Jamil e Karim El Sadi
Massimo Giletti a “Non è l’Arena” ricostruisce la strage che uccise il giudice e la sua scorta
Nel corso della serata Massimo Giletti ha rivelato di aver ricevuto un messaggio intimidatorio: “Smettila di occuparti di queste cose”. La redazione di ANTIMAFIADuemila esprime la propria solidarietà e vicinanza al giornalista augurandoci che si intervenga al più presto per porre fine a questo genere di intimidazioni temerarie.
Non bastava uccidere Paolo Borsellino. Sarebbe stata un’opera incompiuta. Era essenziale prendere la sua agenda rossa “perché se fosse finita nelle mani dei magistrati saltava tutto”. Il servizio andato in onda ieri sera su La7 a “Non è l’Arena” potrebbe essere sintetizzato con le parole che il senatore Roberto Scarpinato, già procuratore generale di Palermo, disse ad un nostro convegno antimafia organizzato il luglio 2021 in occasione del 29° anniversario della strage di Via d’Amelio. Ieri sera, infatti, Massimo Giletti, assieme ai giornalisti Nello Trocchia e Sandra Amurri ed il co-fondatore del Movimento delle Agende Rosse Angelo Garavaglia, nel corso della trasmissione ha ripercorso i tratti salienti della vicenda riguardante l’agenda rossa di Paolo Borsellino. Partendo proprio dall’inizio, quando nel 2005, a seguito di una telefonata anonima, il nostro vicedirettore, Lorenzo Baldo, segnalò alla Dia l’esistenza di un fotogramma che immortalava il carabiniere Giovanni Arcangioli (oggi generale di brigata) nell’atto di allontanarsi dal luogo della strage, proprio in quel disgraziato pomeriggio del 19 luglio del 1992, dirigendosi verso via dell’Autonomia Siciliana con in mano la borsa del magistrato assassinato pochi minuti prima. Fu aperta un’inchiesta e Arcangioli venne indagato per il furto dell’agenda rossa (prosciolto definitivamente il 17 febbraio 2009) e per falsa testimonianza ai pm (decreto di archiviazione emesso il 26 aprile 2012). Come testimoniarono dopo l’attentato alcuni familiari di Paolo Borsellino, il giudice aveva l’abitudine di annotare nell’agenda rossa informazioni riservatissime su incontri e lavori che stava svolgendo. Incluse, molto probabilmente, anche importanti informazioni sulla strage di Capaci che 57 giorni prima di essere ucciso strappò la vita ai magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e agli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.
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“Dopo l’attentato ai danni di Borsellino e la sua scorta, è stata messa in atto la più grande macchinazione mai vista nella storia Repubblicana, il più orrendo depistaggio – ha commentato il giornalista Nello Trocchia –. Le indagini sono state deviate ed è stato vestito da pentito un ‘pupo’ come Vincenzo Scarantino. Un uomo del quartiere Guadagna di Palermo, reietto da Cosa nostra che non contava nulla. Dal punto di vista criminale era inconsistente”. “Scarantino è stato creduto e attorno alla sua figura si è costruito il più grande depistaggio della nostra storia – ha aggiunto –. Lo hanno indottrinato anche se era assolutamente innocente. Ha accusato sette innocenti che si sono fatti anche 17 anni di carcere”. Quel depistaggio “serviva a deviare dalla verità, perché in quella verità che non abbiamo ancora ricostruito ci sono le menti raffinatissime, gli infedeli servitori dello Stato, ci sono quei soggetti per cui Borsellino in vita disse: ‘Mi hanno tradito ma non mi uccideranno solo gli uomini di Cosa nostra’”.
Un tradimento che ricorda bene il magistrato Massimo Russo, uno dei “ragazzi” di Paolo Borsellino, ovvero un magistrato che ha lavorato con quest’ultimo alla Procura di Marsala. Subito dopo la strage di Capaci, ha raccontato Russo, “andammo a trovare Borsellino a Palermo nel suo ufficio di procuratore aggiunto. Paolo era seduto dietro la scrivania e non appena varcammo la soglia si alzò. Ci venne incontro, ci abbracciò e poi si accasciò letteralmente su un divano posto sulla destra rispetto alla porta di entrata. Si accasciò, come se si fosse lasciato andare e con le lacrime agli occhi ci disse: ‘Un amico mi ha tradito’”. “Fu una sberla enorme. Fu un colpo. Non riuscimmo a gestire questa confidenza – ha detto Russo –. Aggiunse anche: ‘Qua in procura è un nido di vipere’. Non abbiamo avuto la prontezza di chiedergli cosa fosse accaduto”.
(foto) Angelo Garavaglia, co-fondatore del Movimento delle Agende Rosse
Nel corso della trasmissione, la ricostruzione di Giletti ha seguito in particolare le dichiarazioni rilasciate durante i numerosi processi sviluppatisi negli anni da due uomini che hanno avuto a che fare con la borsa di Paolo Borsellino: Giovanni Arcangioli, appunto, e il poliziotto Francesco Paolo Maggi. Attraverso i verbali, sono state evidenziate le incongruenze e le zone d’ombra delle varie versioni fornite agli organi inquirenti su quanto accaduto alla borsa del magistrato assassinato e, di conseguenza, alla sua agenda rossa negli attimi successivi alla strage di via d’Amelio. Certi di una cosa. Come disse Scarpinato, nel convegno antimafia sopracitato, “più trascorrono gli anni e più si comprende che la strage via d’Amelio non è solo caso giudiziario, ma molto di più. È un capitolo della storia della lotta del potere in Italia, è una cartina tornasole del reale funzionamento del potere in Italia, il segreto, il ritratto di Dorian Grey e del volto feroce di alcuni settori della classe dirigente che la lotta del potere non l’hanno condotta solo con mezzi legali ma anche con stragi e omicidi”.
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Arcangioli e i suoi “non ricordo”
Il primo verbale esaminato nel corso della trasmissione è quello del carabiniere Giovanni Arcangioli (nei giorni scorsi richiamato dalla pensione dall’Arma) datato 5 maggio 2005. “[…] Sul posto arrivò il dottor Teresi ed anche il dottor Di Pisa magistrato di turno. Non ricordo se il dottor Ayala o il dottor Teresi, ma più probabilmente il primo dei due e sicuramente non il dottor Di Pisa mi informarono del fatto che doveva esistere una agenda tenuta dal dottor Borsellino e mi chiesero di controllare se per caso all’interno della vettura vi fosse una tale agenda eventualmente all’interno di una borsa”. “Se non ricordo male aprii lo sportello posteriore sinistro e posata sul pianale, dove si poggiano di solito i piedi, rinvenni una borsa, credo di color marrone, in pelle, che prelevai e portai dove stavano in attesa il dottore Ayala e il dottore Teresi”. “Uno dei due predetti magistrati aprì la borsa e constatammo che non vi era all’interno alcuna agenda, ma soltanto dei fogli di carta. Verificando ciò, non ricordo esattamente lo svolgersi dei fatti. Per quanto posso ricordare incaricai uno dei miei collaboratori di cui non ricordo il nome, di depositare la borsa nella macchina in servizio di uno dei magistrati. Si tratta di un ricordo molto labile e potrebbe essere impreciso”. L’anno successivo, l’8 febbraio 2006, Arcangioli venne chiamato nuovamente dai magistrati per testimoniare quanto accaduto in via d’Amelio. E i “non ricordo” si moltiplicano. “Non ho ricordo certo dell’affermazione relativa al fatto che il dottor Ayala e il dottor Teresi mi ebbero ad informare dell’esistenza di un’agenda tenuta dal dottor Borsellino […] Posso però ritenere di affermare che non era presente il dottor Teresi in quanto ricordando, sebbene soltanto tramite alcuni flash, di cui ho ancora memoria mi sembra di averlo avvicinato all’ingresso di via d’Amelio”. “Non ricordo con certezza se io o il dottor Ayala aprimmo la borsa per guardarvi all’interno, mentre ricordo che all’interno vi era un creso dell’Arma dei carabinieri e non ricordo se vi fosse qualche altro oggetto. Mi sembra ricordando bene, che vi fossero dei fogli di carta.
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Così come non posso confermare di aver io stesso o uno dei miei collaboratori deposto la borsa nella macchina di servizio di uno dei due magistrati, mentre ritengo di aver detto di rimetterla o di averla rimessa io stesso nell’auto di servizio del dottor Borsellino”. “Non sono in grado di ricordare chi materialmente abbia prelevato dall’autovettura del dottore Borsellino la borsa dello stesso. In particolare, non riesco a ricordare se la prelevai direttamente io ovvero se fu altra persona di cui comunque non conservo memoria”. Infine, un’altra versione rilasciata nel 2013 quando venne chiamato a testimoniare durante il processo Borsellino quater. Anche in quell’occasione affermò di non ricordare come venne in possesso della borsa di Paolo Borsellino. “È la verità con tutti i limiti che essa può contenere, con tutte le calamità che essa può contenere. Non me lo ricordo come ne sono venuto in possesso. Era una borsa… non… non me lo ricordo”. E ancora: “Ricordo di aver guardato dentro quella borsa. Se le dovessi dire esattamente dove, non sono in grado di stabilirlo, non sono in grado di… forse dalla parte opposta, diciamo così, da dove si trovava l’abitazione del giudice. C’ho guardato dentro, non mi ricordo di aver visto alcunché che potesse attirare l’attenzione. Ho invece un ricordo perché… di quello che c’era dentro ed era un creso dei Carabinieri. Eh, il mio… la mia mente lì si è fermata perché il giudice dentro la sua borsa teneva un crest dei Carabinieri”. “Il mio ricordo si ferma al resto, poi forse probabilmente c’era anche altro, però il mio ricordo è il crest. Era un creso dei Carabinieri per questo ha colpito la mia memoria, il mio ricordo”. Aggiungendo, infine, di non avere la certezza o un ricordo nitido “con chi ho guardato all’interno della borsa. Anche all’epoca, come dico oggi, mi sembra… ma rimane un ‘mi sembra’, che ci fosse anche il dottor Ayala. Ma rimane un ‘mi sembra’, non è un ricordo nitido. Non è un’affermazione che posso fare sotto giuramento”. Versioni differenti che, come ha sottolineato Nello Trocchia, raccontano come “prima si sia dovuto uccidere Paolo Borsellino e poi far sparire la scatola nera di quella strage che è l’agenda rossa e la borsa. Abbiamo ascoltato uomini dello Stato che sono stati – nel caso di Arcangioli – prosciolti ma non sono accettabili queste opacità, questi ‘non ricordo’, queste reticenze, queste amnesie. Noi abbiamo abbattuto il muro di omertà di Cosa nostra perché abbiamo capito tutto i vertici e chi ha contribuito a quella strage nell’ambito di Cosa nostra. Permane però il muro di omertà all’interno delle istituzioni e non viene abbattuto”.
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Maggi: “In via d’Amelio vidi agenti sei servizi segreti”
Differente invece è la versione dell’ex sovrintendente della Polizia di stato in servizio alla squadra mobile di Palermo Francesco Paolo Maggi, uno dei primi ad essere arrivato nel luogo della strage il 19 luglio 1992 pochi minuti dopo l’esplosione. Il suo nome compare per la prima volta il 5 novembre 1994, quattro mesi dopo la strage di via d’Amelio, in un verbale. Maggi ha ribadito ai microfoni di La7 di aver recuperato la borsa di Paolo Borsellino. “Quello che dice il dottore Ayala… non mi risulta perché la borsa l’ho presa io”, ha aggiunto riferendosi alla versione dell’ex magistrato palermitano secondo cui avrebbe consegnato la borsa “ad un Carabiniere in divisa, distinto”. “Ero di turno quel giorno – ha aggiunto Maggi –. Arrivai dopo circa 5 minuti che era successo il fatto. E notai la borsa nell’auto del magistrato che era in fiamme. Era l’unica cosa che ancora si poteva recuperare… era mezza bruciacchiata ma si poteva recuperare ancora. Stava tra i sedili posteriore e anteriore, lato passeggero. Il vigile del fuoco ha spento l’auto, è entrato dentro l’abitacolo e mi ha consegnato la orsa. Parlai con il funzionario di turno che era con me, il dottor Fassari e mi disse di portarla alla Squadra Mobile e consegnarla all’autista del dottor La Barbera (allora capo della Polizia). Entrammo nella stanza del funzionario del dottor La Barbera e la borsa la ripose nel divano. La Barbera in quel momento non c’era. La consegnai all’autista: l’agente Sergio Di Franco”. Anche nella ricostruzione di Maggi ci sono delle lacune. Ad esempio, Di Franco, sentito dalla Dia nel 2005, affermò di non ricordare di aver mai visto la borsa di Borsellino e di non aver alcun ricordo della presenza di Maggi alla Squadra Mobile (nonostante i due si conoscessero bene). “Non so che dirle – ha risposto Maggi all’inviato di Giletti –. Mi sembra tutto così surreale che Di Franco non si ricorda di me quel giorno”.
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L’ex sovrintendente di Polizia ha inoltre detto di non aver mai visto Arcangioli e di non sapere se Giuseppe Ayala quel 19 luglio fosse presente nel luogo della strage. Trascorsero mesi, però, prima che su input dell’allora Capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera, Maggi scrisse una relazione di servizio su quanto avvenuto in via d’Amelio. “Mi sfuggì… al momento poi fui aggregato ai gruppi di lavoro ‘Falcone e Borsellino’ e la relazione di servizio non la feci più passò in secondo piano. Me lo fece notare il dottore La Barbera che si infuria pure e fece la relazione”, ha commentato. Al netto delle perplessità sulla sua ricostruzione, la testimonianza di Maggi rimane importante perché evidenzia un elemento cruciale dell’attentato: “Quel giorno notai molta gente in abito scuro e quindi… immaginai anche io qualcosa… che i servizi erano presenti. Infatti, mi stupì… ha distanza di dieci minuti, un quarto d’ora questa gente stava tutta là. Mi hanno fatto vedere delle foto a Caltanissetta se riconoscevo qualcuno… qualcuno lo conoscevo dei servizi. Li vidi transitare alla Mobile qualcuno di questi… qualcuno veniva dal dottor La Barbera, prima del fatto di Borsellino. I servizi qualcosa sanno… Il mio ricordo è molto nitido. Non svanisce mai… È sempre impresso nella mia mente”.
Un’intervista preziosissima, la definisce Trocchia, perché “sottolinea un elemento contenuto anche nelle motivazioni del processo Borsellino quater. Quando viene ucciso Paolo Borsellino subito dopo si aggirano in via d’Amelio uomini dei servizi segreti che non gocciolavano di sudore, erano vestiti in giacca e cravatta e cercavano la borsa di Paolo Borsellino. Non dimentichiamo un altro particolare, ovvero che il procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra affida ai servizi segreti, a Bruno Contrada, una parte delle indagini su via d’Amelio. I servizi tornano troppe volte in questa storia e personaggi sono sempre quelli”.
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Il caso del maresciallo Lombardo, 28 anni di depistaggi
Nel corso della puntata si è parlato anche del Maresciallo Antonino Lombardo, comandante della Stazione dei Carabinieri di Terrasini, morto il 4 marzo 1995. La verità ufficiale parla di una morte per suicidio: Lombardo si sarebbe sparato alla tempia con la sua pistola d’ordinanza mentre si trovava in auto alla Caserma Bonsignore di Palermo. Ma a questa versione non hanno mai creduto i figli Fabio e Rossella Lombardo, invitati in studio da Giletti. I due lottano da quasi trent’anni perché si dimostri che il maresciallo sia stato in realtà ucciso. Durante la trasmissione si è ricostruita la vicenda partendo dalla grande stima e credibilità di cui godeva Lombardo tra gli addetti ai lavori. Il magistrato Paolo Borsellino diceva: “Quando parla il maresciallo Lombardo bisogna stare in silenzio”. “In effetti era quasi impossibile contraddirlo, perché la mafia la conosceva molto bene”, ha commentato Fabio Lombardo.
Le sue abilità investigative furono così raffinate che diversi ex mafiosi chiedevano espressamente di lui per fare rivelazioni. Era diventato “il principale interlocutore di Salvatore Cancemi, pentito che gestiva in quel periodo e che più di tutti conosceva la verità sulla strage di via d’Amelio”, ha ricordato Fabio Lombardo. “Nostro padre incontrò la moglie di Borsellino, Agnese, e le disse ‘finalmente ce l’abbiamo fatta, a breve le porterò la verità sulla morte di suo marito in un vassoio d’argento’. Era convinto di avere la verità in tasca”, ha rammentato ancora il figlio del maresciallo.
Non solo. Lombardo, ha ricordato Giletti in diretta, “fece una relazione fondamentale il 29 luglio 1992 per la cattura di Riina. In quella relazione c’era la pista che solo sei mesi dopo hanno seguito i carabinieri per arrivare al Capo Dei Capi. Lombardo diceva che latitanza era favorita dalla famiglia della Noce Ganci-Spina”. E così fu. Le sue abilità da investigatore, il fatto che importanti pentiti si fidassero ciecamente di lui e l’essere a conoscenza di informazioni delicatissime su vicende altrettanto delicate che Lombardo era pronto a trasmettere agli organi competenti, lo hanno fatto finire nel tritacarne dello Stato occulto.
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“Questo è un assassinio calcolato da tempo da quelle ‘raffinatissime menti’ che poco hanno in comune con quanti in silenzio combattono la piovra mafiosa”, venne detto il giorno del funerale.
I figli sostengono questa versione. E, ribadiscono, si trattò di omicidio. “Non ha mai manifestato momenti di debolezza, di sconforto così eclatanti da portarlo a pensare a un gesto simile (il suicidio, ndr)”, ha detto il figlio a Giletti. Ma oltre allo stato psicologico che, a detta della famiglia, non tradiva segni di “cedimento”, ci sono elementi fattuali incontestabili che non riconducono in alcun modo a una morte auto-inflitta come l’Arma ha sempre e prontamente sostenuto sin da subito. La più grande incongruenza con la versione del suicidio è la posizione in cui il corpo è stato ritrovato quel giorno alla Caserma Bonsignore di Palermo. Il maresciallo venne trovato seduto nella sua vettura al posto del guidatore con la pistola ancora in mano in una posizione innaturale, sopra il bacino, quando, come ha fatto presente lo stesso Giletti, il braccio sarebbe dovuto “rimbalzare” di lato per il rinculo della pistola. Allo stesso tempo, aggiunge Giletti, “è impossibile tenere in mano la pistola dopo un suicidio. Il rinculo è troppo forte”.
Singolare è anche la traiettoria del proiettile, come sostiene il perito chiamato dalla famiglia. “Ci sono foto in cui si vede il foro di entrata e di uscita. Ma la mano di mio padre non poteva essere dritta, come è”. Si tratta solo alcuni di svariati elementi che, ritiene il perito, riconducono all’omicidio.
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“Della vicenda Lombardo, la verità ufficiale falsa. Siamo davanti a un depistaggio”, hanno commentato i figli. Sul corpo non fu nemmeno fatta un’autopsia.
“Non ho mai capito se il magistrato di turno di quella sera ha deciso spontaneamente di non fare l’autopsia o se è stato consigliato, spinto da qualche ufficiale o se si sia opposto”, ha detto Fabio Lombardo. “Io trovai mio padre già dentro una bara con la divisa, pulito. Alle 6 e mezzo, loro dicono che sia morto intorno alle 10.30. La famiglia viene a sapere della morte alle 12.30”, ha ricordato indignato. Ma non finisce qui. “Nell’immediatezza arriva un medico militare a farmi una iniezione”, ha ricordato la figlia del maresciallo. “Io rimango scioccata perché quest’uomo si avvicina a me senza chiedermi il permesso o darmi spiegazioni, io arrivo a chiedergli semplicemente cosa sta facendo e mi risponde ‘è la prassi’. La stessa cosa venne fatta a mia madre. Dopodiché ho sentito un senso di paralisi. Io vorrei approfittare ufficialmente all’Arma dei Carabinieri se davvero la prassi dopo aver dato la notizia di una tragedia è di riceve queste iniezioni”, ha detto Rossella Lombardo.
“Dopo di questo arriva un ufficiale dell’Arma a cercare i documenti di mio padre. E mi urla ‘dove sono i documenti di tuo padre?!’ Chiedevano con insistenza e in modo violento i documenti. Mi appettavo conforto, o parole d’affetto verso una sedicenne che ha appena scoperto di aver perso il padre. Invece no. Poi mi prese per le braccia perché vedeva che non rispondeva alla sua richiesta e mi strattonò continuandomi ad urlare. Io a quel punto lo portai verso il salotto e vidi che c’erano già carabinieri che rovistavano tra i cassetti”. L’intervista si chiude con il conduttore che chiede al procuratore Capo di Palermo Maurizio de Lucia di aprire un’indagine sul caso.
“L’Arma porta avanti questa storia del suicidio da 28 anni senza alcuna prova, sono stanco”, ha detto Fabio Lombardo. “Non so più cosa fare. Ho portato tante prove che conducono all’omicidio. Eppure, la procura di Palermo ha sempre archiviato. Mi manca solo fare resuscitare mio padre per farlo testimoniare. Abbiamo fatto un nuovo esposto ma il problema è la procura che non ha mai voluto aprire il caso. Ha sempre archiviato in modo insignificante. Nella prima archiviazione loro dicono di avere la certezza assoluta del suicidio”.
13 Febbraio 2023
Guarda la puntata: la7.it/nonelarena