I clan sono arrivati a “commissariare” gli enti pubblici dopo che, per la prima volta, il ricambio generazionale si è compiuto in maniera indolore. In precedenza ogni mutamento al vertice era stato preceduto e accompagnato da un bagno di sangue
La massomafia come entità di gestione politica, sociale ed economica del territorio. Le prime avvisaglie di questo diverso assetto criminale erano arrivate proprio dalle relazioni della Procura nazionale antimafia e della Dia. Ci consegnano un dato assolutamente inedito: per la prima volta, in Calabria e in Sicilia, si assiste ad un ricambio generazionale ai vertici della criminalità mafiosa, ormai attestatasi come “mafia transnazionale”, assolutamente indolore.
In precedenza ogni mutamento al vertice era stato preceduto e accompagnato da un bagno di sangue. Anche all’inizio del nuovo secolo ci si chiedeva: «Verso quali nuovi assetti è proiettata la ‘ndrangheta calabrese ora che anche gli ultimi “mammasantissima” escono di scena prendendo la via del carcere per almeno due ordini di motivi?».
Si era, e per alcuni versi si è ancora, in presenza di un cambiamento generazionale imposto, per la prima volta, solo da ragioni “anagrafiche” e “funzionali”. In precedenza erano state le guerre di mafia a dettare tempi e modi del “cambiamento”, oggi non è così. O almeno non lo è nei territori storicamente più legati alla ‘ndrangheta, i tre “mandamenti” (Reggino, Jonico e Tirrenico) sorti per garantire un coordinamento stabile tra le grandi famiglie mafiose della provincia di Reggio Calabria. Un patto federativo che ha dimostrato sul campo la sua capacità di reggere. Basti per tutti l’esempio fornito a Locri e San Luca, dove il “tribunale” dei mandamenti è riuscito a imporre la pace tra clan che avevano dimostrato determinazione e ferocia firmando stragi eclatanti, come quella di Duisburg.
Fuori dal Reggino non c’era interesse. Troppe cosche “fai-da-te”, troppi dilettanti, troppa violenza gratuita. Così la decisione presa è stata non solo quella di non intervenire ma anzi in molti casi, e siamo alle ultime indagini della Dda di Catanzaro a Vibo e Lamezia, quella di incentivare uno scontro che serviva a liberare il campo. Un campo prezioso, visto che nel triangolo Cosenza-Lamezia-Catanzaro si vanno concentrando risorse economiche ed investimenti pubblici che con il “patto per la Calabria” sfiorano i dieci miliardi di euro.
Via libera, dunque, agli ammazzamenti in quel di Cosenza, di Catanzaro, di Vibo, di Lamezia. Ben venga anche un pentitismo straccione se serve a lasciare liberi altri spazi. Specialmente se la politica resta distratta o, peggio, convinta che siamo ancora alle prese con le coppole e i “paesani” tirati su a tarantella e carne di capra. Gente a cui dare quel poco di confidenza che basta per avere in cambio un po’ di tesseramento e un qualche appoggio alle primarie. La chiamata alle armi è contro il commissariamento della sanità. Poco importa se la ‘ndrangheta ha di fatto commissariato molti altri enti e molte altre strutture pubbliche.
Nel Reggino, invece, dal 1991 la ‘ndrangheta conosce un lungo arco di pace al suo interno e quei pochi omicidi registratisi in questi 18 anni sanno di “chirurgia criminale”, hanno eliminato alla radice l’insorgere di qualche problema locale, tant’è che a quei delitti non ha fatto seguito alcuna guerra. Da questo quadro, lo ribadiamo, vanno escluse le faide locali, quella di San Luca è stata la più dura ed anche quella che, con la strage di Duisburg, ha provocato più danni (leggi clamore) alla ‘ndrangheta e ben per questo anche a quelle famiglie è stato imposto, con successo, di rientrare subito nei ranghi abbandonando le armi e la vendetta.
Ma la pax mafiosa, quella per intenderci che riguarda i grandi casati criminali, ancora tiene e questo ha consentito loro di chiudere un pericoloso fronte interno che si era aperto con la “secessione” tentata dalle cosche trapiantate al Nord. E se sino ad oggi gli affari hanno avuto la meglio sulla voglia di menar le mani è proprio per il ruolo di mediazione e comando svolto dalla “massomafia” che ha saputo se non pilotare certamente gestire anche la fine delle latitanze storiche. Basta pensare che alla lettura della sentenza nel processo Olimpia, siamo al 19 gennaio 1999, erano latitanti i principali imputati e la loro sembrava dover essere una latitanza dorata e senza fine. Uno dopo l’altro, invece, sono finiti tutti nella rete della Giustizia ed impediti, dall’odiatissimo “41 bis”, in ogni azione di governo delle proprie ‘ndrine. Era latitante il “supremo” Pasquale Condello e suo cugino Domenico; lo era Giorgio Benestare e lo erano Orazio e Carmine De Stefano. Latitante anche Antonio Libri e Giuseppe Morabito (U’ Tiradrittu) ed i fratelli Pasquale e Giovanni Tegano. Nessuno è sfuggito alla cattura. Mentre altri tre boss all’epoca condannati sono passati a miglior vita. Per due di loro, autentici “mammasantissima”, è stata una morte per vecchiaia, si tratta di Mico Libri e di don Peppino Piromalli. Il terzo, Mario Audino, boss di San Giovannello in rapida ascesa, ha conosciuto la morte in una imboscata nel centro storico di Reggio Calabria con tre gruppi di fuoco che hanno agito dopo avere bloccato un’intera strada.
Erano gli uomini di vertice, quelli usciti vivi dalla seconda guerra di mafia, uno scontro terrificante che, nel 1985, fece sprofondare nel terrore la città di Reggio Calabria. Il 10 ottobre di quell’anno, era un venerdì, il boss di Fiumara di Muro Nino Imerti sta per salire sulla sua auto blindata, parcheggiata in una stradina di Villa San Giovanni, esplode un’autobomba comandata a distanza. Nino Imerti, detto anche “Nano feroce”, si salva, muoiono i suoi tre “guardaspalle”. Alla fine i morti saranno oltre 700. Il mandante del fallito attentato è il boss di Archi Paolo De Stefano. Tre giorni più tardi il mammasantissima di Archi – da latitante – è in moto insieme al suo fido accompagnatore Antonino Pellicanò. Sta attraversando via Mercatello, nel cuore del suo regno. I colpi di lupara li abbattono entrambi. La ‘ndrangheta reggina si spacca in due tronconi. Con i De Stefano restano schierati i Libri, i Tegano, i Latella, i Barreca, i Paviglianiti e gli Zito. Con il cartello di Nino Imerti vanno invece i Condello, con il boss Pasquale che diventa presto il leader dello schieramento, i Fontana, i Saraceno, i Serraino, i Rosmini, i Lo Giudice. Lo scontro, un anno più tardi, si allargherà a tutta la provincia anche perché riapre ferite mai chiuse ereditate dalla prima guerra di mafia, quella scoppiata sul finire degli anni Settanta. Con i De Stefano si schierano quindi i Morabito, Zappia, Palamara, Criaco e Mollica di Africo, i Garrefa di Ardore, i Musitano di Bovalino, i Mazzaferro di Gioiosa Ionica, i Mancuso di Limbadi, i Cataldo di Locri, i Papalia, Trimboli e Pelle di Platì, i Pesce e Pisano di Rosarno, i Nirta, Pelle, Vottari e Romeo di San Luca. Con gli antidestefaniani invece scelgono di stare i Piromalli e i Mammoliti della Piana di Gioia Tauro, gli Aquino, gli Ursini, i Macrì di Gioiosa Ionica, i Cordì di Locri, i D’Agostino di Sant’Ilario e i Commisso di Siderno.
Durerà sei anni, poi arrivano i patriarchi delle ‘ndrine calabresi e i compari d’Oltreoceano. Si torna al tavolo delle trattative con l’anziano boss di San Luca Antonio Nirta (a garanzia dei destefaniani) e Nino Mammoliti di Castellace di Oppido, il fratello di Saro, per gli Imerti-Condello. Quando la strada all’intesa appare possibile, intervengono, per gli accordi finali, boss del calibro di Joe Imerti da Toronto, degli Zito giunti dall’Australia, di Vic Cotrona (che da Mammola aveva scelto il Canada per i suoi affari), di Antonio Pelle detto Gambazza e di Mico Alvaro di Sinopoli. L’accordo prevede una divisione capillare del territorio e una spartizione meticolosa degli affari. E la creazione di una sorta di vertice delle cosche che serve a dirimere le controversie e affrontare le relazioni con le altre organizzazioni criminali.
La cosa ha funzionato. Ha retto bene. Talmente bene da veder andare via via sparendo l’intero Cda della vecchia ‘ndrangheta senza che questo causasse alcun contraccolpo alla società che, anzi, oggi può sedersi ai tavoli che contano, dare e togliere la parola a chi ritiene, decidere delle strategie di sviluppo dei territori.
La tarantella e la carne di capra? Oggi è la ricreazione offerta agli amici che fanno politica ed ai loro sottopancia.
2-fine
Paolo Pollichieni
direttore@corrierecal.it
16 Luglio 2017