autore: Andrea Cinquegrani
Balla la samba l’uomo che ha inventato Mani Pulite, Antonio Di Pietro, fresco inviato speciale in Brasile per dare una mano ai colleghi carioca impegnati da quasi due anni nella maxi inchiesta “Lava Jato”, la Tangentopoli in salsa paulista che sta portando all’impeachment del presidente Dilma Rousseff e alla sbarra mezzo mondo politico e imprenditoriale, anche italiano. Una coincidenza che nelle indagini sia coinvolto fino al collo il nostro colosso petrolifero, l’Eni? E quello dell’impiantistica, Saipem (che proprio oggi festeggia due maxi commesse in Indonesia)? Nonchè il pezzo da novanta di casa Rocca, ossia la Techint? Big e società, ovviamente, oscurati dai media di casa nostra. Ai quali è sfuggito anche il volo dell’ex Tonino nazionale a Brasilia, per portare il suo Verbo, “ammaestrare” le toghe verdeoro, impartire lezioni di Legalità & Moralità Pubblica. E chissà se il pm italo-brasiliano Sergio Moro e i suoi colleghi di Lava Jato conoscono fino in fondo la storia della maxi tangente Enimont, costata la vita all’ex vertice Eni Cagliari e costato neanche un giorno di galera al super faccendiere Francesco Pacini Battaglia, “l’uomo a un passo da Dio”, secondo la mitica definizione allora dipinta da Di Pietro.
Partiamo, nella nostra ricognizione, dall’ultima tappa. E cioè dall’auditorium della Procura di Brasilia, dove lo scorso 27 giugno si è tenuto un mega seminario promosso dal ministero della Giustizia e dall’alta corte brasiliana. Ecco il titolo: “I grandi casi criminali – L’esperienza italiana e le prospettive in Brasile”. Guest star, ovviamente, l’ex poliziotto da Montenero di Bisaccia. “Una standing ovation, per lui – racconta un avvocato che ha assistito alla lectio magistralis – un intervento molto equilibrato anche se con la sua consueta passione. Era stato qui, lo ricordo, da parlamentare europeo. Ma negli ultimi mesi i media locali hanno pubblicato alcune sue interviste proprio a proposito della nostra Lava Jato”.
Come quella rilasciata al quotidiano “Folha St. Paulo”, in cui – osserva un cronista locale – l’ex procuratore del pool di Milano ha messo in guardia i colleghi brasiliani, in particolare sulla possibilità di un percorso simile a quello italiano, dopo la salita al potere di Silvio Berlusconi”.
E soprattutto quella concessa a Luiza Bandera, corrispondente per la Bbc dal Brasile, alla quale Tonino apre il suo cuore e spiega perfino perchè quel giorno buttò la toga alle sue spalle, proprio quando era osannato come “Il Tribuno” (così si intitolava un libro scritto dal giornalista Rai Alberico Giostra, che allora ne scrisse di cotte e di crude sull’ex pm) in tutto il Belpaese. “Noi magistrati allora fummo delegittimati sia in ambito professionale che come persone, con la complicità di alcuni mezzi di informazione. Io, in particolare, fui raggiunto da varie accuse infondate, tra cui quella di aver effettuato arresti illegali, di essere un agente segreto al servizio della Cia, di aver provocato il suicidio di alcuni inquisiti, di aver agito per distruggere il sistema dei partiti, di essere io stesso coinvolto in attività illegali e così via. Accuse che, alla fine, mi obbligarono a rassegnare le dimissioni come magistrato per potermi difendere come uomo libero, come ho fatto con successo”. E per farsi capire meglio, rincara: “non ho fatto Mani pulite per entrare in politica. Ho lasciato la magistratura il 6 dicembre 1994 e mi sono candidato per la prima volta in autunno del 1997, solo dopo aver dimostrato in sede giudiziaria che le accuse che mi avevano lanciato erano tutte inesistenti e solo dopo aver ottenuto la condanna di quelli che avevano tentato di delegittimarmi”.
Alla giornalista che gli chiede come mai Berlusconi conquistò il potere in Italia, così risponde: “per colpa dei politici corrotti e degli imprenditori collusi, non per colpa dei giudici che lo processarono. Tanto che poi lo stesso Berlusconi è stato processato, condannato ed espulso dal parlamento”. E poi, un consiglio alle toghe carioca impegnate nella maxi Lava Jato: “Non ho consigli da dare, ma posso solo ripetere le parole che il procuratore di Milano Saverio Borrelli diceva quando cercavano di impedire il nostro lavoro: ‘resistere, resistere, resistere’. Questo è il messaggio che lascio ai colleghi brasiliani”.
LA LAVA JATO VERDEORO E LA MAZZETTA DEL SECOLO
Tra le due Mani pulite, però, qualche differenza, corre. E anche “abissale”, partendo dalle cifre. La madre di tutte le mazzette made in Italy fu – guarda caso – la “maxi tangente Enimont” (da Eni allora a Eni oggi, via Brasile, il prodotto evidentemente non cambia) che totalizzava 17 miliardi di vecchie lire, suddivise tra tutte le correnti dei partiti (esclusi, allora, solo Lega e Msi). Su quella mazzetta cascarono tutti i tesorieri, capibastone e ras di partito: compreso ‘O ministro Paolo Cirino Pomicino, “l’unica condanna su 33 processi”, gonfia ancora oggi il petto. Bazzecole, comunque, quei 17 miliardi di lire nei confronti dell’ammontare già accertato della tangente versata da Petrobras e consorelle (tra cui le nostre Eni, Saipem e Techint) alla classe politica verdeoro per portare avanti gli affari petroliferi in tutta tranquillità: 2 miliardi di dollari. E soprattutto un’autentica pinzelacchera se rapportata al bottino globale che sta man mano emergendo dalle indagini, e che – secondo alcune attendibili ricostruzioni – potrebbe raggiungere una quota storica, una vetta da Guinness dei primati: superando lo stratosferico tetto dei 20 miliardi!
Del resto, per comprare istituzioni, governi e opposizione, i liquidi non bastano mai. Perchè al centro degli scandali ormai dilaganti in Brasile, non c’è solo il Partito dos Trabalhadores di Ignazio Lula Da Silva, l’ex presidente che ha cercato di farsi eleggere ministro per evitare la galera, e Dilma Rousseff, il capo dello stato “sospeso” per sei mesi in attesa del probabile impeachment; ma gli schieramenti di “presunta” (anche lì) opposizione, in particolare il “centrista” (tanto per rubare meglio) PMDB, ossia il “Partito del Movimento Democratico Brasiliano”.
Coinvolto fino al collo, infatti, il presidente della Camera, Eduardo Cunha, storicamente ‘democratico’, indagato per aver ricevuto un’altra maxi mazzetta dalla generosa Petrobras, i cui rubinetti sono sempre aperti per gli inquilini dei Palazzi: a Cunha sono stati donati 5 milioni di real per poter costruire due trivelle petrolifere.
E altre nubi giudiziarie si addensano sul capo dello storico numero uno del PMDB, Michele Temer, ovvero il “Grande Moralizzatore”, l’uomo che ha attaccato a testa bassa la Lula-Rousseff band, il vice capo di Stato che ora – nella vacatio presidenziale – regge le sorti (sic) del Paese. Il primo aprile di quest’anno – autentico pesce verdeoro – una sentenza pronunciata dalla Corte Suprema carioca ha infatti imposto al Parlamento di iniziare un secondo procedimento di impeachment: stavolta contro il numero due, il sostituto, Temer! Racconta un cronista locale: “Siamo ormai sull’orlo del baratro e il Paese è senza guida. Se cade il presidente, non si può mettere al suo posto il vice perchè è anche lui sotto inchiesta. E non va meglio con la terza carica dello Stato, il presidente della Camera. E se il PT piange il PMDB certo non può ridere, alle prese come è con scandali relativi anche ad altri grossi appalti pubblici per la realizzazione di alcune dighe che stanno devastando l’ambiente e gettando nella disperazione decine di migliaia di indios. Secondo molti siamo sotto una dittatura giudiziaria. Ma secondo i più siamo in presenza di un tale livello di corruzione che non se ne salva nessuno. Almeno da voi in Italia parecchi si salvarono, all’epoca di Mani pulite, sia a livello politico che soprattutto tra i faccendieri e gli imprenditori mai toccati e che non hanno subito alcuna conseguenza”.
‘SUICIDATI’ E INTOCCABILI
A rimetterci le penne, tra gli altri, Gabriele Cagliari e Raul Gardini. I quali si “suicidano” a distanza di tre giorni uno dall’altro: il primo nel carcere di San Vittore, avvolgendosi la testa con un sacchetto di plastica, il 20 luglio 1993, il secondo sparandosi un colpo alla tempia il 23 luglio nel suo palazzo Belgioioso, il giorno prima della verbalizzazione clou.
Ecco cosa denunciò Ferdinando Imposimato nel volume “Corruzione ad Alta Velocità”, scritto a quattro mani con Sandro Provvisionato sedici anni fa, nel 1999, oggi più attuale che mai, visti i maxi sperperi di danari pubblici, corruttele e danni ambientali incentivati dai lavori per la Tav (e attualissimo perché parecchi nomi di sigle & uomini spesso e volentieri “tornano”). “Sono andato a rileggere l’elenco dei nomi dei principali imputati del processo Enimont: non nascondo un brivido che mi ha attraversato la schiena. Alcuni di quegli imputati come Gabriele Cagliari furono letteralmente torturati psicologicamente e tenuti in carcere fino alla morte. Per suicidio. Altri, come Raul Gardini, furono minacciati senza pietà di arresto fino alla morte. Per suicidio. Altri ancora – è il caso di Sergio Cragnotti e Francesco Pacini Battaglia – il carcere lo hanno visto appena (il primo) o, almeno a Milano, non l’hanno visto mai (il secondo)”.
Illuminante, soprattutto, la Pacini Battaglia story. Un nome, quello del brasseur d’affari toscano, davvero a un passo da Dio, per moltissimi anni. E forse ancora oggi, visto che la sua sagoma è tornata alla ribalta (ma ovviamente oscurata dai media) in occasione della maxi inchiesta della procura di Roma sui “Grandi Appalti” – guarda caso – Tav & dintorni, con un Ercole Incalza nel motore, poi sostituito dal ministro Graziano Delrio al vertice di quella struttura di “missione” alle Infrastrutture che aveva guidato per anni. Un tandem che aveva cominciato ad operare nella giusta “ombra”, al riparo da sguardi indiscreti, fin dall’inizio dei ’90, quello Pacini Battaglia-Incalza, come documentò un’inchiesta della Voce. Poi continuando ad agire indisturbato per un ventennio, senza che mai alcun magistrato abbia osato ficcare il naso in quelle vicende.
Perchè le verità custodite da un pezzo da novanta come Pacini Battaglia, depositario dei segreti di mezza Italia, a cominciare da quelli inabissati col relitto dell’Itavia ad Ustica (era in società con il cavaliere del lavoro Eugenio Buontempo – il suocero di Italo Bocchino – per dragare i fondali, Pacini Battaglia, nonchè per addestrare piloti libici) non possono essere né conosciute, né svelate né tantomeno indagate?
Ai magistrati carioca, a cominciare dal capo del pool, Sergio Moro, di origini veneziane, consigliamo la lettura del libro (che non risulta abbia mai ricevuto una smentita, neppure per un rigo) scritto da Imposimato e Provvisionato. Anche per poter discutere con il “Maestro”, al prossimo appuntamento carioca, con qualche pezza d’appoggio in più. E valutare il “peso” dei suoi consigli di lavoro. Avviso per i lettori-naviganti. Per queste (e altre) vicende Antonio Di Pietro è stato processato e assolto dal tribunale di Brescia perché il fatto “non sussiste”. E con una motivazione che non di rado sorride ai pezzi da novanta (come è stato, per fare un solo caso, con l’ex generale del Ros Mario Mori per il covo di Totò Riina e la mancata cattura di Bernardo Provenzano): si tratta di comportamenti (come nel caso di Di Pietro) molto gravi sotto il profilo etico, morale, deontologico, professionale, personale, ma non penalmente rilevanti. Cin cin.
Ecco di seguito alcuni passaggi dal libro di Imposimato e Provvisionato, dettagliati per pagina.
TUTTI GLI UOMINI A UN PASSO DA DIO
Pagina 7. “Tangentopoli ha certamente influenzato la crisi del sistema politico italiano, ma non l’ha determinata. La crisi covava da anni e la corruzione politica era uno dei fattori, non il solo. Il sistema politico è stato corroso non solo da un personale politico usurato dal tempo ma da affaristi occulti legati spesso a poteri occulti. Per fare un solo esempio, un personaggio come Pierfrancesco Pacini Battaglia, di cui tanto si parla in questo libro. Pochissimi ‘intimi’ ne conoscevano l’esistenza, ma egli esercitava un potere corruttivo enorme, con complicità vaste in tutti i campi dell’amministrazione pubblica e della magistratura”.
Pagina 87. “In un’altra intercettazione Pacini Battaglia, parlando con un imprenditore, fa riferimento alla difficoltà di costituire fondi in nero. Poi, affrontando la questione dell’inchiesta milanese ‘mani pulite’, dice: “ti spiego, io sono convinto che… noi siamo usciti da, voi siete usciti da mani pulite o io sono uscito da mani pulite solo perchè si è pagato…”.
Pagina 93, a proposito delle verbalizzazioni dell’ex presidente Agip Raffaele Santoro: “Esiste da tempo – racconta l’ex dirigente – una sorta di ‘cartello’, quantomeno un patto di non belligeranza, tra quattro società di ingegneria, formato da Snamprogetti, Tpl, Ctip e Techint. Il garante e arbitro è il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia”. Poi: “Il racconto di Santoro resterà lettera morta. Pacini Battaglia farà la sua comparsa (una vera comparsata durata appena dieci ore, giusto il tempo di un interrogatorio) solo nell’affare dei fondi neri Eni”.
Pagina 95: “In questo intreccio di mazzette resta sempre centrale la figura di Pacini Battaglia, il quale avrebbe reso possibile la costituzione di fondi neri societari all’estero, nel tentativo di rendere invisibili i beneficiari di quel denaro. Tutto questo lo scopriranno i magistrati di Perugia. Ma perchè, pur incappando ben cinque anni prima, negli affari sporchi della Tpl, Antonio Di Pietro, e con lui Gherardo Colombo, non erano riusciti a venire a capo di nulla? Eppure, sempre nel 1993, interrogato dai magistrati del pool di Milano, il finanziere Sergio Cragnotti aveva raccontato di aver ricevuto dalla Tpl cinque miliardi, soldi poi bonificati da Pacini Battaglia. Due miliardi, aveva riferito Cragnotti, li aveva tenuti per sé, due erano finiti a Gardini, e l’ultimo a Necci e Pacini Battaglia. Ma ascoltato dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli, Pacini Battaglia nega tutto e sconfessa Cragnotti. Ed ecco la seconda stranezza: anziché essere messo a confronto con Cragnotti da Di Pietro, Pacini Battaglia viene creduto come un oracolo e mandato a casa. Non era mai accaduto nel ‘rito ambrosiano’ officiato da Di Pietro, che un imputato, disposto non solo a confessare, ma soprattutto a fare dei nomi e a fornire dei presici riscontri obiettivi che a distanza di anni sono stati trovati, non sia stato creduto. Mentre un altro imputato, che dello stesso fatto negava tutto, venisse prima creduto e subito dopo lasciato libero di inquinare le prove. E di corrompere – secondo i pm di Perugia – diverse altre persone. Per questa brutta pagina giudiziaria Di Pietro finirà sotto inchiesta davanti ai magistrati di Brescia che nel marzo 1998 lo accuseranno, tra l’altro, di aver omesso di sviluppare, dal punto di vista investigativo, ‘come sarebbe stato necessario e possibile, attraverso rogatorie internazionali, le notizie fornite’. In altre parole la procura di Brescia raggiungerà la convinzione che Di Pietro, da pm a Milano, avesse favorito il banchiere, omettendo una serie di indagini sul suo conto e salvando di fatto personaggi come Necci. Secondo i magistrati bresciani, infatti, Di Pietro aveva revocato la rogatoria con la Svizzera che avrebbe consentito di scoprire che presso la banca Karfinco di Ginevra, cioè la banca di Pacini, erano accesi conti intestati a diversi coindagati, tra i quali i responsabili dell’Eni e della Tlp. Ma il gip di Brescia Anna Di Martino ha prosciolto Di Pietro da tutte le accuse con la formula ‘perchè il fatto non sussiste’”.
Pagina 97. “Un’altra domanda s’imponeva, rimasta senza risposta: come mai Di Pietro lasciò Pacini Battaglia libero? Non c’era per il faccendiere, fulcro di tutti gli imbrogli dell’Enimont, quel rischio d’inquinamento delle prove tanto spesso tirato in ballo per arrestare e tenere in galera tanti personaggi dello spessore criminale decisamente inferiore a quello di Pacini Battaglia? Rischio che ordinanze del tribunale di Milano del 1 dicembre 1997 e del gip di La Spezia e di Perugia hanno confermato? E’ solo una coincidenza che anche costui fosse difeso dal solito avvocato Peppino Lucibello, amico intimo di Di Pietro, lo stesso legale per il quale i magistrati di Perugia chiederanno, senza però ottenerla, l’incompatibilità nella difesa del suo assistito? E come mai il cervello così carico di saggezza popolare del pm milanese non venne neppure sfiorato dall’idea di procedere ad una serie di confronti incrociati tra Cragnotti e Pacini, tra Cragnotti e Necci e tra Necci e Pacini? Perchè Di Pietro lasciò che un calibro da 90 come Pacini venisse interrogato da Borrelli che poco o nulla sapeva dei dettagli della vicenda di cui Cragnotti aveva parlato? Perchè, guarda caso, i nomi di Pacini, Necci e Cragnotti verranno stralciati dal processo Enimont? Perchè in questa vicenda Di Pietro non ha usato quella sua personalissima tecnica, ampiamente collaudata, e cioè tenere dentro tutti: Cragnotti, reo confesso, Necci, chiamato in correità e Pacini Battaglia, chiamato anche lui in correità?
Pagina 98, a proposito dei vari filoni d’inchiesta sull’alta velocità. “Nel corso di un vertice per chiarire alcune sovrapposizioni di indagine, vertice che si svolge nel palazzo di giustizia della capitale e al quale partecipano diversi sostituti di Roma e Milano, viene deciso lo sdoppiamento dell’appena nata inchiesta sull’alta velocità. Al vertice partecipano anche Giorgio Castellucci e Antonio Di Pietro. E’ stato lo stesso Castellucci, nell’ottobre del 1996, a spiegare come andarono le cose. Il magistrato romano nel ’93 aveva appena aperto il fascicolo sull’alta velocità, ma Di Pietro – racconta Castellucci – gli confidò che su quell’argomento aveva cominciato a parlare l’imprenditore Vincenzo Lodigiani, secondo il quale intorno al progetto Tav c’era una vera e propria lottizzazione tangentizia. Fu così che a Roma rimase l’inchiesta sulla correttezza delle procedure con cui era stata costituita la Tav spa di Ercole Incalza, mentre quella sugli appalti per l’alta velocità ferroviaria finì a Milano nelle mani di Di Pietro. La tranche d’inchiesta presa in carico da Di Pietro a tutt’oggi (1999, ndr) non si sa che fine abbia fatto. Di Pietro se ne spoglia quando nel dicembre 1994 abbandona la toga”.
Pagina 99. “Sospeso Castellucci dal suo incarico, la tranche romana passa ad un altro pm, Giuseppe Geremia. Costei, per prima cosa, vuole vederci chiaro in quella strana spartizione di atti giudiziari avvenuta nel 1993 tra Castellucci e Di Pietro. Alla Geremia non era scappato un particolare: non era la prima volta che Di Pietro si appropriava di un’inchiesta nata a Roma. Era già accaduto. Era successo con l’inchiesta sui soldi spariti della cooperazione, di cui era titolare il sostituto procuratore di Roma Vittorio Paraggio. (…) L’11 giugno 1993 Paraggio aveva ricevuto un fax da Di Pietro – ma l’ex pm milanese ha negato questa circostanza – nel quale lo invitava a trasmettergli gli atti relativi alla posizione di Pierfrancesco Pacini Battaglia, che Paraggio aveva iscritto nel registro degli indagati assieme, tra gli altri, all’allora segretario del Psi Bettino Craxi, all’ex ministro degli Esteri, anche lui socialista, Gianni De Michelis e al finanziere Ferdinando Mach di Palmenstein. Nell’abitazione parigina di quest’ultimo, intestata all’attrice Domiziana Giordano, erano stati trovati documenti, alcuni dei quali si riferivano proprio ad Antonio Di Pietro. Paraggio aveva indagato Pacini Battaglia a proposito di un progetto di cooperazione che si sarebbe dovuto realizzare in Africa e di cui si occupava l’imprenditore Paolo Ciaccia, titolare della Ctip. Ma nel fax – stando alla versione di Paraggio – Di Pietro insisteva per avere le carte relative al banchiere italo svizzero. Il motivo: Pacini Battaglia, indagato anche a Milano, nell’ambito del processo Enimont, stava collaborando. Era quindi opportuno evitare qualsiasi forma di sovrapposizione. A quel punto Paraggio aveva deciso di stralciare la posizione del finanziere e l’8 luglio 1993 l’aveva inviata per competenza alla procura di Milano. (…) Basterebbe questa nuova invasione di campo di Di Pietro per far drizzare le orecchie a chiunque. Prima la faccenda dell’alta velocità in cui Pacini Battaglia ha avuto un ruolo determinante, poi quella della cooperazione, dove il pubblico ministero punta la sua attenzione proprio su di lui, sul tanto discusso banchiere. Se una coincidenza è una coincidenza, due diventano un indizio. Almeno così ragionava Antonio Di Pietro quando faceva il magistrato. Ma c’è di più, molto di più. Che Roma stesse indagando su Pacini Battaglia fin dal 1993 lo scoprono i sostituti di La Spezia Cardino e Franz. Sono loro a chiedersi che fine avrà fatto quell’inchiesta. Prendono quindi contatto con la procura di Roma, scoprendo che quegli atti sono stati inviati da Paraggio a Milano. Cercano allora i colleghi di Milano. Di Pietro non è più ormai da tempo in magistratura, è vero, ma quelle carte su Pacini Battaglia dove sono mai finite? I magistrati di Milano cadono dalle nuvole. Qui da noi sul faccendiere e sui suoi affari con la cooperazione non c’è proprio nulla. Si scopre così che quegli atti, quelle carte sono scomparsi. Spariti, volatilizzati. In altre parole non si trovano più. Risultato: certamente il più gradito a Pacini Battaglia. Per tre anni nessuno ha indagato su di lui. I magistrati di Roma perchè avevano stralciato la posizione, inviandola a Milano. Quelli del capoluogo lombardo perchè Pacini Battaglia era indagato nell’inchiesta sulla cooperazione e dell’inchiesta sulla cooperazione si occupava Roma. Ma ci sono altri atti che sono spariti. A Roma non si trovano più alcuni documenti sequestrati a Mach di Palmenstein. Già, proprio così, alcuni documenti facenti parte del dossier in cui si parla ancora di lui: Antonio Di Pietro”.
Pagina 103. “E’ così che il sostituto di Roma Vittorio Paraggio finisce nei guai. Sarà indagato dalla procura di Perugia e solo nel 1999 la sua posizione verrà archiviata. I sospetti su Di Pietro finiranno a Brescia. Archiviazione anche per lui. A scoprire l’arcano sono i pm di Perugia che scrivono: ‘Gli atti relativi a Pacini (in tema di cooperazione) sono stati effettivamente trasmessi a Milano’, dopo che, su istanza di Lucibello, il pm Di Pietro chiese al collega Paraggio di non svolgere indagini su Pacini in quanto stava offrendo rilevante collaborazione nelle indagini svolte dalla procura di Milano”.
Pagina 126, da una conversazione intercettata fra Pacini Battaglia e il suo precedente difensore, l’avvocato Marcello Petrelli. E’ Pacini che parla: “oggi come oggi noi siamo usciti da mani pulite pagando, intrafugnando. (…) quello che ti voglio dire… a me se acchiappano Lucibello e Di Pietro… hanno i soldi in Austria, io sono l’uomo più contento del mondo… vediamo di capirsi… io non ho sposato Di Pietro, né ho sposato Lucibello. A me Di Pietro e Lucibello mi hanno sbancato… a me se li buttano dentro tutti e due… mi fai l’uomo più felice del mondo”.
Pagina 127. “Il fatto certo è che Pacini Battaglia, pur inquisito dalla procura di Milano, negli anni 1993-95 non ha subito alcuna custodia cautelare. Così come è sicuro che l’indagine a suo carico venne svolta in via esclusiva, e comunque predominante, da Di Pietro (così come hanno affermato, con indiscutibile chiarezza, altri due magistrati del pool, Colombo e Greco). Altrettanto fondato è che per evitare di essere incarcerato Pacini si presentò spontaneamente al dott. Di Pietro, assistito dall’avv. Lucibello (frequentatore e commensale abituale del pm). C’è infine un’altra certezza: in concomitanza con questi fatti Pacini Battaglia provvide a rivendere, al prezzo di 4 miliardi e mezzo, all’imprenditore Antonio D’Adamo (anche lui amicissimo di Di Pietro) le azioni di una società a lui vicina, la Morave Holding. Ripetiamo: al prezzo di 4 miliardi e mezzo di lire, dopo che solo venti giorni prima le aveva acquistate dalla Atlantic Finance al prezzo doppio di 9 miliardi”.
Pagina 131, a proposito di telefonini. “Tra le tante schede Gsm, acquistate in Svizzera e distribuite da Pacini ai suoi numerosi amici, l’utenza Gsm n.041/892009854 è stata certamente usata da Di Pietro. Le schede Gsm svizzere avevano all’epoca una particolarità: rendevano praticamente inintercettabili i telefonini che le usavano. Queste schede erano tutte intestate a Henri Lang, autista di Pacini Battaglia. Una cosa è più che mai sicura. Né il magistrato Di Pietro, né l’avvocato Lucibello hanno mai dato una spiegazione convincente del come e del perchè sia potuto accadere che mentre Pacini Battaglia era indagato da Di Pietro, costui avesse in uso telefonini riconducibili all’indagato predisposti per evitare l’ascolto di orecchie indiscrete. (…) Perchè Pacini Battaglia, uno dei più grandi maneggioni viventi, pur essendosi già affidato ad altri studi quotati studi legali, sceglie come legale sulla piazza di Milano proprio lui, il per nulla quotato avvocato Lucibello, notoriamente legato però al famoso pm e giustamente orgoglioso di cotanta amicizia? (…) (…) Perchè nei confronti dei conti privati di Pacini Battaglia non vennero mai concluse rogatorie internazionali? Perchè molte rogatorie richieste vennero classificate come non urgenti e quindi di ordinaria amministrazione? Perchè in alcuni casi allo stesso Pacini Battaglia venne consentito, tramite il suo legale, l’avv. Lucibello, di conoscere in anticipo le tematiche che sarebbero state affrontate nel corso degli interrogatori? Perchè nessuna seria indagine venne mai fatta nei confronti di Roger Francis, principale collaboratore di Pacini Battaglia? (…) Nel frattempo Pacini Battaglia sembrava interessato a proseguire nei suoi rapporti privilegiati con il suo amico ‘inquisitore’ divenuto ministro, liberandolo dalla presenza ingombrante di un suo collaboratore, un magistrato torinese, Mario Cicala”.