di Antonio Gramsci *
Cosa domanda ancora la storia al proletariato russo per legittimare e rendere permanenti le sue conquiste? Quale altra taglia di sangue e di sacrifizio pretende ancora questa sovrana assoluta del destino degli uomini?
Le difficoltà e le obiezioni che la rivoluzione proletaria deve superare si sono rilevate immensamente superiori a quelle di ogni altra rivoluzione del passato. Queste tendevano solo a correggere la forma della proprietà privata e nazionale dei mezzi di produzione e di scambio; toccavano una parte limitata degli aggregati umani. La rivoluzione proletaria è la massima rivoluzione: poiché vuole abolire la proprietà privata e nazionale, e abolire le classi, essa coinvolge tutti gli uomini, non solo una parte di essi.
Obbliga tutti gli uomini a muoversi, a intervenire nella lotta, a parteggiare esplicitamente. Trasforma la società fondamentalmente: da organismo pluricellulare; pone a base della società nuclei già organici di società stessa. Costringe tutta la società a identificarsi con lo Stato, vuole che tutti gli uomini siano consapevolezza spirituale e storica.
Perciò la rivoluzione proletaria è sociale: perciò deve superare difficoltà e obiezioni inaudite, perciò la storia domanda per il suo buon riuscimento pone taglie mostruose come quelle che il popolo russo è costretto a pagare.
La rivoluzione russa ha trionfato finora di tutte le obiezioni della storia. Ha rivelato al popolo russo una aristocrazia di statisti che nessun’altra nazione possiede; sono un paio di migliaia di uomini che tutta la vita hanno dedicato allo studio (sperimentale) delle scienze politiche ed economiche, che durante decine d’anni d’esilio hanno analizzato e sviscerato tutti i problemi della rivoluzione, che nella lotta, nel duello impari contro la potenza dello zarismo, si sono temprati un carattere d’acciaio, che, vivendo a contatto con tutte le forme della civiltà capitalistica d’Europa, d’Asia, d’America, immergendosi nelle correnti mondiali dei traffici e della storia, hanno acquistato una coscienza di responsabilità esatta e precisa, fredda e tagliente come la spada dei conquistatori d’imperi.
I comunisti russi sono un ceto dirigente di primo ordine. Lenin si è rivelato, testimoni tutti quelli che lo hanno avvicinato, il più grande statista dell’Europa contemporanea; l’uomo che sprigiona il prestigio, che infiamma e disciplina i popoli; l’uomo che riesce, nel suo vasto cervello, a dominare tutte le energie sociali del mondo che possono essere rivolte a benefizio della rivoluzione; che tiene in scacco e batte i più raffinati e volpisti statisti della routine borghese. Ma altro è la dottrina comunista, il partito politico che la propugna, la classe operaia che la incarna consapevolmente, e altro è l’immenso popolo russo, disfatto, disorganizzato, gettato in un cupo abisso di miseria, di barbarie, di anarchia, di dissoluzione da una guerra lunga e disastrosa. La grandezza politica, il capolavoro storico dei bolscevichi in ciò appunto consiste: nell’aver risollevato il gigante caduto, nell’aver ridato (o dato per la prima volta) una forma concreta e dinamica a questo sfacelo, a questo caos; nell’aver saputo saldare la dottrina comunista con la coscienza collettiva del popolo russo, nell’aver gettato le solide fondamenta sulle quali la società comunista ha iniziato il suo processo di sviluppo storico, nell’avere, in una parola, tradotto storicamente nella realtà sperimentale la formula marxista della dittatura del proletariato. La rivoluzione è tale e non una vuota gonfiezza della retorica demagogica, quando si incarna in un tipo di Stato, quando diventa un sistema organizzato del potere.
Non esiste società se non in uno Stato, che è la sorgente e il fine di ogni diritto e di ogni dovere, che è garanzia di permanenza e di successo di ogni attività sociale. La rivoluzione proletaria è tale quando dà vita e s’incarna in uno Stato tipicamente proletario, custode del diritto proletario, che svolge le sue funzioni essenziali come emanazione della vita e della potenza proletaria. I bolscevichi hanno dato forma statale alle esperienze storiche della classe operaia e contadina internazionale; hanno sistemato in organismo complesso e agilmente articolato la sua vita più intima, la sua tradizione e la sua storia spirituale e sociale più profonda e amata. Hanno rotto col passato, ma hanno continuato il passato; hanno spezzato una tradizione, ma hanno sviluppato ed arricchito la tradizione vitale della classe proletaria, operaia e contadina. In ciò sono stati rivoluzionari, perciò hanno instaurato l’ordine e la disciplina nuovi. La rottura è irrevocabile, perché tocca l’essenziale della storia, è senza possibilità di ritorni indietro, che altrimenti un immane disastro piomberebbe sulla società russa.
Ed ecco iniziarsi un formidabile duello con tutte le necessità della storia, dalle più elementari alle più complesse, che occorreva incorporare nel nuovo Stato proletario. Bisognava conquistare al nuovo Stato la maggioranza leale del popolo russo. Bisognava rivelare al popolo russo che il nuovo Stato era il suo Stato, la sua vita, il suo spirito, la sua tradizione, il suo patrimonio più prezioso.
Lo Stato dei Soviet aveva un ceto dirigente, il Partito comunista bolscevico; aveva l’appoggio di una minoranza sociale rappresentante la consapevolezza di classe, degli interessi vitali e permanenti di tutta la classe, gli operai dell’industria. Esso è divenuto lo Stato di tutto il popolo russo e ciò ha ottenuto la tenace perseveranza del Partito comunista, la fede e la lealtà entusiastiche degli operai, l’assidua e incessante opera di propaganda, di rischiaramento, di educazione degli uomini eccezionali del comunismo russo, condotti dalla volontà chiara e rettilinea del maestro di tutti, Nicola Lenin. Il Soviet si è dimostrato immortale come la forma di società organizzata che aderisce plasticamente ai multiformi bisogni (economici e politici) permanenti e vitali della grande massa del popolo russo, che incarna e soddisfa le aspirazioni e le speranze di tutti gli oppressi del mondo.
La guerra lunga e disgraziata aveva lasciato una triste eredità di miseria, di barbarie, di anarchia; l’organizzazione dei servizi sociali era sfatta; la com pagine umana stessa si era ridotta a un’orda nomade di senza lavoro, senza volontà, senza disciplina, materia opaca di un’immensa decomposizione. Il nuovo Stato raccoglie dalle macerie i frantumi logori della società e li ricompone, li rinsalda: ricrea una fede, una disciplina, un’anima, una volontà di lavoro e di progresso. Compito che potrebbe essere gloria di un’intera generazione. Non basta. La storia non è contenta di questa prova.
Nemici formidabili si drizzano implacabilmente contro il nuovo Stato. Si batte moneta falsa per corrompere il cittadino, si stuzzica il suo stomaco affamato. La Russia viene tagliata da ogni sbocco al mare, da ogni traffico, da ogni solidarietà: viene privata dell’Ucraina, del bacino del Donetz, della Siberia, di ogni mercato di materia prime e di viveri. Su un fronte di diecimila chilometri bande di armati minacciano l’invasione: sollevazioni, tradimenti, vandalismi, atti di terrorismo e sabotaggio vengono pagati. Le vittorie più clamorose si tramutano, per tradimento, in rovesci subitanei.
Non importa. Il potere dei Soviet resiste: dal caos della disfatta crea un esercito potente che diviene la spina dorsale dello Stato proletario. Premuto da forze antagonistiche immani trova in sé il vigore intellettuale e la plasticità storica per adattarsi alla necessità della contingenza, senza snaturarsi, senza compromettere il felice processo di sviluppo verso il comunismo.