Giorgio Pagano
Il 28 ottobre 1922 fu la spallata finale di un “golpe” strisciante dispiegato per mesi in una lunga e continua azione violenta e sopraffattrice. Forte di coperture dei massimi apparati militari e amministrativi dello Stato liberale, e via via accettata da una cultura autoritaria sempre più condivisa. A dimostrarlo nuove ricerche
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La marcia su Roma non fu un “bluff”, un evento folcloristico da minimizzare in sede storiografica e politica, ma un colpo di Stato che determinò il vero inizio della dittatura fascista. Come ha scritto lo storico Agostino Giovagnoli, “nessuna data come il 28 ottobre 1922 […] merita la definizione di ‘giorno della vergogna’” [1].
L’8 settembre 1943 fu certamente un giorno triste per l’Italia, ma il fallimento della classe dirigente che lo segnò veniva da lontano, dal 28 ottobre 1922 e dalla successiva dittatura, che portò il Paese alla guerra e alla sconfitta. Il colpo di Stato non fu un fulmine a ciel sereno, ma un “golpe” strisciante, dispiegato per molti mesi in una lunga e continua azione violenta e sopraffattrice, via via accettata da una cultura autoritaria sempre più condivisa. Le premesse furono già poste nell’immediato dopoguerra, quando negli ambienti nazionalisti e militari si iniziò a ipotizzare progetti di colpo di Stato per rovesciare il sistema parlamentare e impedire l’avanzata del movimento operaio.
Anche in questa ricerca – come nella precedente “Con gli Arditi del popolo dove il 1922 non piegò l’antifascismo” pubblicata su “Patria Indipendente” (link) – ho utilizzato il “prisma” della provincia della Spezia, cioè di una “microstoria” locale, perché attraverso di esso è possibile comprendere la “grande storia” nazionale.
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Le spinte per la dittatura erano presenti già da tempo
La storia della Spezia è davvero emblematica: “una larvata dittatura militare fu anticipata proprio in questa città, piazzaforte militare, già durante la Grande Guerra” [2], quando il Consiglio comunale fu sciolto per tre anni e il comandante in capo della Marina ebbe tutti i poteri. La regia fu di quelle “stesse forze, legate a gran parte della borghesia industriale e commerciale e della Marina, che sostennero poi la nascita del fascismo” [3]: un’alleanza tra l’industria legata alle produzioni belliche e le gerarchie militari che costituisce l’elemento di fondo per capire le vicende successive.
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L’unione dei reazionari si realizzò attorno al quotidiano “Il Tirreno”, il cui primo numero uscì il 10 novembre 1919. Il giornale, in un editoriale del 13 aprile 1920, invocò apertamente la dittatura militare: “Ed ecco lanciata la grande parola. Un generale! È la dittatura militare. […] A mali estremi, rimedi estremi. Oggi ogni dottrina, ogni ragione di parte cessa davanti alla necessità della salvezza comune” [4]. Il 13 maggio 1920 si ricostituì il Fascio, i cui massimi dirigenti erano esponenti della borghesia, della Marina, dell’Esercito. Il connubio era sempre più evidente.
Da allora fu un crescendo continuo della violenza squadrista: uccisioni, aggressioni, assalti e distruzioni di sedi politiche, sindacali, istituzionali. Ha ragione Giovagnoli: “Si stenta a credere che tutto ciò non abbia provocato normali interventi di ordine pubblico o reazioni straordinarie da parte dello Stato e che abbia potuto contare sulla passività o sulla complicità di grandissima parte della classe dirigente. In nessun altro periodo della storia italiana è avvenuto qualcosa di simile” [5].
La scelta di Mussolini di organizzare la marcia fu figlia anche della constatazione che più la furia squadrista avanzava più lo Stato –prefetti, questori, magistrati – arretrava.
1921. Avanza lo squadrismo, arretra lo Stato. L’eccezione di Sarzana
Una rassegna dei fatti più gravi avvenuti alla Spezia è ancora una volta emblematica.
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Consideriamo intanto i primi mesi del 1921: il 27 febbraio i fascisti assaltarono la Camera del Lavoro, le guardie regie intervennero a loro favore e il giorno dopo, in occasione dello sciopero generale, uccisero l’anarchico Adolfo Olivieri; il 27 marzo i carabinieri uccisero l’anarchico Dante Carnesecchi; l’11 maggio fu devastata la sezione comunista di San Terenzo (Lerici) a opera, secondo il giornale comunista “Bandiera Rossa”, dei carabinieri [6]; l’11 e il 12 maggio furono assaltate dai fascisti prima la Camera del Lavoro sindacalista (facente capo all’USI, Unione Sindacale Italiana), poi la Camera del Lavoro confederale: in entrambi i casi la forza pubblica lasciò fare; il 16 maggio un corteo di giovani comunisti e socialisti, formatosi spontaneamente dopo il risultato delle elezioni politiche del 15 maggio, fu vittima di una provocazione fascista, in seguito alla quale i carabinieri uccisero cinque giovani (i “fatti di via Torino”) [7].
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Un fatto nuovo, in controtendenza a questo andazzo ma rimasto isolato, si verificò a Sarzana il 21 luglio 1921, quando i fascisti toscani mossero alla “conquista” della città. Le autorità di Massa, nella notte tra il 20 e il 21 luglio, non fermarono la spedizione. Lo fecero invece, alla stazione di Sarzana, i carabinieri al comando del capitano Guido Jurgens, e poi i contadini e gli operai uniti nel Comitato di difesa proletaria.
I “fatti di Sarzana” dimostrano che il fascismo non era una forza inarrestabile. Non solo perché senza l’appoggio delle strutture dello Stato lo squadrismo non avrebbe potuto affermarsi, ma anche perché la strada dell’unità antifascista avrebbe potuto rappresentare una difesa efficace dalla violenza fascista.
Il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi inviò a Sarzana l’ispettore generale Vincenzo Trani, che nel suo rapporto finale del 4 agosto 1921 scrisse che nei fasci “si pratica la teoria che chiunque non sia con loro forma forza nemica, da doversi combattere e senza badare ai mezzi, che dalla persecuzione giungono alla soppressione violenta” [8].
Fu una previsione storica esatta: il fascismo è squadrismo, la violenza gli è connaturata. Trani aveva ragione anche su un altro punto: lo Stato liberale generalmente si schierava con i fascisti. Lo fece anche rimuovendo lo stesso Trani, come egli stesso aveva capito sempre nel rapporto del 4 agosto: “Quando il Prefetto di Massa mi annunziò che il Ministero aveva deciso di inviare il Viceprefetto di Genova nella zona turbata, e da me da dodici giorni ridotta al rispetto dell’ordine, per farvi opera di pacificazione, non potei fare a meno di riconoscere nel cambiamento del Ministero un cambiamento di direttive pro-movimento fascista” [9].
La sostituzione di Trani fu la fine di ogni illusione. La costituzione, il 9 novembre 1921, del Partito Nazionale Fascista, un partito organizzato sulla base di squadre armate, fece definitivamente fallire il tentativo del “patto di pacificazione” tra fascisti e socialisti, che era stato siglato il 3 agosto 1921. Poco dopo, nel dicembre, Jurgens fu costretto ad abbandonare La Spezia.
Lo stesso Umberto Banchelli, squadrista di Firenze, il capo di stato maggiore della spedizione giunta a Sarzana, riconobbe, nelle sue “Memorie di un fascista” del 1922, che “il fascismo non ha potuto svilupparsi che grazie all’appoggio degli ufficiali, dei carabinieri e dell’esercito: i dieci fucili hanno messo in fuga cinquecento fascisti non solo perché hanno sparato, ma perché, sparando, hanno messo una volta tanto fuorilegge gli squadristi, sbalorditi di trovarsi bruscamente dall’altra parte della barricata” [10]. A caldo, nel rapporto scritto dopo la spedizione, Banchelli aveva commentato: “le squadre, troppo abituate a vincere innanzi a un nemico che quasi sempre fuggiva o debolmente reagiva, non hanno potuto né saputo far fronte” [11].
1922. Prosegue la capitolazione dello Stato
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Veniamo ai fatti essenziali del 1922. Nella citata ricerca su “Patria Indipendente” ho scritto di un altro episodio di arditismo, i “fatti della Serra” di Lerici, nel febbraio: le forze dell’ordine si guardarono bene dall’intervenire per bloccare la spedizione fascista, si limitarono a farle mutare il percorso. E ho accennato all’uccisione alla Spezia, nei giorni successivi, del fascista Francesco Podestà – un episodio oscuro, per il quale furono arrestati e condannati, senza la minima prova, numerosi noti “sovversivi”.
La capitolazione dello Stato proseguì senza sosta. Al fallimento dello sciopero legalitario di agosto [12] seguirono numerosi arresti dei dirigenti sindacali e, per qualche giorno, la sostituzione delle autorità civili con quelle militari. Poi, a Ferragosto, l’occupazione fascista del Comune di Santo Stefano Magra, le dimissioni forzate dei Consiglieri comunali e la consegna del Comune ai carabinieri, e, a settembre, l’arresto dell’anarchico Pasquale Binazzi e la chiusura del giornale “Il Libertario”. La violenza era antioperaia e anti-istituzionale, e colpiva la libertà di stampa.
La capitolazione ebbe il suo epilogo con la marcia su Roma. Il governo Facta scrisse inutili circolari a prefetti e questori perché difendessero la libertà. Ma fu una sorta di disarmo unilaterale. Il ministro della Giustizia Giulio Alessio, un liberale antifascista integerrimo, quando predispose un decreto legge per contrastare lo squadrismo e consentire l’arresto per i capi di bande militari private, si trovò isolato nel governo, che bocciò il provvedimento. Nella classe dirigente liberale prevalse la tesi di Giovanni Giolitti: “Non si può dimenticare che il fascismo esiste”. Ma in questo modo la lotta politica non era più su un piano di parità, perché si legittimava il fascismo che esisteva come partito armato violento, a differenza di ogni altro: le regole base dello Stato liberale venivano palesemente negate.
Il memoriale Tur. La marcia su Roma tra “insurrezione” e “legalità”
Nella ricerca su “Patria Indipendente” ho raccontato la “montatura” dell’ammiraglio Vittorio Tur, alto ufficiale di Marina, che operò perché la responsabilità dell’unico scontro dei fascisti con i militari, il 18 ottobre 1922 a San Terenzo (Lerici), fosse addebitata ai comunisti.
(foto) L’ammiraglio Vittorio Tur durante l’occupazione di Cefalonia, il 4 maggio 1941
Dopo molte ricerche, ho finalmente rintracciato il memoriale di Tur, “Benemerenze fasciste”, allegato a una lettera del 1939 a un gerarca spezzino. Tur scriveva di sé in terza persona: “Legato a tutti i fascisti della Spezia li rifornì di coltelli, di rivoltelle e di munizioni. Ciò attestano i documenti. Nella lista degli Ufficiali, sottufficiali, marinai che presero parte attiva alla vigilia del movimento fascista alla Marcia su Roma ’19 ’20- ’21-’22 (lista in consegna al Fascio di La Spezia) e a lui inviata in omaggio dal Comandante delle squadre d’azione segrete e del Direttorio del Fascio di Spezia, risulta: ‘Comandante Vittorio Tur, fascista fervente, propagandista tra i marinai, si è trovato con noi squadristi a varie azioni fasciste in Spezia. Largheggiava in permessi per i suoi marinai perché prendessero parte e dessero man forte agli squadristi fascisti contro i sovversivi. Alla testa dei suoi marinai per le vie della città cantava inni fascisti, così nelle passeggiate militari ed istruzioni. È stato presente in azioni pericolose ed ha preso parte con noi al movimento della Marcia su Roma. Ha rifornito di armi e munizioni e mezzi le nostre squadre’.
Nella dedica: ‘A Vittorio Tur che con audacia seppe con noi squadristi di Spezia, con fede fascista sino dalla vigilia, guidare, spingere, convincere Ufficiali Sottufficiali e marinai alla Rivoluzione fascista… Squadrista fervente e prezioso consigliere’” [13].
Tur così continuava, tratteggiando un esempio perfetto di ciò che accadde esattamente secondo i desideri di Mussolini: una insurrezione sostanzialmente legalitaria, una vittoria politica – e financo parlamentare –sostanzialmente eversiva: “Quando il movimento fascista entrò nella fase definitiva la situazione si fece grave. I fascisti avevano occupato Poste e Telegrafi e altri Uffici pubblici. Alla ingiunzione del Comandante in Capo ed alle esortazioni del generale Coralli, nella riunione tenuta alla Croce di Malta, perché lasciassero le zone occupate, essi risposero decisamente ‘no’ e che i soldati avrebbero dovuto passare sul loro cadavere per prenderle. La situazione era realmente seria, tanto più seria in quanto essi volevano costituire pattuglie di ronda diurne e notturne con piena possibilità di agire contro chi essi ritenessero propagandista rosso. Dato l’ascendente del Comandante Tur sui fascisti e la stima che aveva per lui il Comandante in Capo, egli poté risolvere la questione ottenendo una combinazione di servizio misto di marinai e fascisti negli Uffici pubblici e altrettanto nelle pattuglie […]. Una sera l’ing. Civelli e l’ing. Miozzi dissero al Comandante Tur di andare subito con loro in macchina a Milano per informare esattamente Benito Mussolini sullo stato della Marina nei riguardi del fascismo e del movimento in atto. Ma il Comandante Tur, dato il momento, non poteva assolutamente lasciar La Spezia. Un nulla avrebbe potuto infatti far scoppiare la guerra civile. Egli consigliò però di riferire al Capo che se il Movimento era fatto salvaguardando la Monarchia, la Marina sarebbe stata certamente con Lui e fornì loro altre importanti notizie” [14].
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Tur, dopo aver raccontato l’episodio della “montatura”, concludeva: “Il giorno dopo il Comandante Tur riusciva a far organizzare una imponente dimostrazione che si recava all’Arsenale ad inneggiare alla Marina. La musica della Marina, in precedenza preparata in Arsenale, ne usciva suonando Marcia Reale e Giovinezza, mentre dai dimostranti partivano potenti grida di Viva il Re! Viva Mussolini! Viva la Marina! […] Non molto dopo la Marcia su Roma era brillantemente conclusa” [15].
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Più avanti Tur riportava un brano di una lettera del 1924 di Guido Bosero, allora Segretario del PNF della Spezia, che ricordava le “armi, rivoltelle, fucili che tu hai consegnato nel luglio 1921 dopo i fatti tristissimi di Sarzana” [16]. Altro che “patto di pacificazione” e rientro del fascismo nella legalità promessi proprio allora!
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La borghesia con il fascismo
Al sostegno delle gerarchie militari al fascismo si aggiunse, e spesso si intrecciò, quello della borghesia industriale e commerciale, che fu continuo, fin dall’inizio. Figure come Guido Bosero ed Elvidio Zancani, alla Spezia, ne furono il simbolo. Fu così dappertutto in provincia: a Sarzana il nucleo del PNF sorse dall’Associazione nazionale di rinnovamento, che radunava, sotto la guida dell’avvocato Paolo Bedini, la parte più reazionaria della borghesia. A Lerici il capo dei fascisti era il cittadino più facoltoso: l’ingegner Giovan Battista Bibolini, armatore, che fu deputato dal 1934 al 1943, quindi senatore, nonché presidente della provincia dal 1932 al 1935. A San Terenzo i capi erano Giulio Mantegazza, il “signore” del paese, e gli imprenditori Remigio Azzarini e Michele Piazza. Dal gennaio all’ottobre 1922 arrivarono al fascismo spezzino 47.300 lire, di cui oltre 30.000 provenienti da società [17]. Il ministro Taddei telegrafò a settembre ai prefetti perché si adoperassero verso gli imprenditori per non continuare a finanziare i fascisti. Dalla risposta del prefetto di Genova (da cui Spezia dipendeva) apprendiamo che “in alcuni industriali e commercianti non [erano] ancora sbolliti certi entusiasmi fallaci”, mentre altri contribuivano “più per paura che per convinzione” [18].
La conquista dei Comuni. Il sindaco Ezio Pontremoli, da liberale a fascista
Anche le istituzioni locali furono svuotate. Con gli assalti ai Municipi – il primo a Bologna il 21 novembre 1920 – e con la sostituzione dei vecchi amministratori locali, costretti alle dimissioni con la violenza, ma anche grazie al cedimento degli amministratori liberali. Un esempio indiretto venne dal sindaco di Lerici, non fascista, dopo il tragico scoppio al forte militare di Falconara, che aveva provocato una strage nella popolazione civile. Alle operazioni di soccorso parteciparono, insieme alla forza pubblica, squadre fasciste di Spezia, di Sarzana e di Carrara: il sindaco inviò “un telegramma di ringraziamento non a Facta, capo del governo) ma invece al ‘Capo del Fascismo’” [19].
Un altro esempio molto più diretto venne, nei giorni successivi alla marcia su Roma, dal sindaco della Spezia Ezio Pontremoli. L’Amministrazione fu messa in crisi da sei consiglieri comunali nazionalisti e combattenti che rassegnarono le dimissioni per protesta contro “la fredda indifferenza passiva” dell’Amministrazione, che non si era resa conto “del profondissimo rinnovamento che si è operato nella coscienza pubblica italiana in questi ultimi tempi, tanto che nessun segno di adesione è pervenuto dall’Amministrazione Comunale, se non a vittoria conseguita” [20]. Il sindaco e la giunta rassegnarono le dimissioni.
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Il segretario politico del Fascio spezzino Augusto Bertozzi, d’intesa con il segretario provinciale Mario Miozzi, scrisse una lettera a Pontremoli auspicando che “nel più breve tempo” si ritirasse in buon ordine, perché l’amministrazione diventasse “espressione armonica della maggioranza dei cittadini” [21]. Era una richiesta di un mezzo passo indietro: una sorta di “fiducia a tempo”. Ma la Segreteria centrale del Partito Fascista mandò all’aria ogni disegno del Fascio locale, inviando al sindaco un telegramma in cui era scritto: “informata incresciosa imposizione dimissioni codesta patriottica amministrazione mentre si propone di rivedere rigorosamente responsabilità propri dipendenti, fa appello nobile patriottismo V. S. perché, riconfermando tradizioni nobilissime sue famigliari, voglia ritirare insieme Consiglio dolorose dimissioni per il bene di codesta città” [22].
Miozzi, risentitissimo, inviò un telegramma di protesta alla Direzione, accusata di essersi “prestata in buona fede manovre loschi speculatori locali”. La crisi fu superata, i combattenti rientrarono in maggioranza, solo i nazionalisti passarono all’opposizione [23]. La maggioranza chiese a Pontremoli di ritirare le dimissioni.
Così “Il Tirreno”, nel resoconto della seduta del Consiglio comunale del 30 dicembre, riportava le parole del sindaco: “Chiusa finalmente l’epoca che portava all’avvilimento dei valori morali e che si svolgeva senza idealismo, è seguita l’opera di restaurazione nazionale. […] È doveroso aprire il ciclo di questa nuova vita mandando un saluto al Capo dello Stato che è interprete dell’anima nazionale ed a Benito Mussolini che è stato artefice di questo rinnovamento” [24].
Pontremoli si recò a Roma a rendere omaggio al capo del fascismo [25]. L’episodio segna la tragica fine della classe dirigente liberale spezzina. La borghesia economica si schierò tutta con il fascismo, scontrandosi con lo squadrismo primigenio per la conquista del potere – e degli appalti legati all’industria militare. Negli anni successivi Bosero e Zancani [26], e poi anche Bertozzi, furono espulsi dal PNF. Bertozzi fu riammesso già dal 1929 e divenne uno dei capi del Partito Fascista Repubblicano quando fu costituita la Repubblica Sociale.
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28 ottobre 1922. Il corteo aperto dalla banda della Marina, che suonò la “Marcia reale” e “Giovinezza”
Ma facciamo un passo indietro di qualche giorno e torniamo alla marcia su Roma. Tra Stato liberale e regime fascista avvenne, il 28 ottobre 1922, “un regolare ‘passaggio di consegne’” [27].
Il racconto del settimanale spezzino “Il Popolo”, pubblicato il 4 novembre, è esemplare:“Gli ordini venivano di fuori: qui dunque non c’era altro da fare che eseguire: e quanto fu ordinato fu infatti attuato. Al primo posto furono dai fascisti occupati gli uffici postali e telegrafici e la locale stazione ferroviaria. L’opinione pubblica era dapprima molto incerta sul risultato che sarebbe stato conseguito nell’azione intrapresa, e la stessa autorità indecisa, cosicché il Sottoprefetto, dopo aver ceduto per ordine del governo centrale i poteri nelle mani dell’autorità militare, si ritirava presso lo stesso comando militare in Arsenale. E giunse così la notizia che in tutta Italia era stato proclamato lo stato d’assedio; disposizione che poi si seppe ritirata per non avere il Re firmato un tale decreto. Aumentava la confusione e l’incertezza nella opinione pubblica. Non così nelle file di azione. Gli ordini erano precisi: il programma si svolgeva secondo la linea tracciata. La cosa qui assumeva un particolar carattere di delicatezza poiché le due forze – la fascista e la militare – apparentemente in contrasto si contendevano il primato nel mantenimento dell’ordine pubblico e nel presidio degli uffici pubblici. Ma un tatto squisito fu adoperato e nessun incidente ne sorse, talché agli uffici postali e telegrafici ed alla stazione presidiavano marinai e fascisti in evidente accordo. Più tardi si delineò il carattere dell’azione. Alla nostra città affluivano i fascisti, i nazionalisti, i combattenti di tutto il circondario: si formavano i plotoni dei regolari, vestiti di tutto punto. Quindi degli ultimi venuti ad aggregarsi all’azione, di quelli che non erano ancora muniti di camicia d’ordinanza ed armati soltanto di bastone, unico distintivo nel loro abito borghese. Questi ultimi specialmente guidati da regolari fascisti, o nazionalisti, e da ufficiali in congedo dell’esercito. Questo fatto incominciava a lumeggiare il carattere dell’azione e confermava le notizie che giungevano di fuori: Mussolini marciava su Roma senza scontrarsi coll’Esercito e colla Marina. Tutto ormai si spiegava. E quando giunse la notizia della vittoria fascista nessuna esitanza poté più reggere. Mussolini era divenuto il nuovo presidente del Consiglio dei Ministri, Diaz, l’ammiraglio Tahon di Revel erano rispettivamente ministri della Guerra e della Marina. Quindi al tripudio delle schiere, diciamo così irregolari, potevano unirsi quelle regolari. E mentre la città all’annuncio di tale vittoria si andava da un capo all’altro imbandierando cortei trionfali percorrevano le vie al suono di inni eseguiti dalla banda della R. Marina. Era un osanna che partiva da diverse parti come da diverse parti si era contribuito alla vittoria. Ed ecco come una azione in così grande stile ha potuto compiersi senza che il minimo incidente ne venisse a turbare il rapidissimo svolgimento. Il corteo di martedì sera che chiuse il ciclo di tanti avvenimenti fu veramente magnifico, imponentissimo. Si ebbe in esso la rivista delle squadre fasciste e nazionaliste – che operarono sempre d’accordo – passata ad esse da S. E. il comandante in capo ammiraglio Biscaretti. Presenziarono a essa anche il sottoprefetto e l’Amministrazione comunale con gonfalone. La banda della Marina suonò la ‘Marcia Reale’ e quindi l’inno ‘Giovinezza’. Sfilano quindi dinnanzi alla autorità le varie milizie che partendo da Viale Mazzini attraversano Via Chiodo e Via Cavour recandosi a Piazza Brin ove formano un immenso quadrato. Quivi il console delle forze fasciste Bosero che comandò tutte le squadre d’azione rivolse loro l’encomio solenne e comunicò l’ordine di scioglimento. E le squadre rientrarono nelle loro sedi al canto dei loro inni. E in una serata al Politeama si ebbe pure l’apoteosi della vittoria celebrata con discorsi del comandante in capo, del segretario provinciale del fascio ing. Miozzi, del segretario politico Augusto Bertozzi e del sindaco rag. Pontremoli” [28].
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Mussolini diede vita, d’intesa con il Re, a un governo di coalizione, che comprendeva popolari, liberali, demosociali, nazionalisti e altri non fascisti. Ma i drammatici avvenimenti che si avranno subito dopo l’esordio del nuovo governo dimostreranno l’insopprimibile tendenza totalitaria del fascismo. Chi sosteneva che il fascismo sarebbe presto entrato nel sistema liberale non aveva compreso nulla. Nel “passaggio di consegne” la classe dirigente liberale consentì l’introduzione immediata di nuove forme di esercizio del potere. Pensava alla continuità, ma aprì a una brusca rottura con il passato.
28 ottobre 1922. Il vero inizio della dittatura fascista
“Il Popolo” del 4 novembre così concludeva il racconto del giorno della marcia alla Spezia: “E la cronaca dovrebbe esser terminata. Senonché l’azione di gruppi di squadristi portò alla devastazione della Tipografia Sociale ove si stampava l’anarchico ‘Libertario’, e del Circolo Ferrovieri in via Genova. Fu strappato dal sui facile alloggiamento il busto di Francisco Ferrer in Piazza del Municipio e ridotto in frantumi. Qualche comunista fu ricercato e… purgato con olio di ricino o col manganello” [29].
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Ma i fascisti non si limitarono all’olio di ricino e al manganello. Nei successivi mesi del 2022, alla Spezia, furono uccisi gli antifascisti Andrea Maineri, a Riomaggiore, Francesco Carmè, a Biassa, e Gerolamo Grancelli, a Framura. Il 21 gennaio 1923 alcuni Arditi del popolo tesero un agguato mortale al più feroce capo squadrista, Giovanni Lubrano. Fu compiuta una furiosa rappresaglia verso persone innocenti: nel giro di poche notti i fascisti trucidarono 19 antifascisti estranei ai fatti.
(foto) Vittorio Emanuele III e Mussolini
La marcia su Roma fu dunque il vero inizio della dittatura fascista. Come ha scritto Giulia Albanese “un sistema istituzionale può essere trasformato senza che ciò sia chiaramente compreso da chi assiste alle trasformazioni” [30]. Oggi possiamo sostenere che il governo fascista sancì la fine dello Stato liberale già nel corso del primo anno di attività, e nonostante il suo carattere di governo di coalizione. La sanzione statale e la connivenza dei liberali non salvò né lo Stato né i liberali ma segnò l’avvento di una nuova era contrassegnata dallo squadrismo. Lo squadrismo non finì con la marcia su Roma: Mussolini lo portò nella milizia e nei sindacati, smantellò lo Stato liberale e lo invase con le squadre. Lo squadrismo continuò a vivere nelle spedizioni coloniali in Africa, nella partecipazione fascista alla guerra di Spagna, nelle brigate nere contro i partigiani.
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Le “isole” di resistenza, garanzia per il futuro
L’avvento dell’era fascista fu tutt’uno con la disfatta del movimento operaio. E tuttavia si mantennero in vita “isole” di resistenza. Mentre il fascismo avanzava, i quartieri popolari, i borghi operai lottarono disperatamente. Furono risposte minoritarie, ma costituirono una sorta di garanzia per il futuro. L’antifascismo visse e combatté sempre, anche nei momenti più duri. La Resistenza fu anche guerra civile in continuità con la radicalità dei conflitti degli anni 1919-1922. Certamente, memore della sconfitta, l’antifascismo seppe in seguito costruire una vasta unità popolare, che ci ha dato la democrazia, la Repubblica e la Costituzione. Dopo la tragedia della Seconda guerra mondiale saranno in campo un altro Partito Comunista, un altro Partito Socialista, la Democrazia Cristiana al posto del Partito Popolare… Non solo: un’altra Chiesa, un’altra Marina… Ma questa è un’altra storia. L’importante è non smarrire la consapevolezza del legame che, nonostante tutto, unisce la Resistenza e l’antifascismo delle origini.
A questo antifascismo delle origini voglio rendere omaggio con due piccoli approfondimenti a cui ho lavorato nei mesi scorsi, su invito di alcune realtà locali che hanno raccolto l’invito lanciato proprio su “Patria Indipendente”: “gli episodi di resistenza così come gli eccidi fascisti accaduti in ogni luogo d’Italia cento anni fa dovrebbero essere oggetto di memoria e di studio” [31].
Le bandiere rosse di Pitelli
Pitelli è un borgo collinare che fa parte del Comune della Spezia, al confine con Lerici e Arcola, che è già Val di Magra. Tra fine Ottocento e inizio Novecento conobbe una rivoluzione demografica: da 1.000 a 2.700 residenti. Erano operai provenienti da ogni parte d’Italia, in particolare dalla Toscana, per lavorare nelle industrie spezzine. Il borgo aveva una posizione strategica: a piedi si raggiungevano i cantieri e le fabbriche del levante cittadino, ma anche l’Arsenale. Si svilupparono, in quegli anni, le idee politiche rivoluzionarie, in contatto con i borghi vicini – Arcola, del cui Comune Pitelli fece parte fino al 1928, e Lerici – ma anche con Spezia e Sarzana.
Il primo sciopero che si ricorda alla Spezia fu quello del 1877 in Arsenale, ma nella memoria dei pitellesi è inciso il primo sciopero nella vicina fonderia della Pertusola, il 21 aprile 1890. Pochi giorni dopo, nel borgo, i repubblicani indissero una conferenza per la riduzione dell’orario di lavoro a otto ore. Vi partecipò Felice Albani, il capo delle organizzazioni operaie repubblicane in Italia, che proprio in quegli anni stava lavorando a creare una nuova formazione politica, repubblicano-collettivista. Nel 1894, a Pitelli, era presente un circolo repubblicano-collettivista, il cui rappresentante Nicola Landi – ricordato in una stele in piazza degli Orti – partecipò al congresso nazionale del Partito Socialista del 1894.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento nacquero la Sezione socialista, i circoli anarchici e quelli cattolici, le cooperative, le Società di Mutuo Soccorso, la Pubblica Assistenza. Nel 1921 Pitelli conservava tutta la sua vitalità.
Amedeo Carignani era un giovane operaio residente a Canarbino, un colle molto vicino a Pitelli. Nella sua memoria, scritta nel 1974-1975, si legge: “Per far fronte alle prepotenze fasciste e difenderci dalle loro aggressioni formammo a Pitelli un gruppo di Arditi del popolo. Avevamo parecchie armi, le munizioni le procurai io svaligiando una riservetta del Forte Canarbino ove potevo entrare essendo mio padre guardia batteria e vi era un corpo di guardia di due soldati e un caporale di Schio che si diceva socialista. Uscii dal Forte con una carriola carica di caricatori coperta con sterpi senza destare sospetti. Eravamo nel 1921. A Livorno si era formato il nuovo Partito Comunista d’Italia e noi anarcoidi senza nessuna cultura politica vi aderimmo. […] Cominciò a circolare la voce che i fascisti preparavano un’azione di forza contro Sarzana e che la cittadina si preparava a difendersi anche con la forza contro qualsiasi violenza. Partimmo in dieci Arditi del popolo con le nostre armi attraverso Canarbino-Cerri-Romito attraversando il fiume Magra ed entrammo in città” [32].
Nel dicembre 1921, per limitarci all’ultimo esempio dell’anno, fu inaugurato il vessillo del gruppo anarchico “Gli scamiciati”: “Ieri colle rappresentanze delle sezioni locali socialiste e comuniste con bandiere, e quelle dei paesi vicini, nonché dei gruppi anarchici di Spezia, Migliarina, Fossa Mastra, Arcola, San Terenzo, Lerici, venne inaugurato il vessillo del gruppo anarchico ‘Gli scamiciati’. Parlarono con efficacia e destando entusiasmo i compagni Gino Mazzei, Auro d’Arcola e Pasquale Binazzi. Prima e dopo l’inaugurazione sfilarono in corteo per le vie del paese coi loro vessilli rossi e neri” [33].
Gli scontri con i fascisti erano all’ordine del giorno. “Il Secolo XIX”, filofascista, il 12 gennaio 1922 scriveva di uno scontro, tipico di quei tempi, in una sala da ballo: “Durante la notte del giorno 9, parecchi comunisti di Pitelli, veduti in una sala da ballo due fascisti, dopo alcuni spintoni li invitarono ad uscire e quando furono sulla strada imposero loro di abbandonare il ballo. I due fascisti, tale Antonio Gatti del luogo e Antonio Fedreghini di Spezia, l’uno di 20 l’altro di 19 anni, opposero un netto rifiuto. E intanto altri comunisti erano intervenuti accerchiandoli. Visto il pericolo i due fascisti estratte le rivoltelle spararono qualche colpo in aria. Accorsi, ai colpi, i carabinieri, i comunisti fuggirono e i due fascisti vennero tratti in arresto. Un terzo fascista, Pierino Rebera […] è latitante” [34].
Poi fu tutta una lunga eccezione democratica quotidiana. Nel 1975 Antonio Bianchi, nel libro “Storia del movimento operaio di La Spezia e Lunigiana”, riportando la testimonianza del comunista pitellese Edmondo Calzolari, scrisse: “Qui, nella notte, gli squadristi, che sapevano di poter trovare la prima bandiera rossa comunista del circondario, penetravano nel forno di Edmondo Calzolari e lo minacciavano di morte senza ottenerne nulla. Al mattino il Calzolari veniva portato in caserma e picchiato in presenza di carabinieri che assistevano indifferenti. I fascisti chiedevano la bandiera rossa della sezione e minacciavano di impiccare Calzolari e l’operaio Arturo Levantini, arrestato nel frattempo. L’ultimatum scadeva alle 17. La bandiera, che era stata nascosta in una cassetta metallica e sotterrata ai piedi di un grosso pino nella vicina località di Vallegrande, quando ci si rese conto che la sentenza stava per essere eseguita, venne prelevata da alcune donne e consegnata ai fascisti in cambio della vita dei due” [35].
Come vedremo, la testimonianza di Calzolari non era precisa. Ma forse qualcosa accadde. In una corrispondenza datata 5 maggio Stefano Lambati, su “Il Libertario” dell’11 maggio, scriveva: “La mattina del 1° maggio ad iniziativa della Sezione repubblicana ‘Maurizio Quadrio’ e del Circolo Libertario si è costituito a Pitelli un Comitato di Difesa Civile, al quale aderiscono tutte le locali Sezioni e Gruppi di partiti d’avanguardia e il cui compito principale è impedire che il nostro paese venga gettato nel disordine e nel lutto dal sorgere di quel movimento incivile e vergognoso che da due anni insanguina tutte le contrade italiche” [36].
Un Comitato che ricorda il Comitato di difesa proletaria costituitosi a Sarzana nel luglio 1921.
L’articolo proseguiva con un ammonimento “a coloro che possono impedire il verificarsi di eventuali dolorosi fatti” e annunciava “un manifesto alla cittadinanza”. Riferiva infine che “la festa del lavoro trascorse qua tra la massima solidarietà e compattezza e quantunque le regie proibizioni non abbiano consentito il libero svolgersi della manifestazione, essa è riuscita davvero solenne”. Al pomeriggio “presero parte alla tradizionale gita campestre al monte Canarbino molti intervenuti anche dai paesi circonvicini che gremivano i poggi circostanti” [37]. Il comizio fu tenuto dai comunisti Massari e Collotto e dal repubblicano di Pitelli Giordano Sommovigo.
Lamberti pubblicò su “Il Libertario” del 18 maggio una corrispondenza datata 16 maggio che conteneva il testo integrale del manifesto del Comitato, in cui i firmatari si dicevano “decisi a non tollerare sopraffazioni e provocazioni malvagie” e invitavano le varie correnti politiche e la popolazione a “essere pronti al nostro fianco per la difesa di tutte le libertà” [38].
Anche per “Bandiera Rossa” la festa del 1° maggio trascorse tranquilla: “Il 1° maggio ha avuto in questo ridente paesetto una celebrazione memorabile. La popolazione intera percorreva le vie del paese cantando inni proletari e sventolando rosse bandiere. Ad onta di ogni divieto i compagni Sassano e Colotto hanno tenuto un riuscitissimo comizio in piena campagna, parlando dal sommo di un’altura. Si sono notati molti operai dei paesi vicini infestati dal fascismo” [39].
L’appropriazione della bandiera da parte fascista non c’era dunque stata. Ma solo per poco. Non fu così, infatti, a fine agosto. La Prefettura, in un telegramma del 31 agosto 1922, riferì che il 30 una squadra fascista decise una spedizione a Pitelli, che fu bloccata dall’intervento dei carabinieri; e che all’alba del 31 la spedizione riprese, con almeno trenta fascisti in paese, che chiesero e ottennero dalla sezione socialista la bandiera rossa [40].
Lo conferma “Il Secolo XIX”, sia pure a suo modo: non ci furono due spedizioni, secondo questo giornale, ma un’aggressione e una rappresaglia. Il 30 agosto scriveva che “il fascista Rinaldo Michelazzi, abitante a Pitelli, fu aggredito da due anarchici, tali Nebbia Colombo e Renato Ricci anch’essi del luogo”. Accorsi i carabinieri, Il primo fu arrestato, mentre il “suo compagno riusciva a fuggire” [41]. Il 31 agosto “Il Secolo XIX” aggiungeva che i carabinieri avevano perquisito l’abitazione del socialista Nello Pellegri, tratto in arresto dopo la scoperta che possedeva due rivoltelle, e che per l’aggressione a Michelazzi erano stati denunciati i fratelli Emilio e Natale Raspolini, latitanti [42].
Il 1° settembre, infine, “Il Secolo XIX” scriveva: “In seguito all’aggressione compiuta a Pitelli contro un fascista […] il Direttorio del Fascio spezzino intimò subito ai sovversivi di quel luogo di consegnare entro 48 ore le bandiere dei loro circoli. Questa notte, essendo scaduto l’ultimatum, e non avendo i sovversivi obbedito all’ingiunzione fascista, un forte gruppo di fascisti circondò il paese ed all’alba vi irruppe impadronendosi di una bandiera rossa che era nel circolo socialista e che fu bruciata in piazza. Tutti i sovversivi non furono trovati in casa, essendo fuggiti sino da ieri. Senza che avvenissero incidenti, i fascisti tornarono alla loro sede, portando come trofeo un’altra bandiera rossa consegnata da una donna, la quale l’aveva avuta in deposito dai comunisti del paese” [43].
Antonio Bianchi, nel libro del 1984 “Lotte sociali e dittatura in Lunigiana storica e Versilia 1919-1930”, si corresse e scrisse che la bandiera comunista “era stata consegnata pena la morte di due operai comunisti presi in ostaggio” e “portata come trofeo nella villa del capo squadrista ing. Zancani” [44], a seguito di una spedizione avvenuta il 31 agosto.
Quel che avvenne è dunque chiaro: i fascisti si impossessarono sia della bandiera socialista che di quella comunista. La caccia alle bandiere rosse e la loro conquista era il segno della capitolazione, politica e sindacale. Scriveva “Il Popolo” del 9 settembre: “Una commissione della Camera Confederale del Lavoro, composta dall’avv. Bronzi e dal sig. Bertone, ha avuto un abboccamento col segretario del Fascio locale Bertozzi, per addivenire ad un patto di pacificazione. Come primo punto il segretario Bertozzi dichiarò che anzitutto bisognava che fosse consegnata al Direttorio Fascista la bandiera rossa della Confederale. Ed essa fu subito consegnata” [45].
Le bandiere rosse erano un fortissimo segno identitario. Non è un caso che i partigiani abbiano recuperato la bandiera comunista di Pitelli, che tornò nella sede del PCI ed è ancora oggi, ormai quasi rosa per il peso degli anni, incorniciata nella sede del Partito democratico del borgo.
Ha scritto Giovanni De Luna: “Mussolini, con il suo passato, conosce benissimo i valori della religione politica degli avversari, il rapporto strettissimo tra i simboli (la bandiera rossa, la falce e il martello) e il radicamento identitario delle masse socialiste, e si comporta di conseguenza: il primo maggio del 1922, oltre che per i soliti episodi di violenza, è l’occasione per sostituire in un ipotetico calendario civile il Natale di Roma, del 21 aprile, alla festa dei lavoratori” [46].
“Il Popolo”, giornale del Partito Popolare, nell’articolo citato non criticò la caccia alla bandiera rossa. Eppure anche la bandiera bianca era un simbolo. E anche contro questo simbolo si accaniranno, in seguito, i fascisti.
Il pitellese Silvio Sassetoli – operaio del Cantiere Muggiano, rastrellato il 30 giugno 1944 e deportato in Germania – partecipò nel 1921 a Roma alla manifestazione per i cinquant’anni della Gioventù di Azione Cattolica, che fu caricata dalle guardie regie. La loro bandiera bianca fu macchiata dal sangue di un sacerdote colpito al viso da una sciabolata.
Sassetoli, sopravvissuto al campo di sterminio, scrisse in una testimonianza del 1976: “Nel 1932 il Duce ordina lo scioglimento di tutte le associazioni cattoliche. Ci apprestammo a salvare e asportare ogni cosa esistente nella sede sociale, prevedendo l’invasione dei locali da parte dei fascisti. Personalmente mi preoccupai di salvare la nostra gloriosa bandiera. Lo feci all’insaputa di tutti per ovvie ragioni, ben sapendo che i fascisti l’avrebbero senz’altro bruciata. Non dissi niente neppure ai miei familiari; nascosi in luogo sicuro il bianco vessillo e lo riportai alla luce dopo il mio ritorno dalla deportazione in Germania. Ora la bandiera insanguinata è gelosamente conservata come storico cimelio alla sede Centrale di Roma dell’Azione Cattolica” [47].
L’insistenza di tutti sulle bandiere ci parla davvero dell’importanza dei simboli. Orlando Danese, fascista spezzino della prima ora, lo spiegò bene raccontando l’attacco squadrista ai funerali del ferroviere Attilio Stagno: “L’aneddoto di quella vecchia bandiera rossa dei ferrovieri vale per tutti gli altri, dove il cencio immondo fu sconfitto e strappato all’avversario dalla baldanzosa vivacità dell’arditismo rivoluzionario spezzino” [48].
Ma torniamo alla Pitelli del 1922. Anche le vicende di questo borgo ci dimostrano che fino al 1922 c’era un anelito unitario e di lotta vivo tra le masse, dal basso, che ispirò il movimento degli Arditi del popolo. I repubblicani, i socialisti, i comunisti, gli anarchici del Comitato di Difesa Civile erano Arditi del popolo, “pronti per la difesa di tutte le libertà”. Ma furono tutti tentativi improvvisati, come a Sarzana nel luglio 1921, come alla Serra nel febbraio 1922: senza alcun coordinamento nazionale, senza un appoggio dei partiti operai. Quei rivoltosi avevano qualche rivoltella, ma un partito armato del movimento operaio non vi fu mai. Mentre lo Stato abdicava al suo ruolo e stava da una parte sola.
Ma chi erano gli Arditi pitellesi? Erano operai e artigiani, con un forte spirito di classe.
I due anarchici citati da “Il Secolo XIX” nell’articolo del 30 agosto erano in realtà due comunisti. Nebbia Colombo si chiamava Ettore – Nebbia Colombo era il cognome – e faceva il carpentiere in ferro. Nel 1930 chiese di emigrare in Francia per lavoro, con l’avvento del fascismo aveva abbandonato l’attività politica. Renato Ricci, panettiere, emigrò in Francia, poi navigò, infine tornò a Pitelli per lavorare alla Pertusola, sempre sorvegliato.
Nel gruppo c’erano i socialisti: Rolando Locori, tornitore, Foresto Simonini, meccanico, Erinio Simonini, carpentiere, padre di Vico, manovale comunista, al confino alle Tremiti dal 1937 insieme a un altro giovane comunista pitellese, Bruno Caleo. C’erano i repubblicani, come Gino Porrini. Gli anarchici, come Michele Parentini. E c’erano i comunisti: Gigino Cinelli, carpentiere, Gino Luschi, commesso, Lindo Pellegri, carpentiere, Oscar Migliorini, meccanico. Quest’ultimo, nel ventennio fascista, fu anche segretario provinciale del partito, poi al confino a Ponza per cinque anni, dal 1933, poi arrestato nel 1939 nella retata che decapitò il gruppo dirigente comunista spezzino e condannato a trent’anni. Morì a Mauthausen il 10 maggio 1945. Nello stesso processo fu coinvolto anche Rolando Locori, cognato di Migliorini, condannato a due anni.
L’impegno degli Arditi, soprattutto comunisti, fu davvero garanzia per il futuro. Migliorini è il simbolo di questo impegno. Così Gino Luschi, che diventerà partigiano nel Battaglione Ulivi della Brigata garibaldina Menconi, in Apuania. Così Gigino Cinelli, che farà parte del Comando Raggruppamento Garibaldi in Lombardia. Mentre il socialista Locori dirigerà il Comitato sindacale del CLN spezzino, insieme al comunista Mario Ragozzini e al cattolico Agostino Ravecca.
Le bandiere rosse e gli inni di Framura
Il 22 gennaio 1922 si tenne a Sampierdarena il secondo congresso della Federazione comunista ligure. La relazione politica fu tenuta dal segretario della Federazione Rosario Zinnari. Da “Bandiera Rossa” del 2 febbraio apprendiamo: “Un particolare elogio tributa, ed il Congresso si associa, ai compagni di Framura e di Sarzana che hanno saputo tener testa alla reazione” [49].
Framura è un piccolo borgo marinaro, consistente in più frazioni dislocate in collina. La popolazione del tempo era costituita da lavoratori marittimi e da mezzadri. C’era, inoltre, una piccola cava di manganese.
I comunisti erano molto attivi, già nel 1921. Il 24 aprile si tenne alla Spezia il Convegno circondariale giovanile comunista. “Bandiera Rossa” informò che erano rappresentate al convegno “le sezioni giovanili comuniste di Framura, Spezia, San Venerio, San Terenzo, Sarzana, Aulla e Fivizzano” [50].
Un primo episodio di resistenza ai fascisti si verificò il 1° maggio 1921. Così lo racconta “Bandiera Rossa”: “Il 1° Maggio nel nostro paesetto è stato festeggiato da tutti i proletari che con molta compattezza, nella frazione Castagnola si sono trovati riuniti coi compagni di Deiva e Biassa, per fraternizzare l’alleanza del lavoro. Ma a non lasciarci tranquilli ha ben pensato il Sottoprefetto Giachino, con un forte gruppo di carabinieri capitanati da vari fascisti di Deiva. Mentre un gruppo di operai si trovavano a pranzare sono intervenuti e hanno obbligato questi lavoratori a togliere una rossa bandiera che sventolava alla finestra, per ordine del Sottoprefetto e i fascisti, che erano armati, hanno cercato di provocare, ma visto la mala parata han creduto mettersi alla testa dei carabinieri e andarsene a casa. Nella sala da ballo hanno parlato vari oratori che hanno destato grande entusiasmo; molto applauditi sono stati gli oratori Cazari, comunista, e il compagno L.A. Ne siamo entusiasti di vedere i nostri lavoratori che la reazione non ha scosso per nulla la loro fede” [51].
Ancora una volta la caccia alla bandiera rossa, e la sua difesa.
Il 29 agosto avvenne l’episodio più importante, su cui i giornali scrivono resoconti diversi. Al centro un altro simbolo, gli inni, oltre alle bandiere. Leggiamo “Il Tirreno”: “Ieri a Framura avvenne una festa religiosa. Un gruppo di comunisti malintenzionati allo scopo di vietare tale manifestazione religiosa si avvicinava nei pressi della chiesa cantando inni sovversivi e ‘Bandiera rossa’. Il maresciallo dei R.R. Carabinieri comandante della stazione di Deiva con buone parole esortò i dimostranti a volere desistere da tale tentativo, ma i comunisti continuarono a cantare i loro inni. Allora il maresciallo cominciò a perquisire i presenti arrestando un individuo che trovavasi armato senza giustificato motivo. Verso le ore 18 mentre l’arrestato veniva condotto a Deiva, un numeroso gruppo di comunisti, una cinquantina, con la solita loro bravura, quando si trovano di fronte a un esiguo numero di avversari, volendo liberare il compagno, tentarono di assalire i pochi militi del dovere sparandogli contro quattro colpi di rivoltella, fortunatamente andati a vuoto. I carabinieri, di fronte alla superiorità numerica degli avversari, prima di essere sopraffatti, spararono alcuni colpi di moschetto, riuscendo così ad allontanare gli assalitori e poter rientrare in caserma a Deiva, conducendovi pure l’arrestato. […] Verso le ore 20 una numerosa folla indemoniata e composta nella maggiore parte di comunisti, decisa ormai a voler liberare il compagno arrestato, si portò sotto le finestre della caserma dei R.R. Carabinieri inscenando una manifestazione ostile: anzi, alcuni più valorosi tentarono di dare l’assalto alla caserma. Fu un attimo! Il bravo maresciallo volendo difendere ad ogni costo la caserma tentò dapprima con buone parole di dissuadere gli assalitori da tale insano tentativo che avrebbe potuto apportare delle gravi conseguenze; ma al deciso diniego della banda arrabbiata la quale si avvicinava con sempre crescente atto di offesa e con aria minacciosa, il valente maresciallo con sangue freddo e con alto spirito del dovere, seguito da alcuni Carabinieri, uscì dalla caserma precipitandosi in mezzo alla folla per disperderla. Ne nacque una colluttazione, fortunatamente senza spargimento di sangue. I carabinieri riuscirono a trarre in arresto ben 12 comunisti dei più scalmanati” [52].
Ben diverso il racconto del “Libertario”: “Videro giungere in paese il maresciallo dei carabinieri della stazione di Deiva, seguito da una ventina di militi. Subito manifestarono atteggiamenti bellicosi. Perché le campane della chiesa suonavano ‘Bandiera Rossa’, dietro istigazione di uno spione del paese, i carabinieri cominciarono ad inveire contro il prete. Poi se la presero con dei giovani comunisti che erano nel loro circolo. Il bollente maresciallo si qualificò per un moscardino capace di mettere a posto tutti. I cittadini lo rintuzzarono adeguatamente. Poco dopo incontrato solo Lanzone Lorenzo, segretario della sezione giovanile comunista di Framura, lo trassero arbitrariamente in arresto. Appena in paese si sparse tale notizia l’indignazione fu generale. Molti lavoratori si diressero verso Deiva per far rilasciare l’arrestato. A Deiva erano stati concentrati oltre cinquanta carabinieri fatti venire da fuori e quel maresciallo volle aggiungere arbitrio ad arbitrio. Vennero arrestati a Deiva altre 12 persone, tra le quali una donna che chiedeva notizie del proprio figlio” [53].
Sulla stessa linea “Bandiera Rossa”, con l’aggiunta di un altro simbolo: ancora la bandiera rossa. “L’autorità ed il fascismo temono lo sgonfiarsi del pallone imbastito giorni orsono. Compagni nostri e persone del tutto estranee a competizioni politiche, sono per ora private della libertà e rinchiuse nelle carceri di Levanto. Veniamo ai fatti. Un figuro conosciuto per agente provocatore ha fatto mettere due bandiere rosse sul campanile. Mentre questo succedeva un fascista entrò nel nostro circolo ricreativo dove si eseguivano dei balli. Questo messere pretese che si suonasse l’inno fascista, al che i nostri compagni riposero cantando in coro gli inni nostri. Questo fatto bastò al locale maresciallo dei R.R. C.C. per operare degli arresti e terrorizzare la tranquilla popolazione. Si sa pure che tutto questo piano era stato studiato e prestabilito in casa di un certo Luigi, dove si è parlato di arrestare i migliori compagni e mettere lo scompiglio nel nostro fiorente movimento comunista. Fin dove si vuole arrivare?” [54].
Gli arrestati furono tutti messi in libertà, apprendiamo da “Bandiera Rossa” del 6 ottobre, “fuori che il compagno Perino G. Batta che si trova ancora rinchiuso nelle carceri di Levanto e al quale fu negata la libertà provvisoria”.
Ma non era finita: “Il maresciallo dei R.R. C. C. e il sig. fascista Biasotti, guerraiolo e reazionario, e tutto il fascio non sono ancora contenti. Il 29 settembre, per motivi ancora sconosciuti, veniva arrestato in servizio il nostro carissimo ed instancabile compagno Lanzone Anselmo, segretario politico della sezione adulta” [55].
Un fatto più grave ancora successe, a Framura, il 3 dicembre 1922. Secondo la Prefettura di Genova “ritornò in breve licenza il comunista pregiudicato” Gerolamo Grancelli, che venne a diverbio con due fascisti, padre e figlio, il primo segretario del Fascio locale, e sparò con la pistola al padre, Gerolamo Colla, ferendolo gravemente. Secondo questa versione Colla, prima di cadere, uccise Grancelli. Ma neppure il prefetto di Levanto ne fu convinto, tant’è che fece arrestare per omicidio il figlio di Colla [56]. Questa fu sempre la versione “popolare” di ciò che accadde, tant’è che, dopo la Liberazione, a Gerolamo Grancelli martire della libertà, fu intitolata una via di Framura.
Il suo sacrificio e l’impegno di molti altri non furono vani. Nella piccola Framura furono venti i giovani che salirono ai monti nel 1944-1945: tutta una generazione. Tra loro anche una donna, Caterina Ramelli, una delle poche partigiane combattenti – nome di battaglia “Vanda” – nella IV Zona operativa. Combatté nella I° Divisione Liguria Monte Picchiara. “Vanda” raccolse il testimone da quella madre di Framura arrestata a Deiva il 29 agosto 1921 e dalle tante altre donne che furono “il fiore” dell’antifascismo delle origini.
Giorgio Pagano, copresidente del Comitato Unitario della Resistenza della Spezia in rappresentanza dell’Anpi, storico, sindaco della città di La Spezia dal 1997 al 2007
[1] Agostino Giovagnoli, “Quel 28 ottobre giorno della vergogna”, “Vita e pensiero”, n. 4. 2022.
[2] Giorgio Pagano, “Con gli Arditi del popolo dove il 1922 non piegò l’antifascismo”, “Patria Indipendente”, 8 aprile 2022.
[3] Ibidem.
[4] G. Miceli, “Virtù contro furore”, “Il Tirreno”, 13 aprile 1920.
[5] Agostino Giovagnoli, “Quel 28 ottobre giorno della vergogna”, cit. Giovagnoli si riferisce agli anni Settanta, “spesso ricordati come anni di estrema debolezza dello Stato”. Ciò vale anche per gli anni Sessanta: mi permetto di rimandare al libro mio e di Maria Cristina Mirabello “Un mondo nuovo, una speranza appena nata. Gli anni Sessanta alla Spezia ed in provincia”, 2 Voll., Edizioni Cinque Terre, La Spezia, 2019 e 2021, e agli approfondimenti contenuti in: “Il golpe Borghese e le radici liguri dell’eversione”, “Il Secolo XIX”, 7 dicembre 2020; “Piano Solo, quando si cominciò a perdere il senso dello Stato”, micromega.net, 17 settembre 2021; “Il Piano Solo e la strategia della tensione: botta e risposta tra Mario Segni e Giorgio Pagano”, micromega.net, 22 ottobre 2021; “La strage di piazza Fontana”, 20 maggio 2022, www.associazioneculturalemediterraneo.com.
[6] In “Con gli Arditi del popolo dove il 1922 non piegò l’antifascismo” ho scritto di un assalto ad opera dei fascisti: la fonte è ASG, Prefettura di Genova, Incursioni fasciste, fon. N. 2827 del 9 maggio 1921, b. 32. “Bandiera Rossa” del 12 maggio 2021 riporta un’altra versione:
“Ieri i nostri compagni si recarono per una gita di propaganda a Lerici e San Terenzo. Mentre un comizio tutto ordinato e calmo si svolgeva in questa ultima località sono sopraggiunti una squadra di centoquaranta fascisti, provenienti da Spezia che invitati a contradditorio non accettarono l’invito. A comizio finito quando tutto era proceduto con la massima calma sopraggiunsero venti carabinieri, principiarono a inveire contro i pochi compagni rimasti e si recarono a distruggere la Sede del Circolo Comunista di San Terenzo”. Il giornale spiega così quanto accaduto: “forse anche perché il nuovo Sotto Prefetto si possa far conoscere, e possa far vedere che l’altro era stato allontanato perché forse non troppo tenero verso questi sopraffattori” (“Cronache spezzine”, “Bandiera Rossa”, 12 maggio 1921). [7] Si veda: Giorgio Pagano, “I fatti di via Torino”, “Città della Spezia”, 30 maggio 2021.
[8] ACS, Faldoni del Ministero dell’Interno, Direzione generale di PS – Divisione affari riservati, 1921: pacco 78, fascicolo “Genova”, cartella “Fatti di Santo Stefano e Sarzana, Relazione dell’Ispettore Generale Vincenzo Trani al Ministro dell’Interno e Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi”, in “La storia come identità. I fatti di Sarzana del 21 luglio 1921 nella storiografia nazionale ed europea. 19-20 luglio 2002: Atti del Convegno”, Lerici, Ippogrifo, 2003, p. 21.
[9] Ivi, p. 24.
[10] “La storia come identità. I fatti di Sarzana del 21 luglio 1921 nella storiografia nazionale ed europea. 19-20 luglio 2002: Atti del Convegno”, p. 58.
[11] Ibidem.
[12] Si veda: Giorgio Pagano, “Ma a Bari e a Parma no pasaràn”, “Patria Indipendente”, 3 agosto 2022.
[13] ISRSP, Fondo IV. Attività politica bis, Serie 2, Partito Nazionale Fascista (P.N.F.) e Partito Fascista Repubblicano (P.F.R), fasc. 683.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Renzo De Felice, Mussolini il fascista, Einaudi, Torino, 1966, p. 293 e segg.
[18] Risposta del Prefetto di Genova al Ministro dell’Interno, 15 settembre 1922, citato in Gaetano Perillo, “I comunisti e la lotta di classe in Liguria negli anni 1921-1922”, “Movimento operaio e socialista”, aprile-settembre 1963.
[19] Antonio Bianchi, “Lotte sociali e dittatura in Lunigiana storica e Versilia (1919-1930)”, Olschky, Firenze,1984, p. 224.
[20] “La crisi comunale”, “Il Popolo”, 4 novembre 1922.
[21] “La crisi comunale continua”, “Il Popolo”, 11 novembre 1922.
[22] Ibidem.
[23] “La crisi comunale risolta”, “Il Popolo”, 18 novembre 1922.
[24] “La seduta di sabato al Consiglio Comunale”, “Il Tirreno”, 3 gennaio 1923.
[25] Sull’incontro tra Pontremoli, la delegazione spezzina e Mussolini si veda: Orlando Danese, Tutto è storia, Tipografia SIT, La Spezia, 1942, pp. 187-190.
[26] Giorgio Pagano, “Con gli Arditi del popolo dove il 1922 non piegò l’antifascismo”, “Patria Indipendente”, cit.
[27] Ibidem.
[28] “In giro per La Spezia. La cronaca degli avvenimenti”, “Il Popolo”, 4 novembre 1922.
[29] Ibidem.
[30] “In giro per La Spezia. La cronaca degli avvenimenti”, cit.
[31] Giulia Albanese, “La marcia su Roma”, Laterza, Roma, 2006, p. X.
[32] Memoria di Amedeo Carignani, depositata presso il nipote Mauro Martone.
[33] “Corrispondenze, Pitelli”, 12 dicembre 1921, “Il Libertario”, 15 dicembre 1922.
[34] “Tra fascisti e comunisti a Pitelli”, “Il Secolo XIX”, 12 gennaio 1922.
[35] Antonio Bianchi, “Storia del movimento operaio di La Spezia e Lunigiana”, Editori Riuniti, Roma, pp. 142-143.
[36] Stefano Lambati, “Corrispondenze, Pitelli”, 5 maggio, “Il Libertario”, 11 maggio 1922.
[37] Ibidem.
[38] Stefano Lambati, “Corrispondenze, Pitelli”, 16 maggio, “Il Libertario”, 18 maggio 1922.
[39] “Con cortei, comizi e dimostrazioni imponenti, il proletariato ligure ha celebrato il 1° maggio. Da Pitelli”, “Bandiera Rossa”, 11 maggio 1922. I due giornali divergono sui nomi degli oratori intervenuti.
[40] Prefettura di Genova, Incursioni fasciste in Liguria 1921-1922, tel. N. 1432 del 31 agosto 1922, b. 34. ASG.
[41] “Fascista ferito a Pitelli”, “Il Secolo XIX”, 30 agosto 1922.
[42] “Perquisizione ed arresto a Pitelli”, “Il Secolo XIX”, 31 agosto 1922.
[43] “Rappresaglia fascista a Pitelli”, “Il Secolo XIX”, 1° settembre 1922.
[44] Antonio Bianchi, “Lotte sociali e dittatura in Lunigiana storica e Versilia (1919-1930)”, cit., pp. 222-223.
[45] “I socialisti della Spezia consegnano la loro bandiera”, “Il Popolo”, 9 settembre 1922.
[46] Giovanni De Luna, “Quando ci consegnammo al fascismo”, “Il Secolo XIX “, edizione nazionale, 6 ottobre 1922.
[47] ISRSP, Testimonianza di Silvio Sassetoli. I cattolici di Pitelli nella Resistenza, Miscellanea, Q 16.
[48] Orlando Danese, “Tutto è storia”, cit., p. 155.
[49] “Il Secondo Congresso Regionale Ligure a Sampierdarena”, “Bandiera Rossa”, 2 febbraio 2022.
[50] “Movimento giovanile”, “Bandiera Rossa”, 6 maggio 1921.
[51] “Con cortei, comizi e dimostrazioni imponenti, il proletariato ligure ha celebrato il 1° maggio. Da Framura”, “Bandiera Rossa”, 11 maggio 1921.
[52] “Colluttazioni tra forza pubblica e comunisti a Framura e Deiva. 13 comunisti arrestati”, “Il Tirreno”, 30 agosto 1921.
[53] G.C., “Levanto. Provocazioni di un maresciallo dei carabinieri. 30 agosto 1921”, “Il Libertario”, 1° settembre 1921.
[54] “Da Framura. Reazione fascista poliziesca”, “Bandiera Rossa”, 30 agosto 1921.
[55] “Da Framura, “Bandiera Rossa”, 6 ottobre 2021.[56] ASG, Prefettura di Genova, Incursioni fasciste, espr. N. 1871 del 5 dicembre 1922, bb. 32-33
10 Ottobre 2022