di Zoltan Zigedy
“Dateci un’organizzazione di rivoluzionari e noi capovolgeremo la Russia!” V. I. Lenin
La sinistra negli Stati Uniti soffre di due malattie che persistentemente ostacolano ogni tentativo di andare oltre il malessere della negatività di internet e il finto attivismo delle petizioni online. Mettendo da parte quelli ancora disperatamente aggrappati al ventre materno del Partito Democratico, i radicali ben intenzionati e seri – giovani e meno giovani – hanno ancora da imparare per unificare e concentrare i comitati, le coalizioni e i nuclei apparentemente illimitati che costituiscono la nostra inadeguata sinistra.
Più dannosa ancora è la fede cieca e priva di fondamento nello spontaneismo. Troppi dei nostri fratelli e delle nostre sorelle credono che l’azione politica, l’organizzazione e il cambiamento arriveranno come nei film dell’orrore hollywoodiani. Le persone usciranno dalle loro case, capiranno il pericolo e si raduneranno per affrontare la minaccia aliena. Il pericolo unito all’interesse personale servirà a generare una spontanea resistenza comune e una risposta comune. Adatto alla finzione per l’intrattenimento, raramente, quando mai, accade nella vita reale.
Il movimento Occupy è stato l’ultima iterazione di questa fede. I fatti hanno dimostrato che il concetto di organizzazione e governance spontanea è esaurito, lasciando a malapena traccia della sua precedente esistenza. Decenni prima di Occupy, la cosiddetta Nuova Sinistra ha lasciato che fosse la spontaneità a determinare il suo destino. I programmi, i partiti, le priorità, ecc, venivano evitati: il “Movimento ” avrebbe trovato la propria strada. Oracoli di quel pensiero errato hanno poi fatto carriere come professori universitari, professionisti e dirigenti del Partito Democratico.
Nello specchietto retrovisore degli storici borghesi, i movimenti politici sono raffigurati come moti spontanei: istanze a combustione spontanea, innescate da un affronto particolarmente ostile o da un atto particolarmente violento. La ribellione coloniale degli Stati Uniti contro i britannici è stata “innescata” dal Boston Tea Party o dagli scontri di Lexington e Concord: un’analisi che non tiene conto dei dibattiti, delle lotte e della pianificazione svolti per anni dai Figli della Libertà e da altre organizzazioni di resistenza in continua evoluzione. Allo stesso modo, la storia popolare vede il movimento per i diritti civili come uno scoppio di attivismo acceso dal coraggio di Rosa Parks e canalizzato dai cani poliziotto e dai canoni ad acqua. I decenni di resistenza organizzata e pianificata che hanno reso possibile quel momento sono in gran parte ignorati.
La fede nella lotta spontanea, la fiducia in un confronto istintivo e automatico con il potere, genera inazione. Se gli oppressi e gli sfruttati si schiereranno infallibilmente per resistere, non vi è alcuna necessità di organizzarli e mobilitarli; troveranno la loro strada senza l’aiuto indesiderato di organizzatori e agitatori. I rivoluzionari di professione cerchino altri lavori, dovranno semplicemente aggiungersi al “movimento” quando si presenti il momento magico.
Una conclusione logica della fede nello spontaneismo è la nozione pericolosa e distruttiva del “tanto peggio, tanto meglio”. Quando il dolore si farà sentire abbastanza forte, le masse sorgeranno, fino ad allora incontriamo per le nostre diverse e numerose cause, inviando assegni, firmando petizioni e rassicurandoci che senza dubbio qualcosa di grande scoppierà.
Tra i marxisti, il culto della spontaneità prende la forma di ciò che Lenin ha chiamato “economicismo”. Riconoscendo solo le condizioni oggettive, le operazioni invisibili delle leggi dello sviluppo capitalistico, la tendenza del capitalismo a entrare in crisi e l’immiserimento del proletariato, “questi marxisti” non vedono l’importanza della mobilitazione e dell’organizzazione e non vedono la necessità di un partito di rivoluzionari. Invece, contano sull’ineluttabilità opprimente di un grezzo determinismo.
I marxisti (e i dirigenti sindacali) che cadono nella trappola dell'”economicismo” invariabilmente seppelliscono il principio marxista della lotta di classe nella gestione quotidiana, del sindacalismo. Scrivendo dei marxisti “economisti” del suo tempo, Lenin ha sostenuto che essi “pervertivano la coscienza socialista, svilendo il marxismo, predicando la teoria dell’attenuazione degli antagonismi sociali, dichiarando che l’idea della rivoluzione sociale… è insensata, riducendo il movimento operaio e la lotta di classe a un gretto tradunionismo e alla lotta «realista» per piccole riforme graduali. Ciò equivaleva, da parte della democrazia borghese, a negare il diritto all’indipendenza del socialismo e, quindi, il suo diritto all’esistenza; ciò significava, in pratica, sforzarsi di trasformare il movimento operaio, ai suoi albori, in un’appendice del movimento liberale”. (V.I. Lenin, Che Fare?)
La fede nello spontaneismo sminuisce la politica. Né la volgare credenza che il dolore farà nascere azioni né la “sofisticata” e distorta pretesa marxista che leggi oggettive porteranno inesorabilmente al cambiamento sono sostenute da prove storiche. La coscienza, la pianificazione, l’organizzazione e lo sforzo collettivo di gruppi organizzati fanno la storia.
“Se soltanto avessimo un Lenin, un Martin Luther King, un Ralph Nader, ecc…”
Un malessere diverso, ma strettamente connesso al primo, frena l’azione politica della sinistra statunitense: la sindrome del cavaliere salvifico. Come per la spontaneità, pospone l’azione fino a all’evento sconosciuto e inatteso; sostituisce l’azione pianificata con la fede.
Molte persone di sinistra sono paralizzate dall’inerzia nella loro attesa del prossimo grande emancipatore o super-star politica. Questa variante del culto della celebrità è alimentata dalla breve apparizione fin troppo comune di personaggi sulla ribalta politica che non lasciano nessun movimento o organizzazione durevole. Le campagne nelle elezioni primarie del Partito Democratico del 1984 e del 1988 di Jesse Jackson sono degli esempi. Jackson proponeva la piattaforma del Partito Democratico più progressista dagli anni del New Deal. Nella prima battaglia delle primarie, conquistava quasi il 20% del voto popolare. Ripresentatosi nel 1988, si affermava come il candidato con maggior possibilità di successo dopo aver comodamente vinto le importanti primarie nello stato del Michigan e finendo la campagna più che raddoppiando il precedente esito elettorale, avendo conquistato 11 stati.
E poi andò, scomparve dalla scena politica del Partito Democratico, non lasciando dietro di sé né un movimento né un lascito politico. Entro il 1992, il partito si era spostato definitivamente a destra per abbracciare Bill Clinton del centro-destra. E 25 anni dopo, l’ala progressista del Partito attende pazientemente e con speranza che arrivi un’altra celebrità in armatura su un potente destriero!
Allo stesso modo, le campagne presidenziali di Nader hanno attirato molto interesse sul partito dei Verdi. Ma al sempre zelante Nader interessava poco costruire un partito. Sebbene fosse una persona seria, si allontanò, lasciando ad altri il compito di tentare di costruire un partito politico capace di crescere col tempo, sulla base della buona volontà lasciata dopo le sue sconfitte. Fortunatamente, il più recente candidato del Partito Verde, Jill Stein, ha una comprensione più sviluppata della teoria politica. Quello che gli manca in celebrità è più che compensato dal suo acume organizzativo e dalla capacità di analisi storica. Il suo innovativo e intelligente concetto di governo “ombra” è particolarmente interessante.
Ma non è solo colpa di Jackson e Nader – due candidati di buone intenzioni – se queste campagne con candidati celebri si sono eclissate alla velocità di una cometa. Piuttosto, è l’ingenuità della sinistra che non è riuscita a vedere oltre l’immediatezza di questi eventi politici, che non sentiva alcuna urgenza di subordinare la possibilità altamente improbabile di una vittoria elettorale alla necessità di lasciare qualcosa di permanente su cui costruire.
Dietro la sindrome del cavaliere dall’armatura scintillante troviamo una lettura della storia basata sul Grande Uomo (o Donna): grandi eventi sono opera di grandi personalità. Ad esempio, i faraoni costruirono le piramidi (Tutto da soli ? Per parafrasare Bertolt Brecht). Le masse sono semplicemente strumenti servizievoli di menti superiori e leader di talento. Lenin chiama questo approccio la “maniera Ilovajskij”, riferendosi all’autore di molti libri di testo russi che videro la storia russa esclusivamente come opera di zar e generali.
L’espressione politica di ciò nella Russia di Lenin era rappresentata dai norodniks che si consideravano i salvatori dei contadini. Intellettuali della classe media impressionati dalle proprie abilità superiori, i norodniks “avevano colonizzato” la società contadina, per impiantare chirurgicamente in essa i grandi leader che a loro avviso mancavano. Nelle parole dello scrittore sovietico V.P. Filatov, credevano “che solo «gli eroi» potevano fare la storia” e che erano questi gli unici capaci a trasformare “la folla in un popolo”.
Aggiungendo “l’elemento cosciente”
Gli scritti di Lenin dimostrano che non vi è nulla di nuovo o di notevole nella falsa ideologia della spontaneità. Inoltre, possiamo imparare dalla conclusione di Lenin: “che ogni sottomissione del movimento operaio alla spontaneità, ogni menomazione della funzione dell’elemento cosciente, significa di per sé – non importa lo si voglia o no – un rafforzamento dell’influenza dell’ideologia borghese sugli operai“. (V.I. Lenin, Che fare?) In altre parole, solo l’attenzione all'”elemento cosciente” è in grado di portare avanti la nostra causa oltre il falso percorso della spontaneità.
Ma che significato attribuisce Lenin all'”elemento cosciente”?
Andare avanti dipende da una corretta valutazione di ciò che ostacola il nostro progresso. Richiede una conoscenza delle idee essenziali per sfidare con successo il potere. Richiede un’ideologia. Richiede inoltre, che l’ideologia deve essere radicalmente diversa dall’ideologia delle forze che resistono al cambiamento. Né si può scendere a compromessi con l’ideologia nemica. Si tratta quindi, di una coscienza rivoluzionaria.
Ma la coscienza rivoluzionaria deve essere convertita in coscienza rivoluzionaria di massa. Per questo abbiamo bisogno di un’organizzazione. Perché la sua missione è quella di portare l’ideologia di cambiamento rivoluzionario a coloro che più ne hanno bisogno e che sarebbero maggiormente in grado di metterla a frutto: una tale organizzazione viene definita un’avanguardia. E’ l’idea di un’avanguardia che ci permette di avanzare oltre l’illusione della spontaneità.
Gli oppositori del leninismo tacciano l’idea di avanguardia come elitaria, l’idea che un gruppo scelto di rivoluzionari sappia più delle masse. Non è nulla del genere. Anzi, un’avanguardia è la cinghia di trasmissione di idee che non emergeranno e non possano emergere spontaneamente all’interno della classe operaia o di un più ampio movimento.
Nei nostri tempi, l’ideologia di resistenza è decisamente e necessariamente anticapitalista. Ma questo non è sufficiente. Un’ideologia rivoluzionaria deve offrire un’alternativa al capitalismo, un’alternativa che non sia né estetica né irreale. Tale alternativa è il socialismo.
Le illusioni popolari abbondano: la regolazione [dei mercati] può dissuadere le multinazionali dall’accumulazione rapace e dalla dominazione; le piccole imprese e le cooperative “sociali” possono erodere l’inaudito potere politico ed economico delle imprese monopolistiche. Tali idee sono lontane anni luce dalla credibilità ideologica. Solo il socialismo – l’eliminazione del processo di accumulazione privata attraverso lo sfruttamento del lavoro – dimostra tale credibilità.
E chi deve consegnare il messaggio del socialismo, cioè, chi deve essere missionario dell’ideologia rivoluzionaria?
La risposta è oggi come lo era ai tempi di Lenin: un’organizzazione dedicata soprattutto a questo compito; un’organizzazione sgombra dal feticcio delle elezioni borghesi; un partito di rivoluzionari; un partito comunista.
03/09/2013
Traduzione per Resistenze.org