Perché per giovani, lavoratori e sfruttati in Italia è importante quello che succede sull’altra sponda del Mediterraneo…
Quello che negli ultimi anni sta succedendo in Tunisia e più in generale nel Nord Africa e nel mondo arabo parla a noi, parla di tutti noi. Non solo perché, dopo che ci hanno detto per trent’anni che “la rivoluzione non si può fare”, “la storia è finita” etc, le compagne e i compagni arabi ci hanno dimostrato che è possibile cambiare lo stato di cose… Ma perché la sollevazione dei lavoratori, dei giovani disoccupati, la richiesta di maggiorazioni salariali, l’istituzione di nuovi sindacati che facciano rispettare i diritti, ha un impatto diretto anche sul nostro mondo. Perché:
a) attacca direttamente gli interessi dei capitali occidentali e anche italiani nell’area;
b) rafforza il potere internazionale dei lavoratori messo in crisi negli ultimi decenni dal ricatto delle delocalizzazioni e dal “nazionalismo” delle maggiori centrali sindacali;
c) ha una ricaduta immediata sui lavoratori immigrati in Italia, com’è stato evidente nel caso IKEA (vedi l’articolo La lotta ai tempi dell’Ikea. Potere, organizzazione e solidarietà). Infatti a Piacenza, come a Basiano e negli altri centri della logistica, i lavoratori immigrati, ricattati, sfruttati, senza alcun appoggio sicuro, seguivano quello che succedeva nei loro paesi, e si sentivano, anche se lontanissimi, nel mezzo di Piazza Tahrir. Prendevano cioè coscienza della loro forza e arrivano persino a spingere alla battaglia i lavoratori italiani, passivizzati da anni di sconfitte. E se pensiamo che in Italia vivono circa 103.000 tunisini e oltre 90.000 egiziani, si capisce che “miracolo” potrebbe avvenire da questa feconda contaminazione…
In questo breve articolo intendiamo quindi mostrare alcuni degli interessi del capitale italiano in Tunisia, proprio per far capire ai proletari italiani quanto la lotta in corso in quel paese possa potenzialmente migliorare le loro condizioni. Lo facciamo anche per onorare il lavoro e la memoria del compagno Chokri Belaid, leader del Fonte Popolare ucciso ormai due settimane fa.
Infatti proprio Belaid, in un’intervista del luglio 2011, quindi a pochi mesi dalla cacciata di Ben Ali, intuiva come l’imperialismo stava cercando di rimettere le mani sul suo paese, e denunciava chiaramente il ruolo dell’Italia: «Il mio timore», diceva Belaid «viene dall’esperienza ed è legato alle solide relazioni intessute da Ben Ali con i nostri vicini del nord attraverso le politiche migratorie. Per difendere i loro interessi hanno trasformato la Tunisia in uno stato di polizia e poi hanno approfittato della benevolenza del regime per rapinare le nostre risorse, con la scusa dello sviluppo in loco. Esenzioni fiscali, sfruttamento della manodopera e costi di produzione bassissimi. Non credo che l’Italia o la Francia siano disposti a rinunciare facilmente a tutto questo».
E infatti già il giorno dopo la cacciata di Ben Alì, gli imprenditori italiani in Tunisia facevano arrivare note allarmate al nostro Governo perché gli operai stavano alzando un po’ troppo la stessa, rivendicando diritti fino a quel momento negati, e aumenti in busta paga. In un paese con il reddito medio pro-capite sensibilmente al di sotto dei 10.000€, dove un operaio guadagna a stento 125€ al mese (ma scendono fino a 60 per le donne impiegate come segretarie e, in certi casi, a 40 euro per le donne impiegate nelle imprese in subappalto) e i disoccupati sono oltre il 15%, questo doveva sembrare un crimine inaccettabile agli occhi dei padroni italiani!
Ma chi sono e quanti sono questi padroni italiani? Iniziamo con il dire quanti. In generale, gli “scambi” fra la Tunisia e l’Occidente sono cospicui. Nel mercato internazionale la Tunisia esporta prodotti ortofrutticoli e si è specializzata nelle attività manifatturiere di assemblaggio: si tratta essenzialmente di subforniture nel tessile e in minor misura nella meccanica e nell’elettronica. La Tunisia è molto dipendente dalle commesse delle imprese transnazionali e dalle tecnologie di produzione estere: gli stessi investimenti dall’estero costituiscono il 60% del totale dei suoi investimenti produttivi. In questo quadro, sono – al di là dell’ambito energetico – oltre 700 le imprese italiane o con partecipazione italiana che operano in questa nazione. La Tunisia realizza con l’Italia il 21% di tutti i suoi scambi, tanto che l’Italia è il secondo partner commerciale della Tunisia e il secondo investitore, dopo la Francia.
In particolare negli anni ’90 le imprese italiane hanno beneficiato degli imponenti programmi di privatizzazione delle industrie e dei servizi imposti dal Fondo Monetario Internazionale, e approfittato di una forza-lavoro più docile, di una maggiore compiacenza dei governi, per spostare sull’altra sponda del canale di Sicilia molte produzioni e investimenti. Attaccando così direttamente sia le condizioni di vita dei proletari italiani, che diventavano più poveri e ricattabili, sia di quelli tunisini, che venivano maggiormente sfruttati, e dimostrando paradossalmente l’unità di interessi del proletariato a livello internazionale…
La situazione non è cambiata nell’ultimo decennio, e per quanto la crisi economica del 2007, e le rivolte che dalla fine del 2010 hanno attraversato il paese, abbiano inciso su certi processi, gli investimenti e gli interessi dei capitali italiani in Tunisia sono intatti. Vediamo, per sommi capi, visto che ci vorrebbe ben altro tipo di studio, alcuni dei bandi e delle commesse che negli ultimi anni sono partiti dall’Italia verso la Tunisia.
Un caso interessante è quello della fabbrica Ceccato in Veneto, che produce impianti di lavaggio per automobili, bus, camion e metropolitane. Accusando un calo della produzione dovuto alla “crisi” (ma quante volte l’abbiamo sentita questa storia?), la Ceccato tiene in cassa integrazione straordinaria da un anno ben 137 dipendenti (ma secondo i sindacati con l’indotto si arriva a un migliaio di lavoratori coinvolti). Eppure, solo due anni fa la Ceccato ha aperto una filiale in Tunisia, nonostante la crisi fosse ormai conclamata e con lei le difficoltà finanziarie e di gestione dell’impresa. Viene da chiedersi come mai la Ceccato sia andata lì… Forse in cerca di un costo del lavoro più basso? Perché aprire una filiale lì mentre scarica i lavoratori qui?
Ma non è la delocalizzazione l’unica via per fare profitti. C’è anche l’intermediazione, per dirla elegantemente. Si veda quest’articolo del Sole 24 Ore (A Sidi Bouzid prende vita il distretto del legno), che fra le righe ci chiarisce un interessante modello di business: “valorizzare le produzioni artigianali” e “creare sinergie con buyer e maestranze internazionali”. In sostanza: gli imprenditori italiani vanno a intervenire sui sistemi di produzione locale, efficientandoli (aumentando cioè il grado di sfruttamento degli artigiani) e rivendendo poi il tutto sul mercato internazionale. Non male come aiuto umanitario!
Per non parlare di quando si va direttamente in Tunisia a cercare l’affare, magari perché l’aria che tira in Italia non è buona. Ed ecco quindi persino le Piccole e Medie Imprese marchigiane “fare tappa nel paese africano per stringere contatti con le realtà locali e cercare di aprire nuovi business”. La GPL costruzioni lo dice chiaramente: “In Italia siamo fermi, è importante muoversi all’estero”. Almeno finché il livello di diritti dei lavoratori, le loro pretese salariali, quei pochi vincoli al patrimonio culturale e all’ambiente non siano abbattuti!
Forse le PMI marchigiane sperano di bissare il successo del gruppo Salini, specializzato in Grandi Opere e presente anche in Marocco, Algeria e Libia, che, attraverso la Todini Costruzioni Generali, realizzerà un nuovo tratto di autostrada maghrebina, lungo 54km (vedi Salini avvia i lavori in Tunisa, 29 maggio 2012). Salini rafforza così ulteriormente la propria presenza nel Paese – ben il 33% dei progetti autostradali in realizzazione in Tunisia fa infatti capo al gruppo italiano. La commessa vale 52 milioni di euro, non proprio bruscolini di questi tempi. Al battesimo dei lavori c’era anche il primo ministro Hamadi Jebali (sì, proprio quello contestato dai manifestanti in questi giorni) e il ministro dei lavori pubblici Mohamed Selmene. I due “hanno assicurato la ferma volontà del Governo tunisino di favorire al massimo il lavoro delle aziende, il rispetto delle tempistiche e la fluidificazione dei processi burocratici”. Sappiamo benissimo come tradurre queste parole dei padroni: più corruzione per superare leggi e regolamenti, sfruttamento massiccio dei lavoratori, impossibilità di protestare se qualche diritto dovesse venire violato, governo e polizia che fanno il lavoro sporco per le imprese etc.
Infine, tralasciando tutti i progetti di finta cooperazione transfrontaliera (come quello fortemente voluto dagli Enti siciliani l’anno scorso), segnaliamo quest’ultimo vettore di investimento del capitale italiano. Si parla di un settore particolarmente sensibile, e qui soprattutto i giovani e gli studenti dovrebbero drizzare le orecchie: i call center!Forse le PMI marchigiane sperano di bissare il successo del gruppo Salini, specializzato in Grandi Opere e presente anche in Marocco, Algeria e Libia, che, attraverso la Todini Costruzioni Generali, realizzerà un nuovo tratto di autostrada maghrebina, lungo 54km (vedi Salini avvia i lavori in Tunisa, 29 maggio 2012). Salini rafforza così ulteriormente la propria presenza nel Paese – ben il 33% dei progetti autostradali in realizzazione in Tunisia fa infatti capo al gruppo italiano. La commessa vale 52 milioni di euro, non proprio bruscolini di questi tempi. Al battesimo dei lavori c’era anche il primo ministro Hamadi Jebali (sì, proprio quello contestato dai manifestanti in questi giorni) e il ministro dei lavori pubblici Mohamed Selmene. I due “hanno assicurato la ferma volontà del Governo tunisino di favorire al massimo il lavoro delle aziende, il rispetto delle tempistiche e la fluidificazione dei processi burocratici”. Sappiamo benissimo come tradurre queste parole dei padroni: più corruzione per superare leggi e regolamenti, sfruttamento massiccio dei lavoratori, impossibilità di protestare se qualche diritto dovesse venire violato, governo e polizia che fanno il lavoro sporco per le imprese etc.
La Tunisia infatti non è un deserto di sabbia: è un paese in cui, soprattutto nelle zone costiere e nelle aree metropolitane, c’è grande abbondanza di giovani istruiti. Di giovani cioè capaci di usare un computer e parlare diverse lingue. Ecco perché La Tunisia si rafforza nel settore dei call center, come recitava un articolo di qualche tempo fa: “Un esercito di 17 mila ragazzi, quasi tutti laureati, con età media intorno ai 25 anni, il 70% sono donne: è l’universo dei call center tunisini, una realtà nata alla fine degli anni ’90 che al momento conta circa 200 strutture, più o meno localizzate tutte intorno alla capitale”. La maggior parte del lavoro di questi call center, l’85%, è svolto per conto di aziende francesi, ma c’è un 5% di lavoro svolto da ditte italiane, che assumono ragazzi che hanno vissuto o studiato in Italia. Inutile dire che le aziende francesi e italiane si sono spostati lì per un unico motivo: l’offerta oraria di un call center tunisino oscilla tra i 10 e i 12 euro, mentre in Italia si aggira sui 18 e in Francia sui 24. Indovinate dove si tagliano i costi?
Ridha Ben Abdessalem, presidente di Carec, l’Associazione dei call center della Tunisia, cercando di motivare gli investitori stranieri, lo dice chiaramente: “i ragazzi sono ancora più motivati degli italiani: per loro questo lavoro non è un ripiego. Inoltre, un paese offshore gode di una maggiore flessibilità nella gestione del lavoro e delle proprie risorse: due aspetti che innalzano ancora di più il suo livello di competitività”.
È chiaro ora a tutti perché hanno fatto fuori Belaid, chi sta coprendo gli esecutori e i mandanti di quest’omicidio, e perché ogni sollevazione di questi lavoratori ci aiuta e ci riguarda da vicino?
VENERDÌ 22 FEBBRAIO 2013 08:08
da: http://www.clashcityworkers.org/internazionale/848-interessi-italia-tunisia.html