«Le ratlines non funzionano solo in uscita, consentono pure di rientrare nelle stive della nave, a rosicchiarne subdolamente le scorte…»
Una straordinaria e meticolosa ricerca sul fenomeno Wikipedia fatta dal gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki in cui si entra nei meandri della comuicazione e del sapere (diffuso). Una ricerca che rimarca compiutamente quanto sollevato da noi in Dens dŏlens 212 – …fidarsi di WikiPedia? , del 18 mar 2016, in cui ci ponevamo questa domanda: “…ci si è mai chiesti chi siano i “filtri” di questa mastodontica realtà?”
MOWA
di Nicoletta Bourbaki *
INDICE
Prima parte
1. Introduzione
2. La livella della violenza
2a. I fatti di Sarzana
2b. Giancarlo Puecher Passavalli
2c. Enrico Adami Rossi, l’incensamento
3. Negare sempre! ovvero: la mossa del cavillo
4. Viva la muerte!
4a. Robert Brasillach
4b. Giuseppe Solaro
4c. Piero Calamandrei
1. Introduzione
Quando la nave affonda i ratti fuggono, di solito lungo le ratlines, ovvero le corde che tengono insieme le sartie a formare le caratteristiche scalette sugli alberi dei velieri. Nel 1945 le ratlines si estesero così tanto da attraversare l’Atlantico, collegando la nave in fiamme della vecchia Europa con la capace scialuppa sudamericana, rendendosi invisibili grazie ai benevoli guardiani dello status quo. Alti ecclesiastici, addetti al controspionaggio, autorità militari e civili tracciarono quelle linee con l’inchiostro simpatico attraverso l’oceano, ma soprattutto attraverso le coscienze e la giustizia dell’Europa appena liberata. Furono così garantiti percorsi protetti per la fuga di molti criminali nazifascisti e collaborazionisti – i topi di fogna insomma –, genìa sempre utile al potere.
Le ratlines non funzionano solo in uscita, consentono pure di rientrare nelle stive della nave, a rosicchiarne subdolamente le scorte, impestandole di germi e tossine…
Alla voce Ratline su it.wiki (la versione nella lingua italiana di Wikipedia) leggiamo:
«Il termine di lingua inglese ratline […], indicherebbe, nel mondo anglosassone, l’ultimo rifugio sicuro dei ratti durante un naufragio prima di essere inghiottiti dalle acque. Partendo da questa supposizione, i servizi segreti americani utilizzarono il termine ratline per riferirsi ad un sistema di vie di fuga dall’Europa ideato per nazisti e fascisti alla fine della seconda guerra mondiale. Esse si dirigevano verso il Sudamerica (in particolare Argentina, Paraguay, Brasile, Uruguay, Cile e Bolivia). In altri casi i fuggiaschi si diressero verso gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, il Canada e il Medio Oriente. Le fughe principalmente erano organizzate dalla Germania alla Spagna per poi passare in Argentina; e la seconda dalla Germania a Roma, poi Genova ed infine il Sudamerica.»
Trentadue mesi fa, l’incipit della voce era leggermente diverso. Vi si parlava di criminali che riuscirono a scappare. Poi, il 5 maggio 2014, dalla voce passa l’utente di Wikipedia che si firma Jose Antonio. Ed ecco che i criminali diventano, più asetticamente, fuggiaschi.
Una modifica lieve, quasi impercettibile. Fra tutti i liquami di cui parleremo in questo articolo, si tratta forse del caso più ridicolo, ma è proprio la sua irrilevanza a rendere la modifica subliminale e a farla filtrare ai controlli. Un dettaglio insignificante, che però illumina un certo modo di agire e un certo percorso. In un certo senso, anche nei meandri di Wikipedia esistono, per chi le conosce bene e le sa utilizzare, ratlines attraverso cui qualcuno corre impunito, infettando i contenuti dell’Enciclopedia libera.
Chi ha posto attenzione, anche occasionalmente o di sfuggita, a come la storia italiana del Novecento venga trattata su Wikipedia, non può non essersi imbattuto nell’alacre attivismo dell’utente che si firma «Jose Antonio». L’elenco dei suoi contributi è impressionante: anche restringendo il campo alle sole voci che ha creato, quindi escludendo i suoi numerosissimi interventi in voci già esistenti, ecco cosa si ottiene.
Non c’è in pratica voce relativa a fascismo o fascisti dove non sia passato Jose Antonio, e non si contano gli schizzi di fango che ha lasciato nelle voci dedicate all’antifascismo e agli antifascisti.
José Antonio Primo de Rivera in una vignetta d’epoca. Non abbiamo usato il termine «caricatura» perché il disegno mostra il personaggio e il contesto in cui agì senza particolari distorsioni (se non il naso più pronunciato)
Un indizio non da poco sulla passione di questo utente per il nostalgicume fascista, e sulla sua avversione alla resistenza al nazifascismo, sta già nella scelta del nickname: «Jose Antonio» è infatti un chiaro richiamo a José Antonio Primo de Rivera, fondatore e capo della Falange Española. Formazione che si autodefiniva nazionalsindacalista, il suo obiettivo era la costituzione di uno stato di ispirazione fascista in Spagna, totalitario e fondato sul corporativismo. Nelle voci presenti su it.wiki relative alla Falange Española sono molti gli edit di Jose Antonio; in questo post verranno presi in considerazione solo dopo aver dato conto di altri casi in cui le sue modifiche hanno inquinato l’Enciclopedia libera. Al centro della scena merita di essere portato per gradi.
Jose Antonio, naturalmente, non agisce «in solitaria». Sono diversi gli utenti con cui interagisce nel costruire, modificare e – soprattutto – presidiare un cluster di voci “sensibili”. Nel concentrarci su di lui, come già ci concentrammo su Presbite, non vogliamo fare dell’eccezionalismo o personalizzare il problema del revisionismo storico e del negazionismo sui crimini di guerra italiani – quando non della vera e propria propaganda fascista – su Wikipedia.
Lasciamo pure che Jose Antonio si lamenti, come ha già fatto in passato, del «dossieraggio stile Brigate Rosse». Quello che fa Nicoletta Bourbaki sin dall’inizio della sua inchiesta è mostrare le strategie, le tattiche, le retoriche di un certo modo di fare revisionismo storico. Parafrasando Michel Foucault, potremmo dire che per noi il problema non è di descrivere Jose Antonio, né di presentare ciò che egli ha detto o voluto dire: cerchiamo semplicemente di scoprire le tecniche con le quali egli (non già egli solo, e neppure egli da solo) ha vandalizzato un certo numero di voci wikipediane.
2. La livella della violenza
L’utente Jose Antonio con i suoi edit palesa chiaramente la sua visione dello scontro che, tra il 1919 e il 1945, contrappose gli antifascisti ai fascisti. Una narrazione, la sua, in cui le violenze dei secondi vengono sempre rappresentate, quando proprio non si possono sottacere, come reazione a scopo di autodifesa o di giustificata rappresaglia. Hanno sempre già cominciato i «rossi»; i bravi patrioti in camicia nera o si difendono, o reagiscono spinti dall’indignazione e da giusta ira di fronte alle intollerabili violenze dei bolscevichi. E se non sono esclusivamente i rossi a contrapporsi armi in pugno ai nazifascisti, nelle pagine di it.wiki si può lavorare facendo in modo che la responsabilità delle violenze nazifasciste, anche quando colpiscono la popolazione o personaggi non etichettabili come «comunisti», vadano imputate alle scelte della precisa parte politica che animò, oltre a esserne stata la parte quantitativamente più consistente, la resistenza.
Questa strategia, che chiameremo la «livella della violenza», cancella aggressori e aggrediti, ne fa due variabili e permette di definire questi ruoli – o almeno di sfumarli – a piacimento, allargando o restringendo a seconda della convenienza il campo della contestualizzazione dei fatti di volta in volta presi in considerazione.
L’efficacia di questa strategia, tra l’altro, poggia in parte su una certa retorica (e storiografia) resistenziale, secondo la quale i partigiani, come gli eroi della nota canzone, «sono tutti giovani e belli». Gioco facile, per i revisionisti à la Jose Antonio, rimarcare ogni volta che ne capiti l’occasione che i partigiani i fascisti e i nazisti li ammazzavano, combattendo la loro guerra fino in fondo. Una pratica mutuata dai maître à penser del «senso comune post-antifascista» (cfr. Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004): i Pansa e i Vespa. I volumi di questi ultimi stanno accanto alla tastiera del pc dei wikirevisionisti e rappresentano le fonti spendibili nell’Enciclopedia libera, niente più che «pezze d’appoggio» dietro cui si celano, come vedremo, fonti pescate direttamente dall’acquitrino della memorialistica repubblichina e del revisionismo impresentabile che ha come nume tutelare Ernst Nolte.
La differenza essenziale che la livella della violenza offusca è bene ribadirla qui – niente di nuovo, si badi – una volta ancora: partigiani e partigiane le armi le impugnarono per non dovervi poi più far ricorso e non, come i fascisti, per costruire una società fondata sul culto della guerra e della violenza. L’apologia e l’esaltazione della violenza erano insite nel fascismo, fin dalla fase dello squadrismo. Il numero delle vittime della violenza squadrista nel periodo che va dalla fine del 1920 a tutto il 1921 – la fase in cui all’originario nucleo interventista subentrò nelle «squadre» delle camicie nere una nuova generazione di giovani decisamente più inclini al ricorso alla violenza – certificano questo assunto; stando ai dati riportati nel volume di Mimmo Franzinelli Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista, 1919-1922, (Mondadori, Milano 2003), solo fra i socialisti, non considerando quindi le vittime degli squadristi che non erano collocabili in un’area politica precisa, nel 1920 ci furono 172 vittime e 578 feriti, nel 1921 41 morti e 123 feriti.
I meri numeri possono ingenerare fraintendimenti, i morti dalla parte fascista non mancarono, la differenza è però sostanziale ed emerge in maniera chiara dalle parole di Roberto Farinacci nel suo Storia della rivoluzione fascista (1937), che individuava nella rappresaglia il tratto distintivo dello squadrismo e così ne descrive lo schema di funzionamento: «Uccisione proditoria di un fascista, rappresaglia dei fascisti, funerali solenni del caduto, conflitto durante i funerali, nuove rappresaglie.»
Rimarcare i singoli episodi di violenza imputabili agli antifascisti e ai partigiani, farne elemento cardine della narrazione di quella che fu al contempo guerra di liberazione, guerra civile e guerra di classe, a nulla serve se non a mistificare la complessità e reintrodurre l’argomento capzioso, già messo alla berlina da Claudio Pavone, di una minoranza di fascisti militanti a cui si oppose solo una minoranza di partigiani combattenti, due fazioni che combattevano sulla testa del buono e inerme popolo italiano: tutti colpevoli, nessun colpevole.
Così la raccontano i Jose Antonio, epigoni del revisionismo tipico dei fascisti impenitenti alla Giorgio Pisanò: relativizzando i crimini fascisti e assolutizzando le presunte colpe della guerra di resistenza, dando particolare rilevanza al dispositivo della rappresaglia, inquadrato forzatamente nell’ottica dell’irresponsabilità da parte dei resistenti nei confronti della popolazione. Un caso da manuale di questa pratica è analizzato nel post Un paese di “mandolinisti”. Wikipedia, i falsi storici su via Rasella e il giustificazionismo sulle Fosse Ardeatine.
Relativizzare e confondere il contesto, spesso ricorrendo all’uso di libri pubblicati da nostalgici repubblichini ed editi da sconosciute case editrici, è la tattica attraverso cui mettere all’opera la strategia della livella della violenza.
Su questa linea d’azione, per stare all’inizio del 2017, Jose Antonio ha apportato alcune modifiche alla voce Resistenza vicentina inserendo in bibliografia (e utilizzando come fonte) il libro 600 giorni di storia della Repubblica Sociale Italiana a Vicenza, edito dalla prestigiosa tipografia Grafiche DIPRO di tale Fabrizio Scabio, che dal 2014 si fregia del distintivo d’onore della X Mas e ha presentato il suo libro nel febbraio 2015 presso la sede di Forza Nuova Vicenza. Jose Antonio ha usato lo stesso libro per il suo massiccio intervento nella voce Ubaldo degli Uberti, in questo caso per implementare la «sottoenciclopedia repubblichina» in it.wiki.
25 febbraio 2015, Scabio presenta il suo libro nella tricoloruta e non affollatissima sede di Forza Nuova Vicenza
È bene a questo punto riportare nel dettaglio alcuni esempi degli interventi di Jose Antonio e del suo ricorso alla livella della violenza. Presentiamo quindi l’analisi di tre voci: la prima si riferisce al periodo dello squadrismo ed è quella intitolata Fatti di Sarzana, mentre la seconda e la terza sono dedicate a Giancarlo Puecher Passavalli ed Enrico Adami Rossi, dunque a fatti risalenti al periodo resistenziale.
1a. I fatti di Sarzana
La cittadina di Sarzana si trovò nell’estate del 1921 a essere l’unico centro della Lunigiana amministrato dai socialisti, mentre le rappresaglie «antisovversive» degli squadristi, irraggiandosi da Massa e Carrara, investivano le campagne e i centri minori.
Una prima spedizione da parte degli squadristi colpì Sarzana nel mese di giugno, a metà luglio ne seguì una seconda che incontrò la pronta reazione della popolazione e l’arresto di Renato Ricci, ex-legionario fiumano e leader del fascismo apuano, e di una decina di suoi camerati. Questa fu l’occasione per far convergere sulla cittadina, il 20 luglio, una colonna di circa cinquecento squadristi – guidati dal futuro assassino di Matteotti Amerigo Dumini – con lo scopo di liberare gli arrestati e prendere definitivamente il controllo della stessa Sarzana. Ne seguì un fronteggiamento tra una parte degli squadristi e i carabinieri, finché un primo colpo d’arma da fuoco diede il via a un duro scontro che vide il coinvolgimento della popolazione e degli Arditi del popolo, inizialmente all’interno del centro cittadino, per poi estendersi alla campagna circostante.
Se le rappresaglie fasciste – a detta del fascistissimo Farinacci – furono «la caratteristica predominante dell’azione squadrista», l’episodio di Sarzana rappresentò quasi un unicum. Per questa ragione lo scontro sulla narrazione di quell’episodio non si placa e si può trovare condensato nell’evoluzione della voce su it.wiki dedicata a quei fatti.
Nella voce I fatti di Sarzana sono registrati innumerevoli edit di Jose Antonio, a partire dal 24 ottobre 2009. La voce si riferisce agli scontri tra squadristi e carabinieri del regio esercito avvenuti nell’estate del 1921, quando i primi tentarono l’assalto al carcere della città nel tentativo di liberare dei camerati ivi imprigionati, a cui seguirono scontri con gli Arditi del popolo e con la popolazione, in particolare con contadini nei dintorni di Sarzana.
Già il colpo d’occhio fra la versione della voce prima degli edit di Jose Antonio e l’attuale è illuminante. Il paragrafo introduttivo sul contesto storico dei fatti subisce un completo ribaltamento: se prima del passaggio di Jose Antonio erano riportate le difficoltà fasciste a radicarsi nella Lunigiana, in particolare a Sarzana, e ci si soffermava sulle violenze da parte di questi per prendere il controllo della zona, oggi il focus è incentrato sulla diffusa presenza socialista e anarchica, a suggerire che le azioni fasciste fossero giustificate e necessarie per normalizzare una situazione di sovversivismo diffuso.
Fin dalla prima serie di edit firmati da Jose Antonio nella voce si evidenzia il suo obiettivo, in particolar modo, tra i tanti (vedere qui e qui), con la modifica dei titoli di due sezioni della voce: «Fascisti uccisi a Sarzana» viene modificato in «I caduti di Sarzana», mentre «I contadini di Sarzana si ribellano ai fascisti» in «La strage nei campi» (qui). A questi si aggiunge una modifica altrettanto significativa nel corpo della voce: da resistenza armata all’ascesa del fascismo l’episodio viene derubricato a scontro armato tra fascisti e militari del regio esercito, braccio armato del potere liberale.
Una narrazione della vicenda, questa di Jose Antonio, che nulla ha di nuovo, se già con la presa del potere il fascismo, come scrive sempre Mimmo Franzinelli,
«fece di Sarzana il luogo della memoria dolente e vittimistica dello squadrismo, simboleggiante l’eroismo patriottico contrapposto alla barbarie rossa. […] Trasfigurata dalla cronaca alla mitologia, con un disinvolto rovesciamento della realtà, la cittadina ligure simboleggiò la redenzione nazionale nei tempi oscuri del dominio bolscevico e dell’infido regime liberale. Gli aggressori furono tramutati in vittime sacrificali, offertisi in olocausto per la costruzione della nuova Italia.»
Se si segue la cronologia degli edit di Jose Antonio nella voce dal 2010 in avanti, non ve n’è uno che non sia facilmente inquadrabile nel tentativo di rivitalizzare questo mito originario del fascismo, così ben descritto in poche frasi da Franzinelli.
A rinforzo, nella cronologia della voce, altri utenti come Barbicone e Bramfab, attivi in altre voci, come quella Squadrismo, che risentono della medesima impostazione sulle origini del fascismo. Sono utenti che, come Jose Antonio, dovrebbero conoscere il testo di Franzinelli, dato che sovente lo utilizzano come fonte, anche se in modo completamente strumentale al loro POV (nel lessico wikipediano point-of-view, il proprio punto di vista) ed estrapolando in maniera scorretta informazioni senza tener minimamente conto dell’inquadramento generale dello squadrismo che è uno dei meriti più importanti del volume di Franzinelli. In pratica, si cita Franzinelli per rivestire di oggettività affermazioni che sono espressione diretta del più bieco revisionismo di marca neofascista.
Nella voce Fatti di Sarzana si trovano diversi esempi in cui il testo Squadristi è volutamente travisato da Jose Antonio. In una modifica del 18 febbraio 2010 Jose Antonio scrive:
«Lungo il percorso avvennero degli scontri nel corso dei quali gli squadristi uccisero un contadino. Due giovani squadristi spezzini, Amedeo Maiani e Augusto Bisagno, staccatisi dalla colonna per cercare rinforzi dopo essere stati presi prigionieri, furono mutilati e uccisi. I corpi furono buttati in un dirupo».
La fonte è citata da Jose Antonio, in nota, testualmente come segue: «Mimmo Franzinelli, ‘‘Squadristi’’, Oscar Mondadori, Cles (Tn), 2009, pag. 122.»
Lo storico Mimmo Franzinelli. Il suo libro Squadristi è oggetto di manipolazioni e vere e proprie falsificazioni da parte di Jose Antonio e altri utenti di Wikipedia.
Ma alla pagina indicata nella nota gli scontri non sono citati. Lo storico scrive invece di una «marcia d’avvicinamento» degli squadristi su Sarzana, durante la quale questi «uccisero a fucilate nei pressi di Ameglia un contadino intento al lavoro campestre», particolare che Jose Antonio ha evitato di riportare. Sull’episodio dei «due giovani squadristi spezzini», Franzinelli precisa che erano stati inviati a cercare rinforzi dopo che i fascisti furono obbligati alla difensiva dalla pronta reazione della popolazione alla scorribanda delle camicie nere, riportando sì che una volta catturati furono effettivamente «percossi sanguinosamente, mutilati e infine gettati in un burrone del monte Rocchetta», per poi, alla frase seguente, aggiungere che «L’episodio costituisce il tipico crimine di folla, reazione esacerbata e crudele di comunità locali la cui esistenza veniva sconvolta dal passaggio di gruppi armati».
In due edit distinti (qui e qui), la parafrasi di Jose Antonio del testo di Franzinelli muta un «asseragliati» in «assediati»; ci si riferisce nel passaggio alla ritirata degli squadristi dopo lo scontro con i carabinieri dell’esercito regio, a cui seguirono quelli con la popolazione e con gli Arditi del popolo. Una sfumatura, ma non innocente: se infatti con asserragliare si indica, dal dizionario Treccani, il «chiudere, barricare per impedire l’accesso», l’essere assediati indica il venire circondati ed essere sotto attacco.
La sfumatura qui ribalta i fatti: gli squadristi in fuga su un treno speciale messogli a disposizione dalle autorità, mentre sparavano dai vagoni, divengono bersagli costretti all’autodifesa, quasi degli agnelli. In sintonia con questi edit anche un’altra modifica che vale la pena citare: la colonna fascista se prima del suo arrivo nella cronologia degli edit della voce «imperversava» nelle campagne di Sarzana, dopo il suo passaggio muta in un neutrale «si muoveva».
Una rappresentazione degli squadristi che Jose Antonio ripropone modifica dopo modifica, arrivando ai toni comico-grotteschi di questo edit: «Spaventati dagli spari alcuni fascisti fuggirono dalla stazione cercando rifugio nelle campagne ma qui alcuni furono catturati dai contadini e dagli arditi del popolo».
Non stupisce, anche perché nella riscrittura della voce Jose Antonio, come già visto, per prima cosa aveva modificato i titoli di alcune sezioni che compongono la voce, dando un inquadramento della vicenda aderente a quello che diedero subito dopo i fatti i comandanti delle camicie nere toscane e liguri, una versione che Franzinelli definisce inverosimile e che sintetizza con queste parole: «una pacifica manifestazione politica stroncata nel sangue da un capitano dei carabinieri accordatosi con i caporioni sovversivi».
Per perseguire il suo obiettivo Jose Antonio arriva a citare articoli dell’epoca di quotidiani come Il Tirreno e Il Secolo XIX, oppure la versione fornita da uno squadrista per dar credibilità alle sue modifiche. Interessante anche che Jose Antonio si sia avvalso di documenti provenienti dall’archivio della polizia: soprassedendo sull’espresso divieto a utilizzare «ricerche originali» nelle voci di Wikipedia, verrebbe da pensare che l’utente non lavori da solo e che altri, più usi alle ricerche d’archivio, gli abbiano fornito i riferimenti a questi documenti.
Si potrebbe procedere ancora a lungo riportando altri interventi sui fatti di Sarzana da parte di Jose Antonio, ma prima di chiudere gli va riconosciuto il demerito di essere stato lui ad avere inserito nella voce la versione che vuole che lo scontro tra squadristi e carabinieri prese avvio dopo un primo colpo d’arma da fuoco giunto da «sovversivi» nascosti alle spalle degli squadristi. Una versione (anche) questa che iniziò a circolare negli anni successivi alla presa del potere fascista, quando ogni anno a Sarzana si tenevano celebrazione per i «fascisti caduti» negli scontri, tramutando gli aggressori in vittime sacrificali: «L’imbarazzante quesito su chi – tra fascisti e carabinieri – esplose il primo colpo fu risolto brillantemente, attribuendone la responsabilità ai sovversivi celati tra gli alberi» (M. Franzinelli). Questo tentativo di addossare a spari provenienti da anonimi e non visibili facinorosi l’avvio degli scontri a Sarzana, viene introdotto nella voce da Jose Antonio, che come fonte usa il libro Il tricolore insanguinato, scritto da Riccardo Borrini ed edito da Grafica Ma.ro., specializzata in caccia, pesca e nostalgicume fascista.
Ad oggi la voce appare irrimediabilmente inquinata dalla narrazione tossica fin qui descritta, in futuro potrebbe pure peggiorare se Jose Antonio, cosa che gli è frequente fare, tornerà per tentare di finire il suo lavoro: scorporare la voce e crearne una ad hoc dal titolo Eccidio di Sarzana, così come fece il 21 marzo 2014, adducendo la laconica spiegazione «Nome più usato ed attinente ai fatti», per poi passare immediatamente a riscrivere le righe della sinossi che presenta la voce, a sancire il raggiungimento del totale ribaltamento nell’interpretazione dei fatti. La più estranea ai fatti, ma certamente la versione più diffusa tra e dai fascisti, da quasi un secolo.
In quel caso il tentativo di Jose Antonio fu fermato da alcuni utenti che intervennero nella pagina di discussione.
1b. Giancarlo Puecher Passavalli
Giancarlo Puecher Passavalli. Fucilato dai fascisti a vent’anni dopo un processo-farsa diretto da Sallusti nonno, denigrato decenni dopo da Sallusti nipote. La voce che gli dedica Wikipedia usa Sallusti Jr. come fonte, sminuisce il caduto e la sua scelta, sfuma le responsabilità dei suoi assassini. Il tutto grazie a Jose Antonio.
Giancarlo Puecher Passavalli fu la prima medaglia d’oro al valor militare della resistenza in Lombardia, fucilato dalle milizie repubblichine il 21 dicembre 1943. Di famiglia borghese e di stretta osservanza cattolica, nel luglio 1943 si arruola nell’aeronautica, ma dopo l’8 settembre con lo sfacelo dell’esercito e l’occupazione nazista dell’Italia inizia convintamente a organizzare nella zona tra Lambrugo ed Erba un primo nucleo di partigiani, per poi continuare nelle aree limitrofe la sua azione. La sua casa, dove vive con il padre Giorgio, notaio, diviene un luogo d’incontro e organizzazione della resistenza al nazifascismo nella provincia di Como.
Se si consulta la voce dedicatagli su it.wiki e si passa in rassegna la cronologia degli edit, subito si nota una lunga serie di interventi di Jose Antonio nella voce, più di sessanta edit tra il 10 e il 20 giugno 2010.
Per dar conto dell’evoluzione nel tempo di questa voce dell’Enciclopedia libera, il punto d’ingresso qui scelto risale ad alcuni mesi dopo l’intervento massiccio di Jose Antonio, precisamente al 14 novembre dello stesso anno. In quella giornata compare infatti sul quotidiano Il Fatto un’intervista di Luca Telese ad Alessandro Sallusti, pubblicata col titolo I topi scappano. Per il dopo c’è solo Marina. L’intervista verte su temi di stretta attualità della politica istituzionale; la Marina citata nel titolo, infatti, è la figlia di Silvio Berlusconi e tanto basta. A un certo punto Sallusti regala a Telese uno di quegli aneddoti che fanno gola a chi è interessato principalmente alla visibilità di un pezzo, tanto da pubblicare poi senza nessuna verifica quanto gli viene raccontato. Una «storia di famiglia» che Sallusti presenta come una confidenza: «Vedi, ti devo raccontare una storia della mia vita che nessuno conosce, nemmeno Giampaolo Pansa, neanche Vittorio Feltri». La storia è quella di Biagio Sallusti, nonno dell’intervistato, tenente colonnello dell’esercito repubblichino, che il 20 dicembre 1943 fu incaricato dal prefetto di Como a presiedere il tribunale militare straordinario che condannò a morte Giancarlo Puecher Passavalli. Nelle parole di Sallusti la vicenda viene raccontata così:
«[…] scoprivo che dopo quattro vigliacchi rifiuti dei suoi superiori di grado, perché la Repubblica di Salò era ormai alla fine e i partigiani alle porte, mio nonno aveva accettato di dirigere il tribunale che doveva giudicare Aldo Pucher, partigiano accusato per l’omicidio del federale Aldo Resega. Mio nonno salvò gli altri sei imputati, ma fu fucilato per quell’unica esecuzione.»
Alessandro Sallusti
In sessanta parole, Sallusti infila una serie di affermazioni prive di fondamento, oltre che pesantemente denigratorie della figura di Giancarlo Puecher Passavalli. Innanzitutto storpia il nome di quest’ultimo in «Aldo Pucher»; gli addossa l’accusa dell’omicidio di Aldo Resega («capo del fascismo milanese», dal giugno 1943, passato poi al servizio della repubblica fantoccio di Salò), avvenuto da parte gappista a Milano il 18 dicembre 1943, quando Puecher Passavalli era in stato di arresto già dal 12 novembre 1943; va da sé, infine, che, nel dicembre del 1943, la Repubblica di Salò era agli esordi e lontana dalla sua fine, e la resistenza al nazifascismo ancora in fase embrionale.
Una settimana dopo la pubblicazione di quell’intervista, la nipote di Puecher Passavalli, Orsola Puecher pubblica sul blog Nazione Indiana un post per ribattere alle falsità storiche pronunciate da Sallusti nei confronti del nonno, definendole «un vero e proprio vulnus alla sua memoria e alla sua figura luminosa». Il post porta come titolo una frase estrapolata dalla lettera-testamento di Giancarlo Puecher Passavalli, L’amavo troppo la mia patria non la tradite... Qui di seguito ne riportiamo un estratto, offrendo a Orsola, una volta ancora, la possibilità di «ristabilire la verità», e a lettori e lettrici di questo post di conoscere le reali circostanze che portarono alla fucilazione di Puecher Passavalli:
«Giancarlo Puecher, punto di riferimento di un gruppo di giovani che in Brianza si stavano organizzando in una formazione partigiana ancora in nuce, e che si era macchiata fino allora solo di qualche sabotaggio e sequestro di mezzi e benzina, fu fermato per caso, in bicicletta con il compagno Fucci, da una pattuglia di militi della Repubblica Sociale Italiana a Lezza la notte del 12 novembre del 1943, ad un posto di blocco dei numerosi istituiti insieme al coprifuoco, in seguito al fatto che quella stessa sera erano stati uccisi il centurione della milizia e cassiere del Banco Ambrosiano di Erba, Ugo Pontiggia, e un suo amico, Angelo Pozzoli.
Puecher e Fucci, ignari di tutto e che, forse, se fossero stati a conoscenza dell’omicidio, avrebbero avuto maggiore prudenza, si stavano recando a una riunione clandestina. Avevano un tubo di gelatina e alcuni manifestini antifascisti, di cui però riuscirono, nel buio, a disfarsi. Fucci estrasse la pistola e tentò di sparare, ma l’arma si inceppò. Uno dei miliziani lo colpì ferendolo al ventre. Fu portato in ospedale e rimase in prigione fino alla fine della guerra. Giancarlo fu fermato, interrogato, picchiato e poi arrestato.
Il federale di Milano Aldo Resega, che Sallusti, senza storpiarne il nome, nomina, fu ucciso il 18 dicembre 1943, mentre Giancarlo Puecher era già in prigione e da più di un mese.
Giancarlo Puecher non fu accusato né processato per alcun omicidio.
Quando il 20 dicembre fu ucciso in un agguato anche lo squadrista di Erba Germano Frigerio, i fascisti decisero di mettere in atto una rappresaglia, con modalità tristemente consuete, che prevedeva la fucilazione di trenta antifascisti, dieci per ogni fascista ucciso ad Erba, cioè Ugo Pontiggia, Angelo Pozzoli e Germano Frigerio.
Nelle carceri di Como non trovarono un numero tale di prigionieri e li ridussero a sei, fra cui Giancarlo Puecher. I fascisti imbastirono un processo farsa, istituendo un Tribunale Speciale, presieduto da Biagio Sallusti, e con irregolarità processuali inconcepibili oggi, ma di regola ai tempi, Puecher fu l’unico condannato a morte, mediante fucilazione, non per omicidio, ma per aver promosso, organizzato e comandato una banda armata di sbandati dell’ex esercito allo scopo di sovvertire le istituzioni dello stato.»
L’intervista di Telese a Sallusti arriva come fonte nella voce it.wiki di Giancarlo Puecher Passavalli il 14 novembre 2010, per opera di Jose Antonio. A dispetto dell’arditezza nell’uso delle fonti che caratterizza l’utente, in questo caso Jose Antonio deve limitarsi, viste le abnormità della dichiarazione di Sallusti, a utilizzare l’intervista per riportare nella voce che Biagio Sallusti «ridusse il numero dei morituri che fu fissato alla fine ad uno solo, Giancarlo Puecher».
A questo punto, pur con la vasta bibliografia oggi disponibile sul caso Puecher Passavalli, anche di recente produzione (si veda, ad esempio: Giuseppe Deiana, Nel nome del figlio. La famiglia Puecher nella Resistenza, Mursia, Milano 2013; Samuele Tieghi, “Il fascicolo Puecher”, in Storia in Lombardia, n. 1-2, 2012), è importante incrociare questa affermazione con quanto riportato in un articolo del dicembre 1983, pubblicato su Storia Illustrata e firmato da Giacomo de Antonellis, dal titolo Puecher. Prima Medaglia d’oro della Lombardia.
La ragione di questa scelta è presto detta: parte degli edit di Jose Antonio del giugno 2010, citati sopra, riporta come fonte questo articolo di de Antonellis (a partire da questo edit). Analizzare la corrispondenza tra quanto riportato nell’articolo e quanto riportato in voce da Jose Antonio ci permette di riportare il focus sul suo operato nella voce in it.wiki.
Ebbene, cosa riporta de Antonellis sul conto di Biagio Sallusti nel processo in cui Puecher Passavalli venne condannato a morte?
«A presiedere il tribunale militare straordinario il prefetto metteva il comandante del Distretto, tenente colonnello Biagio Sallusti; altri sei militari completavano i ranghi. […] Il difensore d’ufficio, Gian Franco Beltramini, allibiva: non si conoscevano le accuse contestate, non esisteva flagranza di reato, non competeva giudicare a una corte militare. […] L’avvocato Beltramini rilevava l’assurdità umana e giuridica del processo riuscendo a concordare con il presidente Sallusti un estremo contatto con il prefetto Scassellati. Ultimo compromesso. Niente pena capitale per gli imputati, salvo per uno [Puecher Passavalli N.d.r.]» (pag. 64).
Non poteva essere stato diversamente per un processo-farsa imbastito al solo scopo di dare una parvenza di legalità a un’azione di rappresaglia. Tuttavia, Jose Antonio non ha resistito a perseguire il suo intento: umanizzare un repubblichino, offrirne l’immagine di uomo dotato di cristiana pietas. Un uso inverso della livella della violenza, dato che qui il tentativo è quello di offrire una personalità speculare, nel campo avverso, a quella di Puecher Passavalli. Addirittura arrivando a suggerire tra le righe che lo stesso Puecher Passavalli, per la sua personalità e formazione, fu vittima inconsapevole della sua scelta di aderire alla lotta nazifascista: un idealista, incapace di comprendere che stava facendo il gioco dei comunisti. Versione che Jose Antonio inserisce nella voce riportando le parole di Mario Noseda, maggiore della Guardia nazionale repubblichina a capo di azioni antipartigiane, pescate da Storia della guerra civile in Italia, opera di riferimento del repubblichino e revisionista Pisanò.
Poco importa che Biagio Sallusti sia stato fedele servitore del duce e dei nazisti fino agli ultimi giorni del – mancato – Ridotto della Valtellina. Diversamente, Jose Antonio si è ben guardato dal riportare nella voce la totale infondatezza delle accuse rivolte ai prigionieri passati per il processo, cosa che invece de Antonellis sottolinea, definendole «stupefacenti»:
«[…] al Giudici, per esempio, si rimproverava di aver esposto un ritratto di Matteotti nel lontano 1924; al Grossi addirittura di aver dato ospitalità ad alcuni squadristi dopo il capovolgimento del 25 luglio; per il Cereda non si riusciva a imbastire una qualsiasi imputazione, se non quella generica di antifascismo».
Ma questo è solo il tentativo definitivo di riscrivere la voce da parte di Jose Antonio, che in precedenza aveva lavorato via via allargando la parte dedicata a quella che diventerà, per sua iniziativa, una sezione propria della voce: L’omicidio di Ugo Pontiggia e di Angelo Pozzoli. È in questa parte degli interventi di Jose Antonio che la livella della violenza viene messa in opera, a suggerire che la cattura del tutto casuale di Giancarlo Puecher Passavalli e Franco Fucci fu una conseguenza diretta delle azioni partigiane a danno dei nazifascisti. Si spinge addirittura a riportare la descrizione dell’aggressione subita da parte di Pontiggia, nientepopodimeno che dalle parole pronunciate da quest’ultimo in punto di morte (sic!) e tratte da una testimonianza riportata, ancora, nell’opera di Pisanò.
Più di recente, nel novembre 2015, Jose Antonio scopre che i figli di Ugo Pontiggia sono personaggi noti. Almeno, abbastanza noti da risultare enciclopedici per it.wiki. Così, alla foto di Pontiggia che aveva già inserito nella voce, si affretterà ad annotare nella didascalia l’identità dei figli (qui e qui), subito dopo aver aggiunto un nuovo collegamento: un articoletto da il Giornale, dalle finalità strumentali almeno quanto quelle del Nostro.
Oggi – ahinoi – la voce è ancora profondamente inquinata da questo lungo lavorio di Jose Antonio che, senza vergogna e non trovando argine, ha reso la pagina di un giustiziato per rappresaglia dai nazifascisti valida esclusivamente come esempio dell’uso spregiudicato di quella che abbiamo battezzato «livella della violenza». Imparare a riconoscerla all’opera sarà un piccolissimo riconoscimento alla figura di Giancarlo Puecher Passavalli, in attesa che la voce venga riscritta.
1c. Enrico Adami Rossi e i martiri di Vicchio
Seguendo i rimandi di voce in voce, di edit in edit, l’attività di Jose Antonio nell’Enciclopedia libera riserva sempre sorprese. È così che, novelli «prìncipi di Serendippo», dalla voce dedicata a Nuto Revelli – di cui parleremo più avanti – e seguendo le tracce della famosissima canzone partigiana La badoglieide da lui scritta, siamo arrivati alla voce Enrico Adami Rossi.
Per presentare Adami Rossi vale la pena citare il passaggio che gli è dedicato proprio ne La badoglieide:
Era tuo quell’Adami Rossi
che a Torino sparava ai borghesi;
se durava ancora due mesi
tutti quanti facevi ammazzar.
Nella voce si fa appena accenno alla canzone, in riferimento al verso appena citato. A proposito, facciamo notare un edit di Jose Antonio in cui, con sprezzo del ridicolo, i bersagli polemici della canzone vengono ridotti al solo Badoglio, espungendo «Benito Mussolini, il Re Vittorio Emanuele III». Poco danno, in confronto a quanto emerge se si analizza il resto della voce.
Enrico Adami Rossi fu un generale di corpo d’armata dell’esercito, dal 5 luglio 1943 comandante della difesa territoriale di Torino. Nei 45 giorni di governo Badoglio fece sparare più volte sugli operai torinesi (nella canzone«borghesi» è usato nel senso di civili), mettendo in atto una durissima repressione in ottemperanza a quanto disposto nella circolare Badoglio-Roatta sul mantenimento dell’ordine pubblico.
Il 10 settembre 1943 Adami Rossi ordinò ai propri reparti la deposizione delle armi e la consegna in caserma e, il giorno successivo, la Wehrmacht entrò in città. Adami Rossi si consegnò quindi ai tedeschi, aderì poi alla RSI e, dall’11 novembre, venne nominato comandante della difesa territoriale di Firenze, dove insediò un tribunale militare speciale presieduto dal generale Raffaello Berti.
Fu questo tribunale a condannare alla fucilazione i cosiddetti «martiri del Campo di Marte», quattro renitenti e un militare rifugiatisi a Vicchio del Mugello e catturati da un reparto della GNR fiorentina coadiuvato da una pattuglia della Ettore Muti e da alcune unità tedesche.
I cinque martiri del Campo di Marte, fucilati per non aver risposto al bando di leva della Repubblica di Salò. Si chiamavano Leandro Corona, Ottorino Quiti, Antonio Raddi, Adriano Santoni e Guido Targetti. Il più vecchio aveva ventidue anni.
Nella voce Adami Rossi su it.wiki tutti questi fatti, più o meno, sono presenti, o almeno lo sono stati per certi periodi. Numerosi gli edit del Nostro che, come sappiamo, ha un debole per le biografie di personaggi in odore d’orbace.
Sulla vicenda fiorentina di Campo di Marte, nella voce Enrico Adami Rossi, Jose Antonio torna più volte dal 2011 al 2014. Inizialmente per segnalare che la fucilazione dei cinque avvenne per rappresaglia in seguito «all’uccisione del colonnello Gino Gobbi». Costui era un «collaboratore dei tedeschi nell’opera di persecuzione contro i militari che non si presentano alle armi ed alacre organizzatore del costituendo esercito repubblicano», per citare il volantino dei GAP fiorentini in cui veniva rivendicato l’assassinio.
Successivamente Jose Antonio apporta una modifica sempre in riferimento ai cinque assassinati, che nella versione della voce erano indicati come «partigiani» e vengono invece indicati – correttamente – come «renitenti alla leva». Dopo alcuni minuti da quest’ultimo edit, Jose Antonio interviene nuovamente e inserisce il collegamento alla voce Martiri del Campo di Marte (voce di it.wiki in cui è registrata l’attività di Jose Antonio alla redazione con interventi già nel 2010), e termina questa serie di edit ravvicinati con un riordino/riscrittura della voce in cui integra informazioni su Adami Rossi, sorvolando sull’accusa rivolta a quest’ultimo di aver de facto consegnato Torino ai nazisti.
Nel settembre 2014 la nuova mossa, un edit in cui Jose Antonio in un sol colpo cancella il link alla voce Martiri del Campo di Marte e fa dei renitenti fucilati «cinque comunisti che erano detenuti nelle carceri», annullando le sue stesse modifiche precedenti.
Va ricordato che la struttura di Wikipedia è quella di un ipertesto: intervenire selezionando accuratamente quali collegamenti ad altre voci inserire oppure, come nel caso appena presentato, cancellarne uno presente è un modo d’indirizzare verso un determinato percorso di lettura e di approfondimento; altro che ricerca del punto di vista neutrale, pilastro di Wikipedia. E infatti la stessa comunità di it.wiki non lo limita al solo contenuto testuale di una voce, ma precisa che «si applica anche alla loro struttura, alle immagini, ai link esterni, alle categorie e a ogni altro elemento che coinvolga la voce stessa.»
Nel particolare, ritornando a Jose Antonio, questo caso è buon esempio di come il Nostro non perda occasione per inserire incisi giustificazionisti quando si tratta di commentare qualche nefandezza compiuta dai repubblichini, minimizzando la barbarie della pratica di rappresaglia a cui fecero ampio ricorso nazisti e fascisti, riducendo la resistenza a uno scontro tra fascisti e comunisti, dove i secondi in virtù della loro appartenenza politica sono di per sé colpevoli.
Nella maggior parte dei casi Jose Antonio si muove sulla linea che demarca il lecito e l’illecito per la comunità wikipediana: da utente di lunga data conosce bene l’ambiente di it.wiki, capitalizza il suo altissimo numero di edit in una riconosciuta rispettabilità (dietro cui si cela la necessità da parte del progetto it.wiki di espandersi e quindi di “tutelare” gli utenti più produttivi) che gli garantisce un maggior argine di manovra rispetto a utenti meno attivi, sa valutare tempi e interlocutori con cui si trova a dibattere, regolando su questo la sua linea di condotta. Ma, come vedremo, a forza di lasciare schizzi di fango impunitamente si può perdere il senso della misura…
3. Negare sempre! ovvero: la mossa del cavillo
Rodolfo Graziani
Una strategia tipica di Jose Antonio e di quelli come lui è schiacciare, con fare da azzeccagarbugli, la verità storica sulla verità giudiziaria: l’Italia non ha avuto criminali di guerra né ha commesso crimini di guerra perché non ci sono stati i processi, niente sentenze di condanna. Basta guardare come si muove nelle voci sui crimini di guerra e in particolare come difende la reputazione di Rodolfo Graziani, per Jose Antonio «assolto dall’accusa di crimini di guerra e una accusa non fa un crimine, se sbaglio portare sentenza».
Gli risponde l’utente Stonewall: «L’aspetto legalistico su accuse, difese, sentenze, contraccuse ecc… a mio parere non ha alcun rilievo, le sentenze e i processi non sono la verità, al contrario a volte sono l’opposto e sono opportunamente modulate secondo la convenienza del momento. Storicamente (e giustamente) Graziani viene considerato artefice di guerre repressive e di metodi criminali in Libia e Etiopia».
Al che Jose Antonio replica: «Quindi la sentenza di un tribunale italiano del dopoguerra, se scagiona uno che ti è antipatico, diventa secondaria rispetto il tuo POV?»
Stonewall: «Non è il mio POV è il POV della storiografia mondiale prevalente […]»
Tra gli altri, interviene anche l’utente Franzitsku:
«Quindi Adolf Hitler, mai condannato per i crimini di guerra commessi, automaticamente non sarebbe un criminale di guerra? Se questo è il ragionamento perdonatemi ma mi pare ridicolo, oltre che offensivo per l’intelligenza. Posto che le guerre coloniali hanno avuto per tutti i paesi europei degli aspetti estremamente violenti, e che si, Graziani, come del resto Badoglio, utilizzarono il gas su ordine esplicito del governo, non considerare il suddetto, come del resto i generali Roatta, Pirzio Biroli, e altri loro sottoposti come criminali di guerra è storicamente falso, oltre che molto di parte. E sappiamo di che parte si tratta».
La grottesca discussione si può leggere qui.
4. Viva la muerte!
In un suo celebre vademecum sull’ur-fascismo, Umberto Eco ha scritto che esiste «una componente dalla quale è riconoscibile il fascismo allo stato puro, dovunque si manifesti […]: ed è il culto della morte». Per questa sua conclusione Eco è naturalmente debitore di Furio Jesi, in particolare dell’analisi della mistica fascista della morte contenuta in Cultura di destra. Quella «mitologia funeraria egemonica, totalizzante» che si espresse, durante la guerra civile spagnola, nel «Viva la muerte!» del generale José Millán-Astray y Terreros, così come nella mistica del sacrificio umano dei legionari romeni inviati in Spagna da Codreanu in rappresentanza della Guardia di ferro. Quella «mitologia dell’uccidere e dell’essere uccisi come procedura di accelerazione dell’avvento e della fondazione» del nuovo Reich, che, tramite l’esoterismo di Julius Evola e del suo allievo Adriano Romualdi, nutrì di sé l’ideologia del neofascismo stragista nel dopoguerra italiano.
Fin qui l’analisi di Jesi. Bisogna ammettere che, nella galleria di figure legate al fascismo di cui si è occupato Jose Antonio su Wikipedia, non si trovano molte tracce di una tale «religione della morte», almeno non nella sua forma più radicale. Siamo più vicini a quella comune «retorica militaresca», pure menzionata da Jesi, consistente nell’«apologia dell’eroico morir soldato», che non è solo fascista, anche se il fascismo italiano ne fece largo uso.
Una retorica che comunque Jose Antonio utilizza a scopo giustificatorio, per umanizzare i «martiri» del fascismo e suscitare la simpatia del lettore mediante il racconto, ricco di elementi patetici, del loro comportamento «eroico» davanti al plotone d’esecuzione.
Come se morire gridando «Viva l’Italia!» o «Vive la France!» potesse riscattare una vita di nefandezze.
4a. Robert Brasillach
Übermensch mancato: Brasillach è il primo a sinistra.
In questo senso è significativa la voce dedicata all’intellettuale collaborazionista Robert Brasillach che, durante l’occupazione, pubblicava sul suo giornale nomi e indirizzi degli ebrei ridotti in clandestinità, in modo che le SS potessero più agevolmente rastrellarli e deportarli. Processato e giustiziato nel dopoguerra, la versione attuale della voce racconta la sua morte come segue:
«All’alba del 6 febbraio Brasillach fu fucilato al forte di Montrouge. Un attimo prima di cadere a Forte di Montrouge sotto i colpi del plotone d’esecuzione aveva appena gridato “Vive la France!”. Venne sepolto nel cimitero di Charonne, nel XX arrondissement di Parigi».
Fino al settembre 2014, però, il finale era più esteso:
«Un attimo prima di cadere a Forte di Montrouge sotto i colpi del plotone d’esecuzione aveva appena gridato “Vive la France!”. Uomo di pensiero e di brucianti passioni, poeta e romanziere, aveva dato intima adesione al fascismo non tanto per la sua ideologia quanto per la poesia e il giovanile lirismo che in esso aveva trovato; e mai, nemmeno sul punto di essere condannato a morte soltanto per la sua idea, rinnegò quel che aveva creduto e quel che aveva amato. Dalle lettere scritte durante la prigionia, si evince come Brasillach auspicasse una possibile riconciliazione franco-tedesca, in chiave europeista e anti-americana».
Il panegirico sulle «brucianti passioni» fu inserito l’11 maggio 2010 da un anonimo.
Totalmente privo di fonti e smaccatamente di parte, questo saggio di prosa lirica è rimasto indisturbato in voce per più di quattro anni.
In compenso, l’infame dichiarazione di Brasillach che nel 1942 invocava la necessità di «separarsi dagli ebrei e non tenere i bambini» viene pudicamente espunta nel maggio 2014, e sostituita con un’altra citazione (forse, agli occhi di Jose Antonio, meno compromettente) in cui lo scrittore propugna la soluzione del «problema ebraico» al fine di «salvaguardare la razza francese».
Di fronte alla situazione francamente assurda di questa voce, l’11 luglio 2014 un utente che ha agito nello spirito di Nicoletta Bourbaki ha compiuto un gesto di disobbedienza civile, sostituendo il «Vive la France!» del fascista morente con un più adatto «Vive la trance!».
4b. Giuseppe Solaro
Solaro su un manifestino nazional-socialista
Come vedremo, quando la morte del gerarca di turno non appare abbastanza eroica si può comunque intervenire per renderla tale. In questo senso è significativa la voce dedicata al federale fascista Giuseppe Solaro.
Diciamo subito che si tratta di una voce apologetica, per diverse ragioni.
La più evidente è la totale decontestualizzazione del personaggio che si accompagna alla neutralizzazione di ogni sua responsabilità personale e politica. Basti vedere l’uso neutro e quasi felpato dei verbi e la ricerca della notizia biografica pura e semplice presa ora di qua e ora di là a seconda di dove fa più comodo.
Un esempio fra i tanti, partendo dal libro Gli altri. Fascismo repubblicano e comunità nel Torinese, 1943-1945 (Franco Angeli, Milano 2014) dello storico Nicola Adduci, che nella voce in questione è citato del tutto a sproposito. Quando Solaro vuole bloccare un rastrellamento dei suoi camerati a Borgone di Susa, la cosa viene ricordata (p. 124); quando invece ordina di prendere 100 ostaggi a Torre Pellice e portarli a Torino (p. 165) la cosa non viene ricordata.
Altri esempi si potrebbero fare anche per questioni come il cecchinaggio, dove si sposa una tesi assolutoria basata non su fonti e dati di fatto, ma sul desiderio di riabilitazione dell’immagine dell’interessato.
A parte il libro di Adduci, citato strumentalmente perché antifascista, le altre fonti sono del giro celebrativo e nostalgico che ruota intorno ai reduci e ad alcuni familiari dei militi della RSI.
La cattura di Solaro e il processo sono raccontati con un caratteristico mix di innocentismo, vittimismo e sentimentalismo lacrimevole:
«Preso prigioniero fu riconosciuto e sottoposto ad un primo interrogatorio in cui secondo il dirigente comunista Osvaldo Negarville, in una testimonianza resa il 3 settembre 1946 in un processo contro l’ex federale Mario Pavia, Solaro nel tentativo di salvarsi avrebbe sostenuto di essere un elemento moderato se non comunista anch’esso e sempre secondo Negarville addossando la responsabilità dei franchi tiratori proprio al nuovo federale Pavia. Le affermazioni di Negarville furono ampiamente smentite dagli altri testimoni e respinte dallo stesso Pavia, nel corso dello stesso processo che lo vedeva imputato, il quale dichiarò di non credere alle affermazioni fatte “dubito che il Solaro avesse fatto il mio nome in tale circostanza, come voi mi avete detto poiché ritengo il Solaro uomo onesto e leale”.
La mattina del 29 seguì un sommario processo che terminò poco dopo con sentenza d’impiccagione. Il dibattimento non fu reso noto dato che non fu stilato nessun verbale.
Sapendo di dover morire Solaro scrisse l’ultima lettera alla moglie:
“Cara Tina, prima di morire ti esprimo tutto il mio amore e la mia devozione. Sono stato onesto tutta la vita e onesto muoio per un’idea. Che essa aiuti l’Italia sulla via della Redenzione e della costruzione. Ricordami e amami, come io ho sempre amato l’Italia. Cara Tina, viva l’Italia libera, viva il Duce! Tuo Peppino.”
Il mattino seguente fu portato in processione per le vie cittadine dai partigiani per essere poi condotto in via Vinzaglio dove nove mesi prima erano stati impiccati quattro partigiani in rappresaglia al ferimento di un ufficiale della RSI. A Solaro non poteva essere attribuita alcuna responsabilità circa i quattro partigiani che erano stati impiccati dato che l’ordine era stato dato direttamente dai tedeschi ed eseguito dalla GNR.
Solaro fu impiccato una prima volta ad un albero, ma il ramo si spezzò e lui, ormai in stato di semi-incoscienza, venne impiccato per una seconda volta. Il cadavere fu nuovamente portato in processione per le vie ed infine gettato nel fiume Po dal Ponte Isabella.»
A proposito della rappresaglia fascista (i nove partigiani impiccati in via Vinzaglio) viene citato in nota, con evidente compiacimento, il relativo comunicato della RSI. Fra le fonti della voce troviamo l’onnipresente Giampaolo Pansa, Nicola Adduci (utilizzato però nel modo che abbiamo visto) e il libro (?) di Fabrizio Vincenti, Giuseppe Solaro, il fascista che sfidò la Fiat e Wall Street, Ciclostile, Carrara, maggio 2014.
Un’altra fonte sulla morte di Solaro invece manca, perché è stata censurata. Parliamo della modifica (anonima) del 14 agosto 2006, in cui viene introdotto un testo di Giorgio Amendola, secondo il quale Solaro morì da vigliacco, cercando di salvarsi rinnegando la propria appartenenza al fascismo e addossando ad altri gerarchi le proprie responsabilità:
«Dopo l’armistizio di Cassibile aderì alla Repubblica Sociale Italiana e fu segretario provinciale del Partito Fascista Repubblicano a Torino dal 1943 al 1945, anno in cui morì impiccato: alla sua vicenda è dedicato il saggio Come ha saputo morire Solaro (1997) che ne celebra il particolare coraggio di fronte alla morte. Contro questa ricostruzione, si pone in maniera assai decisa il ricordo di Giorgio Amendola, dirigente del PCI e comandante partigiano (vedi nel suo libro di memorie Lettere a Milano, Editori, Riuniti, Roma, 1973, pp. 572-573).»
Il pamphlet neofascista Come ha saputo morire Solaro (Edizioni La Legione, Milano 1997) figura tuttora tra le fonti citate in voce. Il libro di Amendola, invece, sparisce il 10 ottobre 2010.
Responsabile della desaparición di Amendola è il già menzionato Barbicone, un utente legato a Casa Pound (come si legge in questa discussione, dove l’interessato non è mai intervenuto per smentire), oggi inattivo. Barbicone ha lavorato alla voce da agosto a novembre 2010. Il primo intervento di Jose Antonio, del 30 novembre 2010, ha luogo su una voce già gravemente compromessa in senso giustificazionista. Dal maggio 2013 fino all’agosto 2014 Jose Antonio si afferma come principale contributore della voce.
Sia chiaro: a noi interessa ben poco stabilire se Solaro sia morto «da eroe», come vorrebbero i suoi camerati, oppure da vigliacco come ricorda Amendola. Per avere un’idea precisa di chi sia stato Giuseppe Solaro ci basta e avanza sapere ciò che egli fece nel corso della sua attività di gerarca fascista e repubblichino. Resta però il fatto che il libro di Amendola è una fonte storiografica. Le regole di Wikipedia prescriverebbero, se non altro, di menzionarla, assieme alle altre fonti autorevoli che eventualmente la contraddicano. Qui invece Amendola è stato puramente e semplicemente censurato. Cosa tanto più grave, in quanto la storia del Solaro pusillanime che sarebbe morto implorando «Non fatemi del male. Io sono sempre stato socialista», è menzionata anche da altre fonti autorevoli; per esempio da Claudio Pavone nel suo Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, Torino 1991). Su Wikipedia, invece, la versione evidentemente considerata sbagliata viene menzionata fugacemente, attribuendola al «dirigente comunista Osvaldo Negarville», e subito viene data per «ampiamente smentita».
Il 10 marzo 2016 un utente anonimo si accorge che nella voce qualcosa non va e prova a protestare:
«Non si può usare come unica fonte un libro pubblicato dall’Editore Chiaramonte che ancora nel 2010 è stato condannato per diffamazione ai danni della Comunità Ebraica Torinese avendo pubblicato come veri I Protocolli dei Savi Anziani di Sion. Ma che fonti sono?»
Tempo venti minuti e la sua modifica viene annullata. Da Jose Antonio.
4c. Piero Calamandrei
Come si è detto, la retorica mortuaria non è stata affatto patrimonio esclusivo del fascismo. Osserva Sergio Luzzatto che, nell’opera di Piero Calamandrei, la memoria della resistenza è declinata «come una necrologia prima ancora che una mitologia».
Noi certamente non condividiamo quella concezione eroico-monumentale, marmorea e stilizzata della Resistenza, della quale Calamandrei è stato fra i massimi artefici. Neppure condividiamo il suo legalismo che lo indusse, fra l’altro, a collaborare col guardasigilli Grandi nel vano intento di attenuare la natura totalitaria della legislazione fascista.
Ciò non toglie che Il fascismo come regime della menzogna, pubblicato postumo da Laterza nel 2014, sia un testo di notevole forza. È un vero peccato che il libro sia uscito con tanto ritardo. Al grande giurista bastano venti righe per minare alla base le cattedrali di carta poi costruite dagli epigoni di De Felice sulla distinzione speciosa tra «fascismo-movimento» e «fascismo-regime»:
«Così il brigantaggio organizzato che per vent’anni […] è periodicamente riapparso a insanguinare l’Italia, non è stato mai, come qualche pietoso interprete ha voluto far credere, un effetto di debolezza del potere centrale, incapace di tenere a freno le impazienze dei gregari; ma è stato sempre una consapevole tattica di governo, voluta e manovrata dal centro. Per vent’anni il fascismo ha avuto due maschere che venivano volta a volta manovrate dallo stesso istrione: il volto austero della legalità, della augusta giustizia “romana” che veniva ostentato nelle cerimonie solenni delle aule e delle accademie, e il volto torvo e spavaldo dell’illegalismo squadrista, che si teneva in riserva sotto il banco per rimetterlo fuori al momento buono, quando il regista giudicava che per tonificare lo spirito pubblico troppo incline alla comoda tranquillità, fosse opportuno ricominciare a dargli qualche saggio esemplare di dinamismo di piazza.» (p. 44)
Si veda anche il modo in cui Calamandrei demolisce il falso mito del «consenso» al regime (pp. 61-3; 83). Non mancano tratti di arguzia, come la spiegazione «esoterica» dell’acronimo con cui si designava il partito fascista repubblichino: P.F.R. = Pochi Farabutti Rimasti (p. 63).
S’intende che un dispositivo antifascista brillante ed efficace come il volume postumo di Calamandrei non poteva rimanere senza risposta. Ecco allora che, alcuni mesi dopo la sua pubblicazione, il numero di febbraio-marzo 2015 della rivista Storia in rete contrappone alla macchina ammazza-fascisti di Calamandrei una sua piccola macchina spargicalunnie: una risposta ad personam che tenta di screditare Calamandrei elencando minuziosamente i suoi compromessi col regime.
Grazie alla “quinta colonna” Jose Antonio (si veda la serie di edit dell’8 marzo qui, qui e qui), l’articolo di Alessandro Barbera Luci e ombre su Calamandrei può immediatamente bombardare Wikipedia col suo carico di pettegolezzi e d’insinuazioni:
«Nel corso del 1940 Grandi, nel frattempo diventato Presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni decise di privilegiare il rapporto con lo stesso Calamandrei che infatti convocò il 26 aprile 1940. In questa occasione, come lo stesso Calamandrei annotò sul proprio diario, Grandi gli riferì di un colloquio avuto con Mussolini in cui gli aveva detto che dei tre giuristi coinvolti nel progetto “il più fascista è il non fascista Calamandrei”, Calamandrei perplesso domandò “Tutto sta a vedere che significato Lei dà alla parola fascista”, ma Grandi lo tranquillizzò replicando “In senso buono” allora Calamandrei rispose “Allora me ne compiaccio”. All’inizio della seconda guerra mondiale Calamandrei fu richiamato al fronte ma ottenne una dispensa per intervento di Grandi che lo aveva incaricato nel frattempo di svolgere l’ultima revisione del codice di procedura civile».
La manovra è davvero eclatante, e l’8 marzo 2015 viene giustamente denunciata in pagina di discussione: «Il problema è che si prende una fonte evidentemente schierata e se ne trasferisce di peso il “messaggio” su Wikipedia […]».
A questo punto in soccorso di Jose Antonio interviene l’utente Demiurgo il quale, rendendosi conto che Storia in rete è una fonte del tutto indifendibile, molto abilmente svia il discorso, proponendo una pletora di altre fonti giornalistiche a proposito della «questione della collaborazione tra Calamandrei e il regime» e chiedendo la rimozione della citazione nell’incipit della voce. Citazione che tuttavia ad oggi – non sappiamo per quanto – è ancora al suo posto:
[…] «morti e vivi con lo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA.»
Domani la seconda puntata
* Nicoletta Bourbaki è un gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico in rete e sulle false notizie a tema storico, nato nel 2012 durante una discussione su Giap, il blog di Wu Ming. Ne fanno parte storici, ricercatori di varie discipline, scrittori, attivisti e semplici appassionati di storia. Il nome allude al collettivo di matematici noto con lo pseudonimo collettivo «Nicolas Bourbaki» attivo in Francia dagli anni Trenta agli anni Ottanta del ventesimo secolo.
Il gruppo di lavoro ha all’attivo diverse inchieste – pubblicate su Giap – sulle manipolazioni neofasciste della Wikipedia in lingua italiana e sui falsi storici in tema di foibe.
Per l’edizione on line della rivista Internazionale, in occasione del Giorno del Ricordo 2017, Nicoletta Bourbaki ha curato lo speciale La storia intorno alle foibe. Sul n.39 della rivista di studi storici Zapruder (gennaio-aprile 2016), in collaborazione con Lorenzo Filipaz, ha pubblicato l’articolo Wi Chi? Battaglie per il sapere in rete.
Nicoletta Bourbaki è anche su Facebook.