Il presidente del Senato e Arianna Meloni vorrebbero che il libro del direttore editoriale del Secolo, Perché l’Italia è di destra, fosse adottato nelle scuole contro le «bugie della sinistra». Una provocazione dal sapore di Minculpop di fronte alla quale i passati tentativi di riscrivere la storia del nostro Paese, dalla Rsi alle Foibe, fanno quasi sorridere.
Marco Fraquelli
«Italo Bocchino ha scritto un libro che mi piacerebbe venisse, se non distribuito, adottato nelle scuole». Ignazio La Russa, seconda carica dello Stato, dixit. E lo ha detto intervenendo alla presentazione di Perché l’Italia è di destra, ultima fatica storico-letteraria del direttore editoriale del Secolo d’Italia, che si è tenuta tra le proteste di alcuni dipendenti alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (dopo la mostra su Tolkien e quella prossima dedicata al Futurismo, ormai sempre più una dépendance della destra governativa). Presente anche il ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara. E proprio al ministro si è rivolto il presidente del Senato: «Non è un libro di opinione ma un manuale (…) Mi piacerebbe che questo libro venisse distribuito nelle scuole, contro le bugie della sinistra, è un libro di verità, pensaci caro ministro (…). So che l’adozione del libri è libera (bontà sua…), la decidono i presidi, ma sarebbe utile una tua moral suasion». A La Russa ha fatto eco immediatamente la Sorella d’Italia Arianna Meloni che con una serie di arditi anacoluti ha sottolineato: «Il libro di Bocchino, se lo distribuiamo nelle scuole facciamo una cosa sana, è una raccolta di dati, una storia vera, non è un libro né fazioso, né di parte, una storia reale, va letto con attenzione».
Il pericolo di “deriva comunista” denunciato da Carlucci e Gelmini nel 2011
Saranno anche provocazioni, ma queste affermazioni un po’ di inquietudine la suscitano (Simona Malpezzi, del Pd, ha citato giustamente il Minculpop). Al confronto altri sgangherati tentativi da parte della destra di intervenire sull’insegnamento scolastico della storia italiana fanno quasi tenerezza. Basti pensare all’iniziativa presa nel 2011 da un gruppo di 18 parlamentari, capitanati da due storiche di vaglia come Gabriella Carlucci e Mariastella Gelmini, che, per arginare la pericolosa deriva comunista dei libri di testo, presentò un disegno di legge per la costituzione di una commissione d’inchiesta sulla loro imparzialità. Si voleva contrastare l’istruzione considerata faziosa, che esaltava figure come quelle di Palmiro Togliatti, definito «un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali», di Enrico Berlinguer, «uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica»; e, addirittura, di De Gasperi, «uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica». Un vero e proprio oltraggio a Silvio Berlusconi.
I passati tentativi di riabilitare la Repubblica di Salò
Altro buco nell’acqua fu la riabilitazione (soprattutto economica) dei repubblichini. La destra ci provò una prima volta nel 2004, quando il governo a trazione Berlusconi-Fini presentò un disegno di legge che aveva per oggetto il riconoscimento della qualifica di belligeranti delle formazioni armate della Rsi. Ma grazie alla mobilitazione di tutte le forze antifasciste, che poterono avvalersi del supporto giuridico di emerite personalità del diritto come Giovanni Conso e Giuliano Vassalli, il dl fu accantonato. Un secondo tentativo fu fatto nel 2008, quando un gruppo di deputati della Camera, capitanati dal socialista e pidiellino Lucio Barani, presentò una proposta di legge per I’Istituzione dell’Ordine del Tricolore e l’adeguamento dei trattamenti pensionistici di guerra, con la quale si individuavano, tra gli aventi diritto, anche i combattenti nelle formazioni dell’esercito nazionale repubblicano durante il biennio 1943-1945; equiparando, di fatto, i partigiani con i combattenti della Repubblica di Salò. Anche in questo caso, la mobilitazione popolare e il parere dei giuristi indusse lo stesso Berlusconi a impegnarsi per il ritiro della proposta. Cosa che avvenne nel 2009. Ma Barani non si diede per vinto, e la ripresentò nel 2010. Senza alcun esito.
La Giornata del Ricordo, un’occasione sprecata
Qualche iniziativa revisionista di successo però la destra l’ha portata a casa. Per esempio la Giornata del Ricordo, istituita – grazie alle forti pressioni di Alleanza nazionale – dalla Legge n. 92 del 30 marzo 2004, peraltro sostenuta anche dagli allora capigruppo dei Ds e della Margherita, Luciano Violante e Willer Bordon, con la quale lo Stato italiano decise di commemorare ufficialmente il ricordo della data simbolo del 10 febbraio 1947, legata alla tragedia delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata avvenuti alla fine della Seconda Guerra mondiale. Per carità, sacrosanto ricordare quella tragedia, ma, forse, una maggiore contestualizzazione storica ne avrebbe consentito una lettura meno smaccatamente politica. Non a caso ancora oggi la ricorrenza è fortemente divisiva. Il dramma degli infoibati e dei profughi, infatti, viene rappresentato (a cominciare dai numeri del tutto ballerini e spesso fantasiosi delle vittime) come una sorta di genocidio, di pulizia etnica nei confronti degli italiani. Senza minimamente tenere conto del clima di rivalsa e di violenta reazione anti-italiana da parte degli jugoslavi dopo le devastanti violenze dell’esercito italiano perpetrate ai danni di partigiani e civili sloveni. Anche in virtù del fatto che nessuno dei protagonisti di quelle violenze fu mai perseguito, disattendendo le aspettative di molti sloveni (ma anche dalmati, croati, istriani) per una doverosa Norimberga italiana.
Il caso del generale Roatta
Basti ricordare che il principale protagonista delle violenze (perpetrate dai militari italiani, prima ancora che fascisti), il generale Mario Roatta, venne sì condannato, ma perché implicato anche nell’omicidio dei fratelli Rosselli, e comunque riuscì a fuggire nella Spagna franchista grazie alla complicità dei Carabinieri e del Vaticano. Non solo: amnistiato nel 1946 rientrò in Italia, dove pensò bene di impiantare un servizio segreto clandestino, denominato il Noto servizio – conosciuto anche come “l’Anello” – che ha attraversato la storia italiana almeno fino ai tardi Anni 70, intrecciando la propria attività con le pagine più nere della storia d’Italia, dal golpe di Junio Valerio Borghese alle principali vicende della strategia della tensione, dalla strage di Piazza Fontana a quella di piazza della Loggia, fino al caso Moro. Speriamo che Bocchino non decida di scrivere una monografia sul generale Roatta, perché potremmo ritrovarcelo sui banchi di scuola, scoprendo che in realtà fu un difensore del nostro Paese dai cattivi comunisti jugoslavi.