La contrazione drastica del fatturato dovuto alla chiusura o alla riduzione delle attività produttive ha determinato una crisi di liquidità delle imprese a livello internazionale. Per far fronte alla diminuzione della liquidità e poter continuare a finanziare le loro attività le imprese stanno indebitandosi, soprattutto con le banche. Si accentuano, quindi, due tendenze dell’economia mondiale. Da una parte, cresce il debito delle imprese mentre, dall’altra parte, si creano potenziali rischi per le banche davanti alla possibilità che il fallimento delle imprese porti a nuovi crediti inesigibili (NPL), che andranno ad aggiungersi a quelli che le banche si trascinano ancora dietro dalla crisi del 2008-2009.
Secondo una stima del rapporto sul debito corporate di Janus Henderson Investors, che prende in esame i bilanci delle 900 maggiori società non finanziarie per capitalizzazione, il debito societario crescerà nel 2020 di 1.000 miliardi di dollari1. Solo nei primi mesi del 2020 le società inserite nell’indice hanno preso a prestito sui mercati obbligazionari ben 384 miliardi e dalle banche una cifra analoga. È da notare che i prestiti non sono stati contratti per fare nuovi investimenti ma per assicurare la sopravvivenza delle imprese. Infatti, nel secondo trimestre mentre i prestiti per investimenti sono diminuiti del 40% quelli finalizzati alla gestione corrente sono aumentati del 70%. L’accesso ai prestiti è stato favorito dalla politica monetaria espansiva delle banche centrali che hanno reso conveniente ricorrere ai prestiti, sia obbligazionari sia bancari. Non si tratta di una novità. Infatti, negli ultimi anni il debito corporate è andato crescendo attestandosi a fine 2019 alla cifra record di 8.300 miliardi di dollari. Ma ora, con la crisi del Covid-19, questo record verrà nettamente battuto. L’intervento massiccio delle banche centrali con l’acquisto massiccio di titoli societari punta a stabilizzare il mercato obbligazionario e a minimizzare l’impatto di una ondata di declassamenti del rating e soprattutto a ridurre il rischio di una raffica di insolvenze, dovute alla crisi.
Una tale eventualità è tutt’altro che remota. Infatti, negli Usa ben 3.600 società nel primo semestre sono fallite e hanno portato i libri in tribunale secondo le procedure previste dal Chapter 11. Quest’anno negli Usa ci sarà un numero di mega fallimenti, quelli che riguardano società con un indebitamento pari o superiore a un miliardo di dollari, che supererà il record stabilito durante la crisi del 2008. Tra le società che sono fallite ci sono nomi noti, come Pizza Hut, mentre catene come Starbuck’s hanno annunciato la chiusura di centinaia di negozi in tutti gli Stati Uniti. Le imprese commerciali statunitensi che chiuderanno nel 2020 saranno tra le 20mila e le 25mila. Per tornare ai livelli pre Covid-10 ci vorranno almeno due anni, secondo gli analisti di e-Marketer.
La pandemia è intervenuta in un contesto già problematico: l’ultimo decennio di tassi d’interesse bassi aveva spinto molte aziende a indebitarsi enormemente. Di conseguenza elevati livelli di debito, unitamente al crollo dei ricavi causato dal lockdown, sta provocando una ondata di chiusure senza precedenti.
I fallimenti delle aziende, che sono già molto indebitate, rischiano di trascinare nella crisi anche il settore bancario che aveva erogato quei finanziamenti che sta di nuovo erogando massicciamente. In previsione delle potenziali perdite e della crescita dei prestiti in sofferenza determinati dalla crisi, le banche statunitensi stanno facendo grandi accantonamenti. Gli accantonamenti delle prime sei banche Usa sono stati superiori alle previsioni degli analisti. Un chiaro segnale di quanto grave sia la situazione. Del resto, le parole dell’amministratore delegato di JP Morgan, la più grande banca degli Usa, sono estremamente chiare: “Esiste molta incertezza sul cammino dell’economia. Questa non è una normale recessione, la parte recessiva la dobbiamo ancora vedere.”2 Le nuove riserve hanno avuto un impatto anche sui profitti delle maggiori banche. Quelli di JP Morgan sono caduti del 51%, quelli di Citigroup del 73%, mentre Wells Fargo fa registrare la prima perdita in oltre un decennio.
L’Italia presenta un indebitamento minore delle sue imprese (9% sul totale Europa, escluso il Regno Unito) rispetto a altri Paesi avanzati, soprattutto rispetto alla Germania (38%) e alla Francia (20%)3. Tuttavia, anche in Italia la situazione sta cambiando, come documenta una recente indagine dell’Istat4. Il calo del fatturato ha coinvolto in Italia oltre la metà delle imprese generando una crisi di liquidità. Ciò ha indotto un mutamento nelle strategie di finanziamento rispetto al periodo precedente alla pandemia. Mentre nel decennio passato c’era stata una tendenza a utilizzare soprattutto l’autofinanziamento, mediante il flusso di cassa generato dalla gestione aziendale, con la crisi circa quattro imprese su cinque hanno cambiato fonte di finanziamento, rivolgendosi all’esterno, soprattutto al credito bancario e, in misura minore, a quello commerciale (rinegoziazione dei contratti di locazione, modifica delle condizioni di pagamento verso fornitori e clienti).
Le imprese che usano l’autofinanziamento, sono passate da circa il 75% al 29,1%, invece le imprese che fanno ricorso al finanziamento bancario sono passate dal 44,2% al 71,4%, quelle che ricorrono al credito commerciale dal 16,8% al 40,9%, infine quelle che fanno ricorso a strumenti finanziari più evoluti (obbligazioni e finanza innovativa) dallo 0,1% al 7%. In particolare, fra le imprese che avevano l’autofinanziamento come unica fonte di sostegno finanziario (il 41,7% del totale), solo un terzo è in grado di continuare ad autofinanziarsi. Il massiccio spostamento dall’autofinanziamento al finanziamento bancario è stato particolarmente rilevante per le imprese più piccole (3-9 dipendenti), ed è stato favorito dalle misure di sostegno al credito (moratoria) e della nuova liquidità sostenuta dalle garanzie pubbliche, previste nei DL 18/2020 e 20/2020.
La crescita del debito delle imprese a livello globale è stata esponenziale. Negli ultimi anni il debito delle 900 maggiori società non finanziarie è passato, sempre secondo Janus Henderson Investors, dai 6.000 miliardi del 2014 ai 9.300 stimati nel 2020. Nello stesso tempo, anche a causa del sostegno dato alle imprese durante la pandemia, è cresciuto anche l’indebitamento statale. Quello dei Paesi avanzati è aumentato di oltre venti punti percentuali rispetto all’anno scorso, arrivando al 120% che è il livello più alto mai registrato, superiore persino a quello raggiunto nel 1946, dopo la Seconda guerra mondiale. La crisi attuale ha prodotto in pochi mesi il debito che le crisi precedenti avevano impiegato venti anni a determinare. Nell’area euro il debito pubblico è passato dall’86% del 2019 al 102,6% previsto per quest’anno. In Italia a maggio il debito ha raggiunto il nuovo record di 2.507,6 miliardi di euro, grazie a un incremento di ben 40,5 miliardi tra maggio e aprile, mentre il fabbisogno cumulato delle amministrazioni pubbliche fra gennaio e maggio 2020 raggiunge i 66,4 miliardi di euro, più del doppio dei 29,6 miliardi dello stesso periodo del 2019.
La crisi del Covid-19 ha accentuato le fragilità di una economia basata sul debito. La crisi è, però, solo agli inizi e sarà da vedere se le imprese che hanno ricevuto i prestiti bancari saranno in grado di restituirli. In caso contrario aumenterà ancora la massa degli NPL e sarà lo Stato a dover intervenire per salvare le banche oltre alle imprese. A questo punto bisognerà vedere se i singoli Stati avranno margini per far fronte all’emergenza, specialmente considerando che molti Stati, tra cui l’Italia, partivano da un debito già molto alto e l’hanno visto crescere ancora a dismisura nell’ultimo periodo. Senza contare che non sembra che la Ue abbia intenzione di intervenire per aiutare chi è maggiormente indebitato e che la responsabilità della sostenibilità del debito pubblico resterà interamente nazionale.
La crisi del Covid-19 ha messo (di nuovo) a nudo la situazione di una economia capitalistica mondiale che si è retta fino ad ora sul debito. In altre parole, è emersa la fragilità interna di un modo di produzione drogato, che non riesce a funzionare senza continue dosi di liquidità pompate dalle banche centrali sia attraverso le banche sia in maniera diretta attraverso acquisti di obbligazioni aziendali e di titoli di Stato.
Fonti:
1 Andrea Franceschi, Senza freni la corsa al debito: mille miliardi in più nel 2020, “il Sole 24 ore”, 15 luglio, 2020.
2 Marco Valsania, JP Morgan & co si preparano alla mareggiata degli Npl, “il Sole 24 ore”, 15 luglio 2020.
3 Dati di Janus Henderson Investors.