto gestisce con gli appartenenti alla famiglia di sangue dei Santapaola ed Ercolano le relazioni più importanti.
Del resto la vocazione affaristica e la proiezione imprenditoriale, ovviamente attuata con i metodi mafiosi dell’intimidazione e della sopraffazione nei confronti della concorrenza esterna e dei diritti dei lavoratori, dei maggiori esponenti della famiglia Santapaola-Ercolano risale all’epoca della loro presa del potere a Catania e prosegue tuttora, sia pure attraverso il ricorso a più sofisticati sistemi di interposizione e di schemi societari attraverso i quali il flusso di denaro generato dai traffici illeciti passa attraverso canali finanziari che fanno capo a paradisi fiscali per poi tornare in Sicilia ripulito e immesso nel mondo degli affari.
Tuttavia dobbiamo evidenziare che – quantomeno a livello locale – il clan Cappello ha dimostrato negli ultimi anni una capacità di infiltrazione nei gangli della pubblica amministrazione, delle forze di polizia e di settori dell’imprenditoria di notevole spessore, né sono da sottovalutare le reti collusive di cui godono anche i clan Mazzei e Laudani.
Le relazioni tra i vari clan variano di volta in volta e possono essere a loro volta alleati o rivali di Cosa nostra catanese. Ed in particolare proprio i Laudani mantengono questa posizione che possiamo definire molto ambigua.
Secondo quanto emerge dalla lettura degli atti giudiziari e nelle relazioni semestrali della Dia vi sarebbe un interessamento diretto dei clan catanesi sia in Provincia di Messina che in quella di Enna, Siracusa o Ragusa. Possiamo parlare di “presenza diretta” in quei territori?
Per ciascuna delle province indicate va fatto un discorso diverso. Per quanto concerne la Provincia di Messina, i territori più vicini al confine con Catania sono stati tradizionalmente terreno per compiere attività illecite da parte delle cosche mafiose catanesi operanti nella fascia ionica, che pur non avendo un insediamento consolidato in questi comuni tuttavia godono di un ampio spazio di azione senza incontrare contrasti significativi in gruppi criminali autoctoni. Per quanto concerne la provincia di Enna, l’indebolimento delle famiglie di Cosa nostra locali per vicende interne ha lasciato uno spazio operativo ai tentativi di infiltrazione di alcuni sodalizi mafiosi catanesi, e in particolare del clan Cappello, soprattutto nei comuni più vicini al confine con Catania. Tali tentativi sono stati spesso coronati da successo, come attestano alcune operazioni investigative condotte dalla Dda di Caltanissetta nei confronti di esponenti di sodalizi mafiosi aventi base a Catania, e ciò soprattutto nel settore del traffico degli stupefacenti e delle estorsioni in danno di imprenditori.
Nella provincia di Siracusa, ed in particolare nella zona di Lentini, da tempo opera il clan Nardo organicamente collegato con la famiglia catanese di Cosa nostra. L’indebolimento di tale clan per l’arresto di molti dei suoi esponenti di vertice ha consentito ancora una volta ad esponenti di sodalizi mafiosi aventi base nel Catanese, dal clan Cappello ad esponenti della famiglia calatina di Cosa nostra, di erodere spazi operativi del clan Nardo per realizzare un’espansione in quei territori, al fine di acquisire il controllo diretto o mediante l’imposizione di un pizzo delle attività economiche locali e delle piazze di spaccio.
In alcuni comuni della provincia di Ragusa, infine, sono presenti da tempo gruppi criminali locali collegati con Cosa nostra o con la Stidda, che si relazionano in prevalenza con referenti aventi base nella provincia nissena, ed in particolare in Gela o Niscemi.
Traffico di stupefacenti, estorsioni, gestione degli appalti? In che direzione si sviluppano gli affari della cosiddetta mafia 2.0?
Il traffico degli stupefacenti costituisce indubbiamente la fonte di maggiori profitti per le organizzazioni mafiose. Cosa nostra, che da tempo ha perso il controllo degli approvvigionamenti dal Sud America e dal Medio Oriente a favore di altre mafie, ed in particolare della ‘Ndrangheta. Proprio l’assenza di un canale diretto con i fornitori ha portato Cosa nostra a stringere rapporti stretti con le ‘ndrine calabresi in grado di intermediare con certi canali. Tuttavia in tempi recenti è emerso che la mafia siciliana sta cercando di affrancarsi dalla mediazione con la ‘Ndrangheta nel tentativo di ristabilire contatti diretti con i produttori di quei Paesi, tentando di riguadagnare quella credibilità che aveva perso. Ma questo ancora non avviene nella misura sistematica che invece era presente negli anni Ottanta. Noi cerchiamo di prestare grande attenzione ai flussi e in questo momento in Paesi come la Colombia ed il Messico ci sono intermediari diretti che hanno la capacità di interagire con il mercato europeo bypassando l’intermediazione della criminalità organizzata calabrese. E questo emerge chiaramente in una serie di sequestri ingenti che abbiamo fatto. Inoltre, per quanto riguarda il traffico di stupefacenti, stiamo seguendo con attenzione lo sviluppo della rotta africana. In certi Stati la presenza in contemporanea di istituzioni deboli ed associazioni mafiose forti crea un mix che è micidiale. Ma non c’è solo questo. La mafia guarda anche ad altri canali di guadagno. Recenti indagini dimostrano come la gestione illecita dei giochi e delle scommesse on line da parte dei sodalizi mafiosi catanesi costituisca un’altra cospicua fonte di profitti che ha pure il vantaggio di presentare per le cosche mafiose rischi limitati a livello sanzionatorio. Così diceva un esponente mafioso della Sacra Corona Unita in una recente conversazione intercettata, oggi un affiliato che sa utilizzare le opportunità offerte dall’informatica è più utile agli interessi mafiosi di uno che sa premere il grilletto di un’arma. Lo smaltimento illecito dei rifiuti e la gestione delle discariche rappresenta un’altra occasione per lucrare ingenti profitti con rischi limitati. La gestione degli appalti pubblici attraverso imprese direttamente infiltrate o controllate indirettamente rappresenta indubbiamente un settore di attività nel quale le cosche mafiose non fanno registrare un sostanziale arredamento nonostante i numerosi controlli di legalità previsti da una legislazione che è all’avanguardia in Europa ma che purtroppo incontra sotto il profilo della sua pratica attuazione gli ostacoli di un tessuto amministrativo e sociale spesso affetto da inefficienza e corruzione, per non parlare dell’omertà che condiziona anche le persone non direttamente coinvolte nel malaffare.
Pippo Fava, sin dagli anni Ottanta, denunciava quei legami tra Nitto Santapaola e determinati personaggi appartenenti ad ambienti di potere quali erano, per usare le sue parole, i quattro “Cavalieri dell’Apocalisse Mafiosa” (Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo). Che tipo di relazione c’è oggi tra la mafia ed i “potentati imprenditoriali”?
Come dicevo prima, questa rete relazionale tra mafia e potentati imprenditoriali non è stata ancora recisa, nonostante alcune significative iniziative giudiziarie, ma è mutata la sua visibilità esterna. Quello che negli anni Ottanta avveniva a Catania alla luce del sole perché, pur essendo nota a tutti, la caratura criminale dei più autorevoli esponenti mafiosi non era stata accertata processualmente, sicché gli imprenditori collusi potevano spudoratamente fingere di non sapere, oggi viene gestito in modo assai più riservato ma non meno efficace. La recisione di tali legami costituisce una priorità assoluta dell’azione di questa Procura, consapevole che su questo fronte si combatte una battaglia decisiva per indebolire il potere mafioso e ridare spazio vitale all’imprenditoria sana, che rispetta le regole del gioco e che non può continuare a subire l’illecita concorrenza degli imprenditori collusi.
Qual è il rapporto mafia-politica?
Per quanto riguarda il rapporto della mafia con esponenti dei partiti politici vale quanto si è detto sinora. Va altresì evidenziato che, in mancanza di figure carismatiche nei partiti tradizionali, oggi i rapporti vengono cercati a livello individuale su base locale, cogliendo le opportunità offerte dalle varie competizioni elettorali e dalle occasioni di impiego delle risorse pubbliche per la fornitura di servizi e opere pubbliche. Anche le liste civiche talvolta costituiscono un espediente per mascherare la reale identità del soggetto promotore dell’intesa con sodalizi mafiosi. Ma ovviamente sarebbe sbagliato criminalizzare tutte le liste civiche solo perché in taluni casi esse sono strumentalizzate da soggetti collusi con la criminalità organizzata.
E il rapporto mafia-massoneria?
Per quanto riguarda la massoneria, sono storicamente documentati legami tra esponenti di vertice di Cosa nostra e logge massoniche, e ciò soprattutto nella Sicilia Occidentale. Nella nostra provincia non vi sono risultanze processuali definitivamente accertate di analoghi legami, se non a livello sporadico e occasionale e questo probabilmente anche per un diverso atteggiamento mentale del mafioso catanese. Ma ovviamente questo è un filone di indagine che non può essere trascurato perché sappiamo che la mafia tende ad utilizzare ogni occasione utile per stringere rapporti collusivi con i poteri occulti.
Ogni anno si stima che le mafie, messe insieme, “fatturino” circa 150 miliardi di euro l’anno. Con così tanto denaro si può condizionare un intero Paese arrivando anche a ricattare lo Stato?
E’ evidente che più sono ricche le mafie, più sono in grado di comprare, corrompere funzionari, amministratori, imprenditori ed affini. L’immissione nell’economia italiana, che soffre una crisi di liquidità, di così ingenti capitali è ovvio che arriva a condizionare il libero mercato.
In questo modo vengono tagliati fuori tutti quegli imprenditori onesti che non sono disposti a scendere a patti e compromessi. Così si droga il mercato e si truccano le regole del gioco anche in termini di sicurezza e di tutela dei lavoratori imbarbarendo il mondo economico. Così non solo si frena lo sviluppo di un Paese ma si creano anche problemi sul piano sociale. Io auspico che lo Stato abbia ben chiaro questi aspetti e che non si abbandoni una politica forte, capace di contrastare in maniera netta e decisa queste organizzazioni criminali. Solo con una lotta senza quartiere si possono recidere del tutto le mafie. Altrimenti questa lotta rischiamo di non vincerla.
Siamo in ritardo in questo senso?
Diciamo che ancora non abbiamo ottenuto questo risultato. Grazie alle varie attività giudiziarie siamo riusciti a colpire l’ala militare e continuamente cambiano i vertici delle organizzazioni criminali. Ma se ancora non abbiamo vinto è perché non può bastare l’attività giudiziaria ma serve una maggiore consapevolezza da parte di tutti della gravità del fenomeno. Ma di fronte ad una situazione di crisi che indebolisce il tessuto sociale sano, con la gente che deve pensare a sopravvivere, è difficile arrivare ad una tale comprensione. E le istituzioni devono dare una risposta importante in questo senso, senza scendere a compromessi con le organizzazioni criminali. Io voglio essere ottimista perché ritengo che siano in molti quelli che vogliono fare questa battaglia.
In che maniera l’informazione può incidere nel contrasto all’organizzazione criminale?
Gli organi di informazione svolgono un ruolo fondamentale nella corretta formazione dell’opinione pubblica e nel processo di sensibilizzazione verso quelle istanze di legalità e giustizia che portano al ripudio della cultura mafiosa da parte della società civile. A sua volta tale ripudio costituisce un presupposto essenziale per debellare definitivamente il fenomeno mafioso, atteso che l’azione giudiziaria e delle forze di polizia possono vincere le singole battaglie contro gli esponenti mafiosi di volta in volta in auge ma non potranno mai da sole eradicare un fenomeno che permea in modo così profondo il tessuto sociale. Per assolvere ad un compito così importante evidentemente i mass media non possono limitarsi a registrare gli esiti delle varie iniziative giudiziarie ma debbono farsi a loro volta promotori di iniziative che facciano comprendere come il contrasto al fenomeno mafioso riguardi attivamente tutti i cittadini perché incide sulla qualità della loro vita e sulle possibilità di sviluppo economico e sociale.
In questo momento è in corso il processo per concorso esterno in associazione mafiosa contro l’editore de “La Sicilia” Mario Sanfilippo Ciancio e nei confronti di quest’ultimo lo scorso settembre è stato emesso dal Tribunale un decreto di sequestro e confisca di beni pari a circa 150 milioni di euro. Può essere questa vicenda esempio di quei legami altri che la mafia era ed è ancora oggi in grado di tessere?
Proprio perché vi è un processo in corso non mi sembra opportuno soffermarmi ulteriormente su tale tema dopo aver fornito in conferenza stampa le informazioni che mi sono sembrate doverose circa le motivazioni adottate da un autorevole organo giudicante, il Tribunale di Catania-sezione misure di prevenzione, per disporre la confisca dei beni dell’imprenditore Ciancio Sanfilippo sulla base della sua ritenuta pericolosità sociale.
In questi anni si è parlato tanto della riforma delle intercettazioni, per fortuna bloccata. Nelle indagini, però, è ancora forte il rilievo assunto dai collaboratori di giustizia. Quanto sono importanti questi strumenti?
Ancora oggi il contributo dei collaboratori di giustizia rappresenta, unitamente ai servizi tecnici di intercettazione nelle forme più sofisticate, la maggiore fonte probatoria in ogni processo che voglia raggiungere quanto meno i livelli medio alti della criminalità mafiosa. Per questo la magistratura più consapevole è sempre molto attenta alle iniziative di riforma che da varie parti del mondo politico vengono prospettate su questi temi. Errori in questi due settori non possono essere commessi senza pregiudicare in modo rilevante l’efficacia del contrasto giudiziario e, quindi, i progetti di riforma, pur necessari, debbono tener conto di tutti gli effetti che ne possono derivare sia in positivo che in negativo prima di essere varati. Un altro rilevante problema è poi costituito dalla gestione amministrativa dei collaboratori di giustizia e sotto questo profilo è auspicabile che l’incarico venga affidato a persone che abbiano una vocazione ad operare in un settore così delicato e che non lo considerino un aspetto secondario e poco gradito della propria attività.
Come valuta il nuovo 416 ter, dove è stato eliminato il riferimento alla “modalità mafiosa” della promessa di voto?
Mi sembra significativo il fatto che l’attuale formulazione del reato di cui all’art.416 ter c.p. abbia trovato scarsa applicazione nelle pronunce dei Tribunali rivelandosi uno strumento poco efficace per contrastare un fenomeno, quello dello scambio elettorale politico mafioso, che è piuttosto diffuso alle nostre latitudini e i cui effetti perversi sono devastanti per una democrazia che si basa sulla corretta formazione del consenso popolare. La necessità di una riforma è pertanto avvertita. Ciò premesso, la sostituzione del requisito della modalità del metodo mafioso per il procacciamento dei voti con quello dell’appartenenza di chi promette voti all’associazione mafiosa non sembra opportuna perché presuppone il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, che può essere anche molto differita nel tempo rispetto al momento della competizione elettorale. La proposta della Commissione del Senato di prevedere che la partecipazione all’associazione mafiosa debba essere nota al destinatario della promessa anche se non risultante da sentenza definitiva potrebbe ridurre gli inconvenienti in questione.
Parlando di “misteri” che hanno avvolto Cosa nostra catanese, l’omicidio della moglie di Santapaola, Carmela “Melina” Minniti; un’uccisione quantomeno anomala. C’è chi l’ha collegata ad un avvertimento allo stesso Santapaola che avrebbe potuto collaborare con la giustizia, tanto che ci fu anche un contatto con una potente personalità religiosa etnea. Sono solo ipotesi o quella collaborazione era qualcosa di concreto?
Il dato oggettivo è che la moglie di Santapaola si era messa in contatto con la diocesi catanese non per trattare la collaborazione di Santapaola ma per ottenere un trattamento più mite nell’ambito di quello che doveva essere il contrasto giudiziario nei confronti dei figli. La sua preoccupazione era quella di tenere i figli lontani dalle iniziative giudiziarie benché i loro figli non siano mai stati lontani dal coinvolgimento nell’organizzazione mafiosa. Ovvio che non possiamo escludere che nel corso di un’evoluzione di rapporti si potesse anche arrivare ad ulteriori livelli di dialogo con la famiglia Santapaola ma stiamo parlando di ipotesi che non si potranno mai verificare dal momento che è stato commesso l’omicidio. Si “favoleggia” che Giuseppe Ferone (l’esecutore dell’omicidio), avrebbe potuto godere di appoggi di tipo diverso per uccidere la moglie di Santapaola anche se le indagini giudiziarie non hanno mai portato a far emergere questo tipo di collusione, anche se il Santapaola è fermamente convinto che questo sia avvenuto.
Possibile che in autonomia un collaboratore di giustizia, improvvisamente, getti alle ortiche il contratto da lui stipulato con le istituzioni?
Noi possiamo raccogliere il dato che quel delitto è stato favorito dall’elusione della vigilanza che di norma viene mantenuta su un collaboratore di giustizia. Sul punto ci sono molte falle e non ci sono stati controlli stringenti quando è stato rimesso in libertà. Santapaola non ci ha mai spiegato perché ha questo sospetto di un appoggio esterno al Ferone. A livello di indagini questi elementi non sono mai emersi.
Perché il Santapaola viene di fatto “consegnato” alla giustizia?
Perché e quali siano le motivazioni interne non possiamo saperlo ma possiamo dire che non è la prima volta che, nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, specie quella catanese così attenta a non destare troppa attenzione agli inquirenti sui propri affari, si consegna un soggetto che si ritiene compromesso in quanto già oggetto di ricerche intense dell’autorità giudiziaria. Tuttavia non si può escludere che questo tipo di “consegna” non sia dispiaciuta allo stesso Santapaola, proprio per ottenere in cambio quel rallentamento delle iniziative giudiziarie nei confronti dei figli. Ma queste cose attengono alle motivazioni interne e non ci sono rapporti di collaborazione che hanno potuto chiarire cosa è accaduto. Noi sicuramente non abbiamo attenuato le nostre indagini nei confronti del figlio maggiore di Santapaola che risulta pesantemente coinvolto in vicende importanti della famiglia.
Un altro mistero riguarda la morte del confidente Luigi Ilardo, ammazzato la sera del 10 maggio 1996 in via Quintino Sella a Catania. Nel suo percorso, sotto il nome di “fonte Oriente” aveva fatto arrestare boss di prima grandezza nelle province di Messina, Catania e Caltanissetta; senza contare che grazie alle sue rivelazioni si sarebbe potuti arrivare con undici anni di anticipo alla cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, il 31 ottobre 1995. Quell’omicidio c’entra in qualche maniera con la trattativa Stato-mafia?
Benché la procura di Catania sia riuscita ad ottenere una sentenza di condanna nei confronti degli esecutori e degli organizzatori di tale omicidio, restano ancora ignoti, per mancanza di elementi probatori idonei a sostenere l’accusa in giudizio, i nomi dei mandanti di più alto livello sui quali questa Procura è competente a svolgere le indagini. L’accertamento delle responsabilità per la mancata cattura di Provenzano nel 1995 e il processo nei confronti di quegli esponenti delle istituzioni che in concorso con i vertici di Cosa nostra avrebbero cercato di condizionare l’operato della pubblica Autorità per limitare l’efficacia del contrasto a Cosa nostra prospettando la minaccia della prosecuzione della strategia stragista, sono invece di competenza di una diversa autorità giudiziaria di cui conosciamo le sentenze, definitiva nel primo caso e di primo grado nel secondo, laddove non si esclude la possibilità che i vertici dell’epoca del Ros non abbiano puntato con decisione sull’occasione loro offerta dallo Ilardo di far catturare il Provenzano nell’ottobre del 1995 perché ritenevano che quest’ultimo potesse validamente contrapporsi all’interno di Cosa nostra a coloro che ancora sostenevano la linea del Riina, già da più di due anni detenuto, dallo scontro frontale con lo Stato sino al suo cedimento alle pretese mafiose.
Ancora ad oggi resta senza risposta una domanda: come avevano fatto i boss a sapere che era diventato “un informatore”? Il processo non è riuscito a far luce sul punto. Ma il pentito Giuffrè nel 2014 parlò di una fuga da ambienti giudiziari nisseni, ed anche il colonnello Michele Riccio aveva parlato di una fuga di notizie. E’ quella la direzione che può esserci dietro l’omicidio?
La conoscenza della scelta di collaborazione dell’Ilardo era limitata ad una cerchia ristretta di magistrati e di appartenenti alle Forze di polizia, tra i quali i vertici del Ros condannati in primo grado con la sentenza da ultimo indicata. Questi sono dati oggettivi. Le ipotesi investigative devono invece essere verificate nella sede giudiziaria.
Nel libro “Il Patto Sporco” (edito da Chiarelettere), scritto dal sostituto Procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo e dal giornalista Saverio Lodato, vi è una sintesi delle motivazioni della sentenza del processo Trattativa “Stato-mafia”. Il processo di Palermo ha stabilito anche che la strage Borsellino, avvenuta appena 57 giorni dopo quella di Capaci, è stata caratterizzata da una forte accelerazione e si conferma anche che la morte del giudice rientrasse anche nella trattativa. Nel corso della sua carriera lei è stato giudice del processo Borsellino ter, che idea si è fatto di questa strage?
Il libro, onestamente, non l’ho letto, ma diversamente ho visionato con attenzione la motivazione della sentenza di Palermo. In passato ho presieduto quale presidente titolare la Corte di Assise di Caltanissetta che ha emesso la sentenza del cosiddetto processo Borsellino ter che non è stata toccata dalle sentenze di revisione conseguenti alla accertata falsità delle dichiarazioni dello Scarantino che nel processo Borsellino ter era stato da noi ritenuto assolutamente inattendibile. Su una delle finalità perseguite dalla strage di via d’Amelio, la sentenza che ho scritto assieme al giudice a latere Francesco Antoni, così si esprime: “risulta quantomeno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva bensì anche per esercitare – cumulando i suoi effetti con quelli degli altri delitti eccellenti – una forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica” (cfr. pagg. 766 – 767). Tali conclusioni mi sembrano oggi ancor più valide che in passato. Più di questo non posso aggiungere perché il processo è ancora in corso.
La recente sentenza del Borsellino quater parla delle indagini compiute dopo la strage, tracciando i contorni di quello che è stato descritto come il più grave “depistaggio della storia”. Addirittura si è arrivati alla revisione di due processi nei confronti di alcuni imputati e si è aperto un processo contro alcuni funzionari di polizia. C’è chi sostiene che dopo 26 anni siamo tornati al punto zero, come se nulla fosse stato fatto. E’ veramente così?
Nulla di più falso e di più ingeneroso potrebbe esservi se si ritenesse che gli sforzi di numerosi investigatori e magistrati profusi per accertare le responsabilità degli esponenti di vertice di Cosa nostra nell’ideazione, progettazione ed esecuzione delle strage di Via d’Amelio siano stati vani. Ribadisco che la sentenza di condanna emessa nel processo Borsellino ter e una parte di quelle pronunciate nei primi due processi non sono state scalfite dalla vicenda Scarantino e costituiscono verità processualmente accertata. Sulla base dell’esperienza direttamente maturata nella conduzione del processo di primo grado Borsellino ter e della lettura della sentenza del Borsellino quater, la mia convinzione è che la “costruzione” della falsa collaborazione dello Scarantino non possa ritenersi il più grave “depistaggio della storia” perché il coinvolgimento nell’esecuzione della strage di soggetti inseriti in Cosa nostra con ruoli secondari e poi risultati estranei alla strage sulla base delle dichiarazioni di altri autentici collaboratori non è avvenuto per occultare le responsabilità di altri e più importanti criminali, esecutori e mandanti della strage, bensì per coprire le lacune cognitive di chi ha messo in bocca allo Scarantino, creando questo falso collaboratore, anche il nucleo di verità di cui era venuto in possesso per altra via. Proprio questi elementi di verità hanno “depistato”, o meglio “fuorviato”, i magistrati chiamati poi a valutare la complessiva attendibilità dello Scarantino.
Quindi perché si sceglie di “vestire il pupo” Scarantino?
Allo stato attuale delle conoscenze può affermarsi che l’episodio della falsa collaborazione dello Scarantino sia espressione di gravi scorrettezze poste in essere da taluni investigatori per ottenere con mezzi illeciti dei risultati immediati nell’individuazione di alcuni dei responsabili della strage, anziché ricorrere a strumenti investigativi ortodossi ma più impegnativi per accertare le responsabilità. Si cercava una scorciatoia che di certo non ha aiutato l’accertamento della verità. Si sarebbero dovute far indagini più approfondite dall’inizio. I risultati, forse, sarebbero arrivati successivamente ma magari si sarebbero scoperte delle verità che ancora oggi non conosciamo e che il passare del tempo rende ancora più difficili trovare.
Un altro elemento che emerge dalla sentenza del Borsellino quater è che qualcuno era in possesso di determinate conoscenze che sono state poi riversate a determinati investigatori che, a loro volta, le hanno messe in bocca a Scarantino. E sono d’accordo sul punto in cui si dice che quest’ultimo è stato costretto a rendere quel tipo di dichiarazioni.
Nelle motivazioni della sua sentenza per la prima volta si parla chiaramente dei cosiddetti mandanti esterni di cosa nostra, di fatto offrendo spunti investigativi che poi sono stati sviluppati sia a Caltanissetta che a Palermo. Oggi Spatuzza rivela che il giorno dell’imbottitura della macchina con l’esplosivo era presente un soggetto che non “era di Cosa nostra” facendo capire chiaramente che questi appartenesse allo Stato, pur non indicandone il volto. Ciò significherebbe non solo che a suggerire l’attentato potrebbero essere stati altri ma addirittura avrebbero partecipato in maniera diretta.
Come ho detto, delle indagini in corso non è opportuno parlare prima che siano giunte a conclusione. Tuttavia resta il dato che quando si parla di Spatuzza, si parla di un collaboratore di giustizia la cui attendibilità è stata riconosciuta in più sedi.
Ma i servizi erano presenti in via d’Amelio nel giorno della strage…
In via d’Amelio erano presenti tante persone, c’erano anche figure appartenenti al Ros. E su queste cose si dovrebbe un attimo riflettere perché gli interrogativi sono molteplici. Ad esempio perché alcuni appartenenti del Ros sostennero che in via d’Amelio fosse presente Bruno Contrada quando invece non era vero? Perché venne tirato in ballo quel nome?
Durante il processo Borsellino ter, alcuni collaboratori di giustizia interrogati dal pm Di Matteo, per la prima volta, hanno parlato di figure eccellenti che sarebbero stati protagonisti di un dialogo con Cosa nostra negli anni delle stragi. Giovanni Brusca, in questo processo e durante quello di Firenze parla della trattativa e arriva a fare anche il nome dell’ex ministro Mancino come terminale. Sempre nel Borsellino ter da Totò Cancemi vengono fatti per la prima volta i nomi di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi. Se su quest’ultimo le inchieste sono state archiviate, anni dopo su Dell’Utri abbiamo una sentenza definitiva per concorso esterno ed una sentenza di primo grado al processo trattativa Stato-mafia. Lei cosa ne pensa? C’è un legame tra il processo Stato-mafia e quello sulla strage di via d’Amelio?
Ribadisco quanto detto sopra citando alcuni passi della sentenza del cosiddetto Borsellino ter. Le sentenze di primo grado del Borsellino quater e del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia devono ancora essere vagliate in altri due gradi di giudizio e comunque aprono degli ulteriori fronti di indagine sui quali è importante che intervengano inchieste giudiziarie ma anche della Commissione parlamentare antimafia per non lasciare inesplorato nessun profilo di responsabilità anche di carattere diverso da quello penale. E’ opportuno che anche dal fronte politico si cerchi di dare risposte ad interrogativi che ancora oggi attendono una risposta.
Quando il processo trattativa era ancora in corso, dopo tanti anni di “silenzi”, Cosa nostra, tramite il capo dei capi Totò Riina, ha condannato a morte un magistrato, l’oggi sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo. Pentiti hanno raccontato di un progetto di attentato nei suoi confronti con l’arrivo di duecento chili di tritolo a Palermo e con tanto di richiesta da parte di Matteo Messina Denaro, di compiere l’attentato anche per conto di altri soggetti. I magistrati nisseni che hanno archiviato l’indagine parlano di un “progetto ancora in corso”. Secondo lei perché Cosa nostra arriva a tanto? C’è il rischio di un ritorno alle stragi?
Che il Riina avesse nel mirino un magistrato della competenza e del valore professionale di Nino Di Matteo, che ho potuto personalmente apprezzare per la sua elevata competenza e la determinazione, essendo stato uno dei due Pm che ha sostenuto l’accusa del processo Borsellino ter, non può meravigliare. Il fatto è che una sentenza di condanna di questo genere non viene mai revocata. Si tratta di vedere se restano o meno sospese. I segnali che abbiamo in questo momento rappresentano che l’attuale gestione di Cosa nostra non ritiene più producente la strategia dell’attacco frontale allo Stato, ma è invece importante che lo Stato non rinunci a perseguire con la massima determinazione il contrasto a Cosa nostra perché solo così si potranno ottenere dei risultati veramente duraturi. D’altronde la storia ci insegna che i soggetti delle Istituzioni che costituiscono dei potenziali obiettivi di Cosa nostra non si possono tutelare solo con la difesa passiva, che pure è necessaria, ma solo con una strategia di attacco volta a disarticolare tutte le potenzialità offensive del sodalizio mafioso. Se si sarà in grado di fare questo possiamo dire che i magistrati non correranno i rischi. Finché questi magistrati non avranno ottenuto dallo Stato che si faccia una lotta senza quartiere vi saranno sempre dei rischi perché ci sarà sempre, nel corso del tempo, poi uno che riprenderà la strategia di Riina.
Quando un personaggio come Di Matteo viene inserito nell’elenco dei magistrati che possono aver compiuto il depistaggio può esservi un rischio di delegittimazione rispetto le sue inchieste?
Personalmente credo che non bisogna confondere chi muove le accuse. Vi sono persone che muovono certe accuse in buona fede perché, avendo visto determinati risultati dicono che Di Matteo può aver commesso questo tipo di errori. Qui, a mio avviso, l’errore è palese ed è evidente anche la buona fede. Vi sono altri che, invece, possono avere interesse, perché vedono in Di Matteo un pericolo, nello strumentalizzare accuse formalizzate in buona fede per un altro fine che è quello di delegittimare il magistrato. Un magistrato che può commettere sicuramente degli errori. Ma non credo che a Di Matteo si possano rimproverare errori importanti in questa vicenda.
Di recente in Sicilia si è tornati a respirare un clima pericoloso con intimidazioni e minacce anche ad alti vertici istituzionali. Che tipo di analisi si può fare rispetto alle recenti missive contro il Procuratore di Caltanissetta, Bertone, il presidente della commissione regionale antimafia Claudio Fava e il capo della Mobile di Caltanissetta, Marzia Giustolisi?
Non parlo mai di indagini ancora in corso e questo vale a maggior ragione per quelle riguardanti gli episodi da lei citati. Ciò che posso dire con certezza, perché costituisce un dato oggettivo, è che i tre personaggi da lei citati, pur operando in settori diversi e con responsabilità istituzionali diverse, hanno in comune la profonda conoscenza del fenomeno mafioso e l’assoluta determinazione e competenza per contrastarlo in modo efficace.
In precedenza ha parlato della rotta africana come canale d’ingresso per la droga. Sono le medesime rotte del traffico di esseri umani? Che relazione c’è tra le mafie africane e quelle nostrane?
Purtroppo le istituzioni dei Paesi esteri non sono attrezzate per contrastare il fenomeno delle organizzazioni criminali. Non parlo solo della mafia nigeriana ma anche di altre strutture che sono sempre più forti e che portano avanti una serie di attività illecite come il traffico di esseri umani, di droga, di armi. Organizzazioni che stanno aprendo praterie all’accesso della droga dal Paese Sudamericano all’Europa. Questi gruppi hanno una prima base in Africa ma, poiché in quei luoghi i flussi di denaro sono piuttosto limitati, vi sono delle proiezioni in Europa ed anche in Italia. Su questo vi sono delle indagini in corso.
Certo è che questo fenomeno è preoccupante perché queste strutture criminali nei Paesi di origine impediscono il rafforzamento di regimi di Stato ufficiali, per poi estendersi.
E’ in questo ambito che in passato aveva espresso quelle considerazioni forti sulle Ong che avrebbero favorito i trafficanti di uomini?
Questa Procura ha sempre voluto precisare che l’obiettivo prioritario e primario, rispetto il traffico di esseri umani, è quello di cercare di recidere i legami tra la mafia locale ed i poteri forti. In questo senso mi preoccupa la proiezione che certe criminalità organizzate stanno avendo anche nel nostro territorio. Alcune Ong, in un determinato momento storico, hanno favorito l’operato di queste organizzazioni criminali. Ci si è occupato di evitare che si prestassero al gioco dell’incremento indiscriminato dei flussi migratori.
Permettere l’ingresso della Polizia giudiziaria a bordo delle navi sarebbe una forma di contrasto sufficiente?
Sicuramente porterebbe ad un miglioramento per il controllo di determinate situazioni. Ma il problema è un altro perché si è interrotto un determinato canale di traffico ma non è che si è fermato il fenomeno. Le organizzazioni criminali sfruttano le effettive esigenze di chi cerca di arrivare in Europa e finché non ci sarà una radicale soluzione sui flussi migratori assisteremo a continue modifiche nelle modalità del traffico di esseri umani. Un tempo c’erano le navi madri, poi i battelli, quindi i gommoni. Questo traffico non sarà debellato finché i Paesi Europei non si assumeranno la responsabilità di intervenire in maniera comune per rispondere alla domanda continua di tanta povera gente.
Le mafie italiane in questo traffico recitano un ruolo?
Allo stato non sono emersi collegamenti di questo genere. Nel passato hanno messo a disposizione dei battelli per prendere i migranti dalle navi madri ma le mafie autoctone non sono mai state direttamente coinvolte, per quel che a noi risulta. Cosa diversa è il tipo di rapporto che poi si genera con le organizzazioni criminali straniere che si radicano in Italia. C’è un contatto che si genera tra le varie organizzazioni mafiose che è preoccupante perché si creano sinergie sempre più pericolose.
18 Dicembre 2018