di Emanuele Atti
Era prevedibile.
Il Ministro dell’istruzione, Patrizio Bianchi, in occasione del 25 aprile, invia a tutti i docenti italiani una lettera in cui, mentre celebra la ricorrenza della liberazione dal nazifascismo, tenta maldestramente di connettere la Resistenza partigiana agli attuali eventi in Ucraina.
Scrive: “In questo anniversario ricordiamo la lotta e il sacrificio di donne e uomini per ottenere il rispetto e il riconoscimento dei diritti”, come se la Resistenza fosse solo una class action democratica e non – come invece, anche se non in tutte le sue componenti, è stata – una lotta rivoluzionaria contro quella declinazione autoritaria e tragica del capitalismo chiamata “fascismo”.
Poi aggiunge: “Gli eventi che stanno avvenendo a livello internazionale ci ricordano che dobbiamo fare grande attenzione e dare sempre nuova linfa alla libertà e alla democrazia”, lasciando intendere che il luogo naturale della democrazia pienamente realizzata è solo l’Occidente, punto avanzato dell’umanità, baluardo della libertà.
Ci ricorda inoltre che sono proprio le scuole “il luogo di partecipazione e solidarietà, dove studentesse e studenti imparano a essere cittadine e cittadini responsabili e consapevoli”, cioè ossequiosi e tramortiti dalle indicazioni “tecniche” degli organismi competenti che stabiliscono cosa sono le “buone pratiche sociali”.
Ma non è finita. Il nostro si supera quando ci ricorda che con la festa della Liberazione si inaugura la “via sacra della Repubblica”: una terna di date in successione ravvicinata (25 aprile, Primo maggio, 2 giugno) che rappresentano e ci rammentano il valore della “sovranità popolare”. Proprio così, senza imbarazzo.
Insomma, è come se vivessimo due realtà parallele: su un binario corre quella virtuale dei media, dei nostri governanti, degli intellettuali on demand e dei partiti, in cui si reitera il messaggio che il nostro è il migliore dei mondi possibili; sull’altro binario, invece, corre una realtà materiale fatta di svuotamento della sovranità popolare, cioè dei luoghi della decisione collettiva a tutti i livelli (dalle riunioni scolastiche al Parlamento, ormai dispositivi di ratifica di programmazioni sovraordinate), una realtà in cui il lavoro non è più un diritto ma una concessione, dove l’iniziativa privata non è mai subordinata – come invece sancisce la nostra Costituzione (art. 41) – al benessere sociale ma è l’istanza indiscutibile a cui ispirare tutte le decisioni politiche.
La “via sacra della Repubblica”, dunque, si rivela solo una formula vuota, retorica ed ipocrita, quella di chi, mentre ci ricorda nei dì di festa quant’è bella la Costituzione, poi la smantella e la calpesta ogni giorno.
Occorre allora riprendere il cammino della Costituzione, una via che interseca indissolubilmente i diritti civili ai diritti sociali, una via in cui la democrazia non è solo una procedura formale legata alle competizioni elettorali (quelle, almeno per ora, permangono), non è solo una parola, un flatus vocis, ma un processo reale, una via che auspica un armonioso equilibrio tra le istanze degli agenti economici privati con la programmazione statale e il benessere sociale nella forma (keynesiana) di una economia mista.
Occorre ripartire – anzi partire, forse per la prima volta e con uno slancio inedito – dalla natura programmatica di quel documento che i padri costituenti redassero con l’obiettivo di scongiurare ogni forma di fascismo: quello storico, senz’altro, e quello velato e camaleontico, frutto di trasformazioni e camuffamenti, persino “democratici”.
Per farlo, però, ci vuole coraggio e un autentico esprit démocratique, valori assenti in tutte le forze politiche in campo, contrapposte su singoli temi, ma omogenee nell’accettazione – e spesso nell’esaltazione – di questo stato di cose: si veda la totale e disarmante coesione parlamentare sui temi di politica economica (vedi il PNRR) e di politica estera (vedi l’invio di armi all’Ucraina).
Per farlo ci vuole una nuova intenzionalità politica.
26 Aprile 2022