Marx (1847)
Introduzione del 1891 di Friedrich Engels
Lo scritto che segue apparve come serie di articoli editoriali nella Neue Rheinische Zeitung, a partire dal 4 aprile 1849. Base di esso sono le conferenze che Marx tenne nel 1847 alla Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles. La sua pubblicazione fu interrotta; il “continua”, che si trova alla fine dell’articolo pubblicato nel numero 269, non ebbe alcun seguito a causa del precipitare degli avvenimenti, della marcia dei russi in Ungheria, delle insurrezioni di Dresda, di Iserlohn, di Elberfeld, del Palatinato e del Baden, che portarono alla soppressione del giornale (19 maggio 1849). Il manoscritto del seguito non è stato trovato tra le carte lasciate da Marx [1].
Lavoro salariato e capitale è stato pubblicato parecchie volte come opuscolo; l’ultima volta nel 1884, Hottingen-Zürich, Tipografia cooperativa svizzera. Tutte queste edizioni riproducevano, sinora, il testo esatto dell’originale. Ma poiché l’attuale ristampa dovrà essere diffusa come opuscolo di propaganda e avrà una tiratura non inferiore alle 10.000 copie, mi si è posta la questione se, in queste condizioni, Marx stesso avrebbe permesso una riproduzione integrale dell’originale.
Tra il 1840 e il 1850 Marx non aveva ancora condotto a termine la sua critica dell’economia politica. Ciò avvenne solo verso la fine del decennio 1850-1860. I suoi scritti apparsi prima del primo fascicolo: Per la critica dell’economia politica (1859) [2], si allontanano quindi in taluni punti da quelli che furono composti dopo il 1859, contengono espressioni e interi periodi che, confrontati con gli scritti successivi, appaiono infelici e perfino inesatti [2]. É evidente che in edizioni comuni, destinate al gran pubblico anche questo punto di vista primitivo, che fa parte della evoluzione mentale dell’autore, trova il suo posto, e che l’autore e il pubblico hanno innegabilmente diritto alla edizione di questi vecchi scritti senza alcuna modificazione. Mai mi sarei sognato di cambiare una parola [3].
Le cose stanno altrimenti, invece, quando la nuova edizione è destinata quasi esclusivamente alla propaganda fra gli operai. In questo caso Marx avrebbe senza dubbio messo in accordo la vecchia esposizione che risale al 1849 con il suo nuovo modo di vedere; ed io sono sicuro di agire secondo l’animo suo, apportando a questa edizione [4] le poche varianti ed aggiunte che sono indispensabili per raggiungere questo scopo in tutti i punti essenziali. Dico quindi subito al lettore che questo non è l’opuscolo quale Marx lo aveva steso nel 1849, ma è presumibilmente quale egli lo avrebbe scritto nel 1891. Il testo originale, del resto, è diffuso in così gran numero di copie, che basteranno fino a tanto che non potrò ristamparlo, senza modificazioni né aggiunte, in una ulteriore edizione delle opere complete.
Le mie modificazioni si aggirano tutte attorno ad un sol punto. Secondo l’originale, l’operaio vende al capitalista, per un salario, il suo lavoro; secondo il testo attuale egli vende la sua forza-lavoro. A proposito di questa modificazione devo dare una spiegazione. Una spiegazione agli operai, perché essi vedano che non si tratta di una pedanteria verbale, ma piuttosto di uno dei punti più importanti di tutta l’economia politica. Una spiegazione ai borghesi, perché essi possano convincersi della enorme superiorità degli operai incolti, ai quali si possono rendere facilmente comprensibili i problemi più difficili dell’economia, sui nostri presuntuosi uomini “colti”, cui tali questioni intricate restano insolubili per tutta la vita.
L’economia politica classica [5] prese dalla pratica industriale la rappresentazione corrente del fabbricante, il quale comprerebbe e pagherebbe il lavoro dei suoi operai. Per l’uso commerciale, per la contabilità e per il calcolo dei prezzi del fabbricante, questa rappresentazione era più che sufficiente. Ma trasportata in modo ingenuo nella economia politica, essa vi generò errori e confusioni strane.
L’economia si trova di fronte al fatto che i prezzi di tutte le merci, e fra questi anche il prezzo della merce che essa chiama “lavoro”, variano continuamente; che essi salgono e scendono in seguito a circostanze molto svariate, che spesso non sono in relazione alcuna con la produzione della merce, cosicché di regola i prezzi sembrano determinati dal puro caso. Non appena l’economia si presentò come una scienza [6], uno dei suoi primi compiti fu di cercare la legge che si nasconde dietro a questo caso che apparentemente regge i prezzi delle merci, la legge che, in realtà, regge questo caso stesso. Fra i prezzi delle merci che continuamente oscillano e si spostano ora in alto, ora in basso, essa cercò il punto centrale fisso attorno al quale si compiono queste oscillazioni e questi spostamenti. In una parola, essa partì dai prezzi delle merci per cercare, come legge che li regola, il valore delle merci, col quale si spiegano tutte le oscillazioni dei prezzi ed al quale in conclusione devono essere ricondotte tutte.
L’economia classica trovò dunque che il valore di una merce è determinato dal lavoro che è contenuto in essa, dal lavoro cioè che si richiede per la sua produzione. Di questa spiegazione essa si accontentò, e anche noi, per ora, possiamo fermarci a questo punto. Solo per evitare malintesi, voglio ricordare che questa spiegazione è diventata oggi assolutamente insufficiente. Marx ha per primo indagato a fondo la proprietà del lavoro di creare valore, e ha trovato che non ogni lavoro apparentemente o anche realmente necessario per la produzione di una merce aggiunge a questa merce, in ogni circostanza, una quantità di valore corrispondente alla quantità di lavoro impiegato. Perciò quando noi oggi, per fare presto, diciamo, insieme con economisti come Ricardo, che il valore di una merce si determina per mezzo del lavoro necessario alla sua produzione, sottintendiamo sempre le riserve fatte da Marx. E questo basta, per ora; il resto si trova in Marx, nello scritto: Per la critica dell’economia politica del 1859 e nel I volume del Capitale [7].
Non appena però gli economisti applicarono alla merce “lavoro” questo modo di determinare il valore per mezzo del lavoro, caddero da una contraddizione in un’altra. Come viene determinato il valore del “lavoro”? Dal lavoro necessario che è contenuto in esso. Ma quanto lavoro è contenuto nel lavoro di un operaio, per un giorno, una settimana, un mese, un anno? Il lavoro di un giorno, di una settimana, di un mese, di un anno. Se il lavoro è la misura di tutti i valori, possiamo esprimere il “valore del lavoro” soltanto in lavoro. Ma non sappiamo assolutamente niente del valore di un’ora di lavoro, quando sappiamo soltanto che esso è uguale a un’ora di lavoro. In questo modo non ci siamo avvicinati di un capello al nostro scopo; ci aggiriamo in un circolo vizioso.
L’economia classica tentò allora un’altra via d’uscita. Essa disse: il valore di una merce è uguale ai suoi costi di produzione. Ma che cosa sono i costi di produzione del lavoro? Per rispondere a questa domanda gli economisti debbono fare un po’ di violenza alla logica. Invece di ricercare i costi di produzione del lavoro stesso, che purtroppo non è possibile stabilire, essi ricercano ora quali sono i costi di produzione dell’operaio. E questi è possibile stabilirli. Essi variano secondo il tempo e le circostanze, ma per un dato stato sociale, per una data località, per una data branca della produzione, sono essi pure dati, almeno entro limiti abbastanza ristretti. Noi viviamo oggi sotto il dominio della produzione capitalistica, in cui una classe della popolazione, grande e in continuo aumento, può vivere soltanto se lavora, in cambio di un salario, per i possessori dei mezzi di produzione: strumenti, macchine, materie prime e mezzi di sussistenza. Sulla base di questo modo di produzione, i costi di produzione dell’operaio consistono in quella quantità di mezzi di sussistenza — o nel loro prezzo in denaro — che sono in media necessari per renderlo atto al lavoro, per conservarlo atto al lavoro e per sostituirlo, quando egli scompare per vecchiaia, per malattia o per morte, con un altro operaio, cioè per assicurare che la classe operaia si riproduca nella misura necessaria. Supponiamo che il prezzo in denaro di questi mezzi di sussistenza sia in media di tre marchi al giorno.
Il nostro operaio riceve dunque dal capitalista che lo occupa un salario di tre marchi al giorno. Per questo salario il capitalista lo fa lavorare, poniamo, dodici ore al giorno. E il capitalista fa presso a poco i calcoli seguenti:
Supponiamo che il nostro operaio — un meccanico — debba fare un pezzo di una macchina, e che lo finisca in un giorno. La materia — ferro e ottone, nella forma necessaria precedentemente elaborata — costa venti marchi. Il consumo di carbone della macchina a vapore e il deterioramento di questa stessa macchina a vapore, del tornio e degli altri strumenti con cui l’operaio lavora, rappresentano, per un giorno e per un operaio, il valore di un marco. Il salario giornaliero è, secondo la nostra supposizione di tre marchi. Il totale è, per il nostro pezzo di macchina, di ventiquattro marchi.
Il capitalista calcola però che in media riceverà dai suoi clienti un prezzo di ventisette marchi, cioè tre marchi in più delle spese che egli ha anticipato.
Donde vengono questi tre marchi che il capitalista intasca? Secondo quanto afferma l’economia classica, le merci in media sono vendute secondo il loro valore, cioè a prezzi corrispondenti alle necessarie quantità di lavoro contenute in esse. Il prezzo medio del nostro pezzo di macchina — ventisette marchi — sarebbe dunque uguale al suo valore, uguale cioè al lavoro che è contenuto in esso. Ma, di questi ventisette marchi, ventuno erano valori che esistevano già prima che il nostro meccanico incominciasse a lavorare. Venti marchi erano contenuti nelle materie prime, un marco nel carbone bruciato durante il lavoro, o in macchine e strumenti che sono stati utilizzati e la cui capacità di produzione è stata diminuita per un valore uguale a questo importo. Restano sei marchi che sono stati aggiunti al valore della materia prima. Ma questi sei marchi, come ammettono anche i nostri economisti, possono derivare soltanto dal lavoro che il nostro operaio ha aggiunto alla materia prima. Il suo lavoro di dodici ore ha dunque creato un nuovo valore di sei marchi. Il valore della sua giornata di lavoro di dodici ore, sarebbe dunque uguale a sei marchi. E così avremmo dunque finalmente scoperto che cosa è il “valore del lavoro”.
“Un momento! — esclama il nostro meccanico — Sei marchi? Io non ne ho ricevuti che tre! Il mio capitalista giura su tutti i santi che il valore del mio lavoro di dodici ore è soltanto di tre marchi, e se io ne chiedo sei, si fa beffe di me. Come si spiega tutto questo?”.
Se prima con il nostro valore del lavoro, eravamo giunti a un circolo vizioso, ora siamo caduti sul serio in una contraddizione insolubile. Cercavamo il valore del lavoro, e abbiamo trovato più di quanto ci occorre. Per l’operaio il valore del lavoro di dodici ore è di tre marchi, per il capitalista è di sei, dei quali egli ne paga tre all’operaio come salario, e intasca gli altri tre. Il lavoro non avrebbe dunque uno, ma due valori, e per di più molto diversi!
La contraddizione diventa ancor più assurda non appena riduciamo in tempo di lavoro i valori espressi in denaro. Nelle dodici ore di lavoro viene creato un nuovo valore di sei marchi; quindi in sei ore, tre marchi, la somma che l’operaio riceve per un lavoro di dodici ore. Per dodici ore di lavoro l’operaio riceve come uguale controvalore il prodotto di sei ore di lavoro. Perciò, o il lavoro ha due valori, uno dei quali è doppio dell’altro, o dodici è uguale a sei! In tutti e due i casi ci troviamo di fronte a un puro controsenso.
Possiamo voltarci e rigirarci come vogliamo, non usciremo da questa contraddizione fino a tanto che parleremo di compra e di vendita del lavoro e di valore del lavoro. Ed è appunto ciò che è accaduto agli economisti. L’ultimo prodotto dell’economia classica, la scuola ricardiana, fallì in gran parte per non aver saputo risolvere questa contraddizione. L’economia classica si era cacciata in un vicolo cieco. Chi trovò la via per uscirne fu Karl Marx [8].
Ciò che gli economisti avevano considerato come costo di produzione del “lavoro”, erano i costi di produzione non del lavoro, ma dello stesso operaio vivente. E ciò che questo operaio vendeva al capitalista non era il suo lavoro. “ Appena il suo lavoro comincia realmente — dice Marx — esso ha già cessato di appartenergli e quindi non può più essere venduto da lui” [9]. Egli potrebbe dunque tutt’al più vendere il suo lavoro futuro, cioè assumersi l’obbligo di compiere una determinata prestazione di lavoro in un tempo determinato. Ma in questo modo egli non vende lavoro (che si dovrebbe ancora fare), ma pone a disposizione del capitalista per un certo tempo (salario giornaliero) o per una determinata prestazione di lavoro (salario a cottimo) la sua forza-lavoro, contro una determinata paga; egli cede, cioè vende, la sua forza-lavoro. Questa forza-lavoro è però unita insieme con la sua persona e inseparabile da essa. I suoi costi di produzione coincidono dunque con i costi di produzione dell’operaio: ciò che gli economisti chiamavano costi di produzione del lavoro, sono appunto i costi di produzione dell’operaio e quindi della forza-lavoro. E così possiamo risalire dai costi di produzione della forza-lavoro al valore della forza-lavoro, e determinare la quantità di lavoro socialmente necessario che si richiede per la produzione di una forza-lavoro di qualità determinata, come ha fatto Marx nel capitolo sulla compra e vendita della forza-lavoro*.
Che cosa avviene ora, dopo che l’operaio ha venduto al capitalista la sua forza-lavoro, cioè dopo che l’ha posta a sua disposizione, per un salario convenuto, giornaliero o a cottimo? Il capitalista conduce l’operaio nella sua officina o fabbrica, dove già si trovano tutti gli oggetti necessari per il lavoro, le materie prime, le materie ausiliarie (carbone, coloranti, ecc.), gli utensili, le macchine. E qui l’operaio incomincia a sgobbare. Poniamo che il suo salario giornaliero sia, come prima, di tre marchi, poco importa se guadagnati a giornata o a cottimo. Supponiamo di nuovo, anche in questo caso, che con il suo lavoro di dodici ore l’operaio aggiunga alla materia prima impiegata un nuovo valore di sei marchi, un nuovo valore che il capitalista realizza con la vendita del pezzo finito. Di questo importo egli paga all’operaio tre marchi, e gli altri tre li tiene per sé. Se l’operaio produce in dodici ore un valore di sei marchi, in sei ore produce un valore di tre marchi. Quindi dopo aver lavorato sei ore egli ha già restituito al capitalista l’equivalente dei tre marchi ricevuti come salario. Dopo sei ore di lavoro, tutti e due sono pari; nessuno dei due deve più un soldo all’altro.
“Un momento! — esclama ora il capitalista — Io ho noleggiato l’operaio per un giorno intero, per dodici ore. Sei ore non sono che una mezza giornata. Avanti dunque al lavoro, fino a che anche le altre sei ore siano passate. Solo allora saremo pari!” E in realtà l’operaio deve attenersi al suo contratto “liberamente” concluso, con il quale si impegna a lavorare dodici ore intere, per un prodotto di lavoro che costa sei ore di lavoro.
Con il salario a cottimo è la stessa cosa. Supponiamo che il nostro operaio produca in dodici ore dodici pezzi di merce. Ognuno di essi costa in materie prime e deterioramento due marchi, ed è venduto a marchi 2,50. Per attenerci all’ipotesi di prima, il capitalista darà all’operaio 25 centesimi il pezzo, il che fa, per dodici pezzi, tre marchi, per guadagnare i quali l’operaio deve lavorare dodici ore. Per i dodici pezzi il capitalista riceve trenta marchi; deducendo ventiquattro marchi per materie prime e deterioramento, restano sei marchi, tre dei quali egli li paga per salario, e gli altri tre li intasca. Come nell’esempio di prima. Anche in questo caso l’operaio lavora sei ore per sé, cioè per produrre l’equivalente del suo salario (mezz’ora per ognuna delle dodici ore), e sei ore per il capitalista.
La difficoltà che era insuperabile per i migliori economisti fino a tanto che partivano dal valore del “lavoro”, scompare non appena, invece, si parte dal valore della forza-lavoro. Nella nostra attuale società capitalistica, la forza-lavoro è una merce, una merce come ogni altra, ma ciò nonostante una merce tutta affatto speciale. Essa ha cioè la proprietà specifica di essere forza produttrice di valore, anzi di essere, se viene impiegata in modo appropriato, fonte di un valore maggiore di quello che essa possiede. Nello stato attuale della produzione la forza-lavoro dell’uomo non solo produce in un giorno un valore superiore a quello che essa possiede e a quello che costa; ad ogni nuova scoperta scientifica, ad ogni nuovo perfezionamento tecnico questa eccedenza del suo prodotto giornaliero sul suo costo giornaliero aumenta, cioè si riduce quella porte della giornata di lavoro in cui l’operaio produce l’equivalente del suo salario, e si allunga perciò d’altro lato quella parte della giornata in cui egli deve regalare al capitalista il suo lavoro senza essere pagato [10].
Tale è la costituzione economica di tutta la nostra società attuale: solo la classe operaia è quella che produce tutti i valori. Poiché valore non è che un’altra espressione per lavoro, l’espressione con la quale, nella nostra attuale società capitalistica, viene indicata la quantità di lavoro socialmente necessaria che è contenuta in una merce determinata. Questi valori prodotti dagli operai non appartengono però agli operai. Essi appartengono ai proprietari delle materie prime, delle macchine, degli strumenti e del capitale anticipato, i quali permettono a questi proprietari di comperare la forza-lavoro della classe operaia. Di tutta la massa di prodotti da essa fabbricata, alla classe operaia ne viene restituita solo una parte. E come abbiamo visto, l’altra parte, che la classe capitalista trattiene per sé, o tutt’al più, deve ancora dividere con la classe dei proprietari fondiari, diventa sempre maggiore ad ogni nuova invenzione e ad ogni nuova scoperta, mentre la parte che tocca alla classe operaia (calcolata per testa) o aumenta lentamente e in modo insignificante o non aumenta affatto, e in talune circostanze può persino diminuire.
Ma questa successione sempre più rapida di invenzioni e di scoperte, questo rendimento del lavoro umano che aumenta di giorno in giorno in misura sinora inaudita, fa sorgere infine un conflitto, in cui l’odierna economia capitalistica deve perire. Da un lato ricchezze incommensurabili e una sovrabbondanza di prodotti, che i compratori non riescono ad assorbire. Dall’altro lato la grande massa della società proletarizzata, trasformata in salariati, e resa perciò incapace di appropriarsi quella sovrabbondanza di prodotti. La scissione della società in una piccola classe smisuratamente ricca e in una grande classe di salariati nullatenenti fa sì che questa società soffoca nella sua stessa sovrabbondanza, mentre la grande maggioranza dei suoi membri è appena protetta, e spesso non lo è affatto, dall’estrema indigenza. Questo stato di cose diventa di giorno in giorno più assurdo e più inutile [11]. Esso deve venire eliminato, esso può venire eliminato. Un nuovo ordine sociale è possibile, nel quale spariranno le attuali differenze di classe e nel quale — forse dopo un breve periodo di transizione, un po’ travagliato, ma ad ogni modo molto utile dal punto di vista morale — grazie allo sfruttamento secondo un piano [12] e all’ulteriore sviluppo delle esistenti immense forze produttive di tutti i membri della società, ad un uguale obbligo al lavoro corrisponderà una situazione in cui anche i mezzi per vivere, per godere la vita, per la educazione e lo sviluppo di tutte le facoltà fisiche e spirituali saranno a disposizione di tutti, in modo uguale e in misura sempre crescente [13]. E che gli operai sono sempre più decisi a conquistarsi questo nuovo ordine sociale, ne faran prova, sulle due rive dell’Oceano, il Primo Maggio di domani e domenica prossima, 3 maggio [14].
Londra, 30 aprile 1891
Lavoro salariato e capitale
[15]
Colonia, 4 aprile. Da diverse parti ci è stato rimproverato che non abbiamo esposto quali sono i rapporti economici, che formano la base materiale delle attuali lotte di classe e nazionali [16]. Di proposito, abbiamo sfiorato questi rapporti soltanto là dove essi esplodevano immediatamente in collisioni politiche.
Importava innanzi tutto seguire la lotta di classe nella sua storia quotidiana e dimostrare empiricamente, sulla scorta del materiale storico esistente e giornalmente arricchito, che lo schiacciamento della classe operaia, che aveva fatto le rivoluzioni di febbraio e di marzo [17], ha significato contemporaneamente la disfatta dei suoi avversari, i repubblicani borghesi in Francia, le classi borghesi e contadine in lotta contro l’assolutismo feudale su tutto il continente europeo; che la vittoria dell’“onesta repubblica” in Francia ha segnato in pari tempo la sconfitta delle nazioni che avevano risposto alla rivoluzione di febbraio con eroiche guerre di indipendenza; che, infine, con la disfatta degli operai rivoluzionari l’Europa è ricaduta nella sua vecchia duplice schiavitù, nella schiavitù anglo-russa. Le giornate di giugno a Parigi, la caduta di Vienna, la tragicommedia del novembre 1848 [18] a Berlino, gli sforzi disperati della Polonia, dell’Italia e dell’Ungheria, l’affamamento dell’Irlanda [19]: tali furono i momenti principali in cui si riassunse in Europa la lotta di classe fra borghesia e classe operaia, e in base ai quali noi abbiamo dimostrato che ogni sollevamento rivoluzionario, anche se i suoi scopi appaiono ancora molto lontani dalla lotta di classe, è destinato a fallire fino a che la classe operaia rivoluzionaria non abbia vinto, e che ogni riforma sociale resta un’utopia fino a che la rivoluzione proletaria e la controrivoluzione feudale non si siano misurate con le armi in una guerra mondiale. Nella nostra esposizione, come nella realtà, il Belgio e la Svizzera figuravano nel grande quadro storico come macchiette pittoresche tragicomiche e caricaturali; l’uno, lo Stato modello della monarchia borghese, l’altra, lo Stato modello della repubblica borghese, due Stati che si immaginano entrambi di essere estranei alla lotta di classe e alla rivoluzione europea.
Ora, dopo che i nostri lettori hanno visto svilupparsi la lotta di classe, nel 1848, in forme politiche colossali, è tempo di penetrare più a fondo i rapporti economici, sui quali si fondano tanto l’esistenza della borghesia e il suo dominio di classe quanto la schiavitù degli operai.
In tre grandi capitoli esporremo: 1) il rapporto fra il lavoro salariato e il capitale, la schiavitù dell’operaio, il dominio del capitalista; 2) la decadenza inevitabile delle classi medie borghesi e del ceto contadino [20] nel sistema attuale; 3) l’asservimento commerciale e lo sfruttamento delle classi borghesi delle diverse nazioni europee da parte del despota del mercato mondiale, l’Inghilterra [21].
Faremo il possibile per esporre in forma semplice e popolare, senza presupporre la conoscenza nemmeno dei concetti più elementari dell’economia politica. Vogliamo farci comprendere dagli operai. Tanto più che la più curiosa ignoranza e confusione di concetti riguardo ai rapporti economici più semplici regnano in Germania, a partire dai difensori patentati delle condizioni esistenti fino ai socialisti miracolisti e ai genî politici incompresi, di cui la spezzettata Germania è più ricca che di padri della patria.
I
Passiamo dunque alla prima questione: Che cosa è il salario? Come viene esso determinato?
Se domandiamo agli operai: “Qual’è l’importo del vostro salario?”, essi risponderanno, l’uno: “Io ricevo un franco [22] al giorno dal mio borghese”, l’altro: “Io ricevo due franchi”, ecc. Secondo le varie branche di lavoro alle quali appartengono, essi indicheranno diverse somme che ricevono dal loro rispettivo padrone per un determinato tempo di lavoro [23] o per fare un determinato lavoro, ad esempio per tessere un braccio di lino, o per comporre un foglio di stampa. Malgrado la diversità delle loro risposte essi concordano tutti su un punto: il salario è la somma di denaro che il borghese [24] paga per un determinato tempo di lavoro o per una determinata prestazione di lavoro.
Il borghese [25] compera, dunque, il loro lavoro con del denaro. Per denaro essi gli vendono il loro lavoro [26]. Con la stessa somma di denaro con la quale il borghese ha comperato il loro lavoro [27], per esempio con due franchi, avrebbe potuto comperare due libbre di zucchero o una determinata quantità di qualsiasi altra merce. I due franchi con i quali egli ha comperato le due libbre di zucchero sono il prezzo delle due libbre di zucchero. I due franchi con i quali egli ha comperato dodici ore di lavoro [28], sono il prezzo del lavoro di dodici ore. Il lavoro [29], dunque, è una merce, né più né meno che lo zucchero. La prima si misura con l’orologio, la seconda con la bilancia.
Gli operai scambiano la loro merce, il lavoro [29], con la merce del capitalista, il denaro, e questo scambio si effettua secondo un rapporto determinato. Tanto denaro per tanto lavoro [30]. Per tessere dodici ore, due franchi. E i due franchi, non rappresentano essi forse tutte le altre merci che posso comperare per due franchi? Di fatto, quindi, l’operaio ha scambiato la sua merce, il lavoro [29], contro altre merci di ogni genere, e secondo un rapporto determinato. Dandogli due franchi il capitalista gli ha dato, in cambio della sua giornata di lavoro, tanto di carne, tanto di abiti, tanto di legna, di luce, ecc. I due franchi esprimono dunque il rapporto in cui il lavoro si scambia con altre merci, il valore di scambio del suo lavoro. Il valore di scambio di una merce, valutato in denaro, si chiama appunto il suo prezzo. Il salario non è quindi che un nome speciale dato al prezzo del lavoro [31]; non è che un nome speciale dato al prezzo di questa merce speciale, che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo.
Prendiamo un operaio qualsiasi, per esempio un tessitore. Il borghese [32] gli fornisce il telaio e il filo. Il tessitore si pone al lavoro e il filo si fa tela. Il borghese s’impadronisce della tela e la vende, poniamo, a venti franchi. È il salario del tessitore una parte della tela, dei venti franchi, del prodotto del proprio lavoro? Niente affatto. Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con il denaro che egli ricaverà dalla tela, ma con denaro d’anticipo. Come il telaio e il filo non sono prodotti del tessitore, al quale vengono forniti dal borghese, così non lo sono le merci che egli riceve in cambio della sua merce, il lavoro [29]. È possibile che il borghese non trovi nessun compratore per la sua tela. È possibile che dalla vendita di essa egli non ricavi neppure il salario. È possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso in confronto col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del tessitore. Il capitalista compera con una parte del suo patrimonio preesistente, del suo capitale, il lavoro [29] del tessitore, allo stesso modo che con un’altra parte del suo patrimonio ha comperato la materia prima, il filo, e lo strumento di lavoro, il telaio. Dopo aver fatto queste compere — e in queste compere è compreso il lavoro29 necessario per la produzione della tela — egli produce soltanto con materie prime e strumenti di lavoro che gli appartengono. Tra questi ultimi è naturalmente compreso anche il nostro bravo tessitore, che partecipa al prodotto o al prezzo di esso non più di quello che vi partecipi il telaio!
Il salario non è, dunque, una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di lavoro [29] produttivo [33].
Il lavoro [29] è dunque una merce, che il suo possessore, il salariato, vende al capitale. Perché la vende? Per vivere.
Il lavoro [29], è però l’attività vitale propria dell’operaio, è la manifestazione della sua propria vita. Ed egli vende ad un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi di sussistenza necessari. La sua attività vitale è dunque per lui soltanto un mezzo per poter vivere. Egli lavora per vivere. Egli non calcola il lavoro come parte della sua vita: esso è piuttosto un sacrificio della sua vita. Esso è una merce che egli ha aggiudicato a un terzo. Perciò anche il prodotto della sua attività non è lo scopo della sua attività. Ciò che egli produce per sé non è la seta che egli tesse, non è l’oro che egli estrae dalla miniera, non è il palazzo che egli costruisce. Ciò che egli produce per sé è il salario; e seta, e oro, e palazzo si risolvono per lui in una determinata quantità di mezzi di sussistenza, forse in una giacca di cotone, in una moneta di rame e in un tugurio. E l’operaio che per dodici ore tesse, fila, tornisce, trapana, costruisce, scava, spacca le pietre, le trasporta, ecc., considera egli forse questo tessere, filare, trapanare, tornire, costruire, scavare, spaccar pietre per dodici ore come manifestazione della sua vita, come vita? Al contrario. La vita incomincia per lui dal momento in cui cessa questa attività, a tavola, al banco dell’osteria, nel letto [34]. Il significato delle dodici ore di lavoro non sta per lui nel tessere, filare, trapanare, ecc., ma soltanto nel guadagnare ciò che gli permette di andare a tavola, al banco dell’osteria, a letto. Se il baco da seta dovesse tessere per campare la sua esistenza come bruco, sarebbe un perfetto salariato.
Il lavoro [29] non è sempre stata una merce. Il lavoro non è sempre stato lavoro salariato, cioè lavoro libero. Lo schiavo non vendeva il suo lavoro [29] al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con il suo lavoro [29], è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma il lavoro [29] non è merce sua. Il servo della gleba vende soltanto una parte del suo lavoro [29]. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo. Il servo della gleba appartiene alla terra e porta frutti al signore della terra.
L’operaio libero invece vende se stesso, e pezzo a pezzo. Egli mette all’asta 8, 10, 12, 15 ore della sua vita, ogni giorno, al migliore offerente, al possessore delle materie prime, degli strumenti di lavoro e dei mezzi di sussistenza, cioè ai capitalisti. L’operaio non appartiene né a un proprietario, né alla terra, ma 8, 10, 12, 15 ore della sua vita quotidiana appartengono a colui che le compera. L’operaio abbandona quando vuole il capitalista al quale si dà in affitto, e il capitalista lo licenzia quando crede, non appena non ricava più da lui nessun utile o non ricava più l’utile che si prefiggeva. Ma l’operaio, la cui sola risorsa è la vendita del lavoro [29], non può abbandonare l’intera classe dei compratori, cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza. Egli non appartiene a questo o a quel borghese [35], ma alla borghesia [36], alla classe borghese; ed è affar suo disporre di se stesso, cioè trovarsi in questa classe borghese [36] un compratore [37].
Prima di esaminare ora più da vicino il rapporto fra capitale e lavoro salariato, esporremo brevemente i fattori più generali che intervengono nella determinazione del salario.
Come abbiamo visto, il salario è il prezzo di una merce determinata, del lavoro [29]. Il salario è dunque determinato dalle stesse leggi che determinano il prezzo di qualsiasi altra merce [38].
Si chiede dunque: come viene determinato il prezzo di una merce?
II
Colonia, 5 aprile. Da che cosa è determinato il prezzo di una merce?
Dalla concorrenza fra compratori e venditori, dal rapporto tra la domanda e la disponibilità, tra l’offerta e la richiesta. La concorrenza, da cui viene determinato il prezzo di una merce, ha tre aspetti.
La stessa merce è offerta da diversi venditori. Colui che vende merci della stessa qualità più a buon mercato è sicuro di eliminare gli altri venditori e di assicurarsi lo smercio maggiore. I venditori si disputano dunque reciprocamente le possibilità di vendita, il mercato. Ognuno di essi vuol vendere, vendere il più possibile, e possibilmente vendere solo, escludendo tutti gli altri venditori. L’uno, quindi, vende più a buon mercato dell’altro. Esiste perciò una concorrenza tra i venditori, che ribassa i prezzi delle merci che essi offrono.
Esiste però anche una concorrenza tra i compratori, che a sua volta fa salire il prezzo delle merci offerte.
Esiste, infine, anche una concorrenza tra i compratori e i venditori; gli uni vogliono comperare il più che sia possibile a buon mercato, gli altri vogliono vendere il più caro possibile. Il risultato di questa concorrenza tra compratori e venditori dipenderà dal modo come si comportano gli altri due aspetti della concorrenza che abbiamo indicato, cioè dal fatto che la concorrenza sia più forte nel campo dei compratori o in quello dei venditori. L’industria mette in campo l’un contro l’altro due eserciti, ognuno dei quali sostiene una lotta nelle proprie file, fra le proprie truppe. L’esercito nei cui ranghi hanno luogo gli scontri più lievi, riporta vittoria sull’avversario.
Supponiamo che si trovino sul mercato 100 balle di cotone, e in pari tempo dei compratori per 1.000 balle. In questo caso la domanda è dunque dieci volte maggiore della disponibilità. La concorrenza fra i compratori sarà dunque molto forte; ognuno di essi vorrà accaparrarsi almeno una e possibilmente tutte le 100 balle. Questo esempio non è un’ipotesi arbitraria. Nella storia del commercio abbiamo conosciuto periodi di cattivi raccolti di cotone, nei quali alcuni capitalisti, associati fra loro, tentarono di accaparrarsi non 100 balle, ma tutta la disponibilità di cotone del mondo. Nel caso citato, dunque, un compratore cercherà di eliminare l’altro offrendo per le balle di cotone un prezzo relativamente superiore. I venditori di cotone, i quali vedono che le truppe nemiche si battono accanitamente fra loro, e sono completamente sicuri di vendere tutte le loro 100 balle, si guarderanno bene dal prendersi per i capelli per abbassare i prezzi del cotone in un momento in cui i loro avversari vanno a gara per spingerli in alto. Nell’esercito dei venditori si stabilisce quindi improvvisamente la pace. Essi stanno come un sol uomo di fronte ai compratori, incrociano filosoficamente le braccia, e le loro richieste non avrebbero alcun limite se le offerte dei compratori, anche dei più insistenti, non avessero i loro limiti ben determinati.
Dunque, se la disponibilità di una merce è inferiore alla domanda, la concorrenza fra i venditori è minima o nulla. Nella stessa proporzione in cui questa concorrenza diminuisce, aumenta quella fra i compratori. Risultato: aumento più o meno notevole dei prezzi della merce.
È noto che il caso contrario, che porta a risultati contrari, si verifica più spesso. Disponibilità di merci notevolmente superiore alla domanda: concorrenza disperata fra i venditori; mancanza di compratori: liquidazione delle merci a prezzi irrisori [39].
Ma che cosa significa aumento, diminuzione dei prezzi, prezzo alto e prezzo basso? Un granello di sabbia è alto se lo si guarda al microscopio, e una torre è bassa in confronto con una montagna. E se il prezzo è determinato dal rapporto tra la domanda e la disponibilità, da che cosa è determinato a sua volta quest’ultimo rapporto?
Rivolgiamoci a un qualsiasi borghese. Egli non esiterà un momento, e, come un secondo Alessandro il Grande, taglierà questo nodo metafisico con l’aiuto della tavola pitagorica. Se la produzione della merce che io vendo mi è costata 100 franchi, ci dirà, e dalla vendita di essa ricavo 110 franchi, entro lo spazio di un anno, s’intende, questo è un guadagno civile, onesto, legittimo. Ma se ricevo in cambio 120, 130 franchi, il guadagno è forte; se poi ne ricavo 200 franchi, il guadagno sarebbe straordinario, enorme. Che cosa serve dunque al borghese come misura del guadagno? I costi di produzione della sua merce. Se in cambio di questa merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di meno, ha perduto. Se in cambio della sua merce egli riceve una somma di altre merci la cui produzione è costata di più, ha guadagnato. La diminuzione o l’aumento del guadagno egli li misura dai gradi che il valore di scambio della sua merce si trova sopra o sotto lo zero, cioè sopra o sotto i costi di produzione [40].
Abbiamo visto come il rapporto mutevole tra la domanda e la disponibilità provoca ora un ribasso, ora un rialzo dei prezzi, ora prezzi alti, ora prezzi bassi.
Se il prezzo di una merce aumenta notevolmente in seguito alla scarsità della disponibilità o ad un aumento sproporzionato della domanda, necessariamente ribassa, in proporzione, il prezzo di qualsiasi altra merce; poiché in ultima analisi il prezzo di una merce esprime soltanto in denaro il rapporto in cui altre merci vengono date in cambio di essa. Se per esempio il prezzo di un braccio di tessuto di seta aumenta da cinque a sei franchi, il prezzo dell’argento, in rapporto al tessuto di seta, cade, e cadono pure, nei confronti del tessuto di seta, i prezzi di tutte le altre merci che sono rimaste ferme al loro prezzo primitivo. Per ricevere la stessa quantità di tessuto di seta bisogna dare in cambio una maggiore quantità di queste merci.
Quali conseguenze avrà l’aumento del prezzo di una merce? Una massa di capitali si getterà nel ramo di industria fiorente, e questa immigrazione di capitali nel campo dell’industria favorita durerà fino a tanto che essa tornerà ai guadagni abituali, o, piuttosto, fino a tanto che il prezzo dei suoi prodotti cadrà, in seguito a sovrapproduzione, al di sotto dei costi di produzione.
Viceversa, se il prezzo di una merce cade al di sotto dei suoi costi di produzione, i capitali si ritrarranno dalla produzione di questa merce. Eccettuato il caso in cui un ramo di industria non è più adatto al suo tempo, e quindi deve decadere, la produzione di tale merce, cioè la disponibilità di essa, diminuirà, in seguito a questa fuga dei capitali, fino a tanto che essa corrisponda alla domanda, fino a tanto, cioè, che il suo prezzo si porti nuovamente al livello dei suoi costi di produzione, o meglio, fino a tanto che la disponibilità sarà caduta al di sotto della domanda, cioè fino a tanto che il suo prezzo abbia nuovamente superato i suoi costi di produzione, poiché il prezzo corrente di mercato di una merce sta sempre al di sopra o al di sotto dei suoi costi di produzione.
Così vediamo come i capitali emigrano e immigrano costantemente dal campo di un’industria a quello di un’altra. Il prezzo alto provoca una immigrazione eccessiva e il prezzo basso una eccessiva emigrazione [41].
Ponendoci da un altro punto di vista potremmo mostrare che non soltanto la disponibilità, ma anche la domanda è determinata dai costi di produzione; ma questa dimostrazione ci condurrebbe troppo lontano dal nostro argomento.
Abbiamo visto testè che le oscillazioni della domanda e della disponibilità riconducono sempre il prezzo di una merce ai costi di produzione. In realtà il prezzo di una merce è sempre al di sopra o al di sotto dei costi di produzione; ma il rialzo e il ribasso si integrano a vicenda, di modo che, entro un determinato limite di tempo, e tenuto conto degli alti e bassi dell’industria, le merci vengono scambiate l’una con l’altra a seconda dei loro costi di produzione; il loro prezzo, dunque, viene determinato dai loro costi di produzione.
Questa determinazione del prezzo sulla base dei costi di produzione non deve essere intesa nel senso in cui la intendono gli economisti. Gli economisti dicono che il prezzo medio delle merci è uguale ai costi di produzione; che tale è la legge. Il movimento anarchico, per cui il rialzo viene compensato dal ribasso e il ribasso dal rialzo, lo considerano come un fatto occasionale. Con lo stesso diritto, come hanno fatto altri economisti, si potrebbero considerare le oscillazioni come legge e la determinazione sulla base dei costi di produzione come fatto occasionale. Ma solo queste oscillazioni che, considerate più da vicino, portano con sé le più terribili devastazioni e scuotono la società borghese dalle fondamenta come terremoti, solo queste oscillazioni determinano nel loro corso il prezzo secondo i costi di produzione. Il movimento complessivo di questo disordine è il suo ordine. Nel corso di questa anarchia industriale, in questo movimento ciclico la concorrenza compensa, per così dire, una stravaganza con l’altra [42].
Noi dunque vediamo che il prezzo di una merce è determinato dai suoi costi di produzione, in modo che i periodi in cui il prezzo della merce supera i costi di produzione sono compensati dai periodi in cui esso scende sotto i costi di produzione e viceversa. Naturalmente, ciò non vale per un singolo prodotto industriale determinato, ma soltanto per l’intero ramo dell’industria, allo stesso modo che non vale per il singolo industriale, ma soltanto per la classe degli industriali nel suo complesso.
La determinazione del prezzo secondo i costi di produzione è uguale alla determinazione del prezzo sulla base della durata del lavoro che si richiede per la produzione di una merce, poiché i costi di produzione consistono: 1) in materie prime e strumenti di lavoro [43], cioè in prodotti industriali la cui produzione è costata una certa quantità di giornate di lavoro, e che rappresentano perciò una certa quantità di giornate di lavoro, e che rappresentano perciò una certa quantità di tempo di lavoro e 2) in lavoro immediato, la cui misura è appunto il tempo.
Le stesse leggi generali che regolano in generale il prezzo delle merci, regolano naturalmente anche il salario, il prezzo del lavoro.
Il salario ora aumenterà, ora diminuirà, a seconda del rapporto tra domanda e disponibilità, a seconda del modo come si configura la concorrenza fra i compratori di lavoro [29], i capitalisti, e i venditori di lavoro [29], gli operai. Alle oscillazioni dei prezzi delle merci in generale corrispondono le oscillazioni del salario. Nei limiti di queste oscillazioni, però, il prezzo del lavoro sarà determinato dai costi di produzione, dal tempo di lavoro che si richiede per produrre questa merce, il lavoro [29].
Ma quali sono i costi di produzione del lavoro [29]?
Sono i costi necessari per conservare l’operaio come operaio e per formarlo come operaio [44].
Quanto meno tempo si richiede per apprendere un lavoro, tanto minori sono i costi di produzione dell’operaio, tanto più basso è il prezzo del suo lavoro, il suo salario [45]. Nei rami industriali dove non si richiede nessun apprendistato e basta la semplice esistenza fisica dell’operaio, i costi di produzione richiesti per la sua formazione si riducono quasi esclusivamente alle merci necessarie per mantenerlo in vita [46]. Il prezzo del suo lavoro sarà dunque determinato dal prezzo dei mezzi di sussistenza necessari.
Ma bisogna fare ancora una considerazione. Il fabbricante, che calcola i costi di produzione e, a seconda di essi, il prezzo dei prodotti, tiene conto del logorio degli strumenti di lavoro. Se una macchina gli costa, per esempio, 1.000 franchi e si logora in dieci anni, egli conteggia 100 franchi all’anno nel prezzo della merce, per potere, dopo dieci anni, sostituire la macchina vecchia con una nuova. Allo stesso modo, nei costi di produzione del semplice lavoro46 devono essere conteggiati i costi di riproduzione, per cui la razza degli operai viene posta in condizione di moltiplicarsi e di sostituire gli operai logorati dal lavoro con nuovi operai. Il logorio dell’operaio viene dunque conteggiato allo stesso modo del logorio della macchina.
I costi di produzione del semplice lavoro [47] ammontano quindi ai costi di esistenza e di riproduzione dell’operaio. Il prezzo di questi costi di esistenza e di riproduzione costituisce il salario. Il salario così determinato si chiama salario minimo [48]. Questo salario minimo, come, in generale, la determinazione del prezzo delle merci secondo i costi di produzione, vale non per il singolo individuo, ma per la specie. Singoli operai, milioni di operai non ricevono abbastanza per vivere e riprodursi; ma il salario dell’intera classe operaia, entro i limiti delle sue oscillazioni, è uguale a questo minimo [49].
Ora che ci siamo intesi sulle leggi più generali che regolano il salario, come regolano il prezzo di ogni altra merce, possiamo passare all’esame del nostro argomento più in particolare [50].
III
Colonia, 6 aprile. Il capitale consta di materie prime, di strumenti di lavoro e di mezzi di sussistenza d’ogni genere, che vengono impiegati per la produzione di nuove materie prime, di nuovi strumenti di lavoro, di nuovi mezzi di sussistenza. Tutte queste sue parti costitutive sono creazioni del lavoro, prodotti del lavoro, lavoro accumulato. Il capitale è lavoro accumulato che serve come mezzo per una nuova produzione.
Così dicono gli economisti.
Che cos’è uno schiavo negro? Un uomo di razza nera. Una spiegazione vale l’altra.
Un negro è un negro. Soltanto in determinate condizioni egli diventa uno schiavo. Una macchina filatrice di cotone è una macchina per filare il cotone. Soltanto in determinate condizioni essa diventa capitale. Sottratta a queste condizioni essa non è capitale, allo stesso modo che l’oro in sé e per sé non è denaro e lo zucchero non è il prezzo dello zucchero [51].
Nella produzione gli uomini non hanno rapporto soltanto con la natura [52]. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e il loro rapporto con la natura [53], la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali.
Questi rapporti sociali che legano i produttori gli uni agli altri, le condizioni nelle quali essi scambiano le loro attività e partecipano all’atto complessivo della produzione, sono naturalmente diversi a seconda del carattere dei mezzi di produzione. Con l’invenzione di un nuovo strumento di guerra, dell’arma da fuoco, tutta l’organizzazione interna dell’esercito necessariamente si modificò, si modificarono i rapporti sulla base dei quali i singoli costituiscono un esercito e possono operare come esercito, e si modificò pure il rapporto dei diversi eserciti tra di loro.
I rapporti sociali entro i quali gli individui producono, i rapporti sociali di produzione, si modificano, dunque, si trasformano con la trasformazione e con lo sviluppo dei mezzi materiali di produzione, delle forze produttive. I rapporti di produzione costituiscono nel loro assieme ciò che riceve il nome di rapporti sociali, di società, e precisamente una società a un grado di sviluppo storico determinato, una società con un carattere particolare che la distingue. La società antica, la società feudale, la società borghese sono simili complessi di rapporti di produzione, e ognuno di questi complessi caratterizza, nello stesso tempo, un particolare stadio di sviluppo nella storia dell’umanità [54].
Anche il capitale è un rapporto sociale di produzione. Esso è un rapporto borghese di produzione, un rapporto di produzione della società borghese. I mezzi di sussistenza, gli strumenti di lavoro, le materie prime di cui il capitale è costituito, non furono essi prodotti e accumulati in determinate condizioni sociali, in determinati rapporti sociali? Non vengono essi impiegati per una nuova produzione in determinate condizioni sociali, in determinati rapporti sociali? E non è proprio questo carattere sociale determinato che fa diventare capitale i prodotti che servono per una nuova produzione? [55]
Il capitale non consta soltanto di mezzi di sussistenza, di strumenti di lavoro e di materie prime, non consta soltanto di prodotti materiali; esso consta pure di valori di scambio. Tutti i prodotti di cui esso consta sono merci. Il capitale non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di merci, di valori di scambio, di grandezze sociali.
Il capitale rimane lo stesso se mettiamo cotone al posto di lana, riso al posto di frumento, piroscafi al posto di ferrovie, alla sola condizione che il cotone, il riso, i piroscafi — il corpo del capitale — abbiano lo stesso valore di scambio, lo stesso prezzo della lana, del frumento, delle ferrovie, in cui esso prima era incorporato. Il corpo del capitale può trasformarsi continuamente senza che il capitale subisca il minimo cambiamento.
Ma se ogni capitale è una somma di merci, cioè di valori di scambio, non ogni somma di merci, di valori di scambio, è capitale.
Ogni somma di valori di scambio è un valore di scambio. Ogni singolo valore di scambio è una somma di valori di scambio. Per esempio, una casa che vale 1.000 franchi, è un valore di scambio di 1.000 franchi. Un pezzo di carta che vale un centesimo [56] è una somma di valori di scambio di 100/100 di centesimo. Prodotti che si possono scambiare con altri prodotti, sono merci. Il rapporto determinato, secondo il quale esse possono venir scambiate, costituisce il loro valore di scambio, o, espresso in denaro, il loro prezzo. La quantità di questi prodotti non può cambiare nulla della loro destinazione di essere merce, o di costituire un valore di scambio, o di avere un prezzo determinato. Un albero, sia esso grande o piccolo, resta sempre un albero. Se scambiamo il ferro in once, o se lo scambiamo in quintali contro altri prodotti, cambia forse il suo carattere di essere una merce, un valore di scambio? A seconda della sua quantità, esso è una merce di maggiore o di minor valore, di prezzo più alto o più basso.
Come dunque una somma di merci, di valori di scambio, diventa capitale?
Per il fatto che essa, come forza sociale indipendente, cioè come forza di una parte della società, si conserva e si accresce attraverso lo scambio con il lavoro [29] vivente, immediata [57]. L’esistenza di una classe che non possiede null’altro che la capacità di lavorare, è una premessa necessaria del capitale.
Soltanto il dominio del lavoro accumulato, passato, materializzato, sul lavoro immediato, vivente, fa del lavoro accumulato capitale.
Il capitale non consiste nel fatto che il lavoro accumulato serve al lavoro vivente come mezzo per una nuova produzione. Esso consiste nel fatto che il lavoro vivente serve al lavoro accumulato come mezzo per conservare e per accrescere il suo valore di scambio [58].
Che cosa avviene nello scambio fra capitale e lavoro [59] salariato? [60]
L’operaio riceve in cambio del suo lavoro [29] dei mezzi di sussistenza, ma il capitalista, in cambio dei suoi mezzi di sussistenza, riceve del lavoro, l’attività produttiva dell’operaio, la forza creatrice con la quale l’operaio non soltanto ricostituisce ciò che consuma, ma conferisce al lavoro accumulato un valore maggiore di quanto aveva prima. L’operaio riceve dal capitalista una parte dei mezzi di sussistenza esistenti. A che gli servono questi mezzi di sussistenza? Al consumo immediato. Ma non appena io consumo mezzi di sussistenza essi sono per me irrimediabilmente perduti, nel caso in cui io non utilizzi il tempo durante il quale essi mi tengono in vita per produrre nuovi mezzi di sussistenza, per creare, cioè, con il mio lavoro, durante il consumo, nuovi valori al posto dei valori perduti nel consumo stesso. Ma è appunto questa nobile forza riproduttiva che l’operaio cede al capitale in cambio dei mezzi di sussistenza ricevuti. Per se stesso quindi egli l’ha perduta.
Prendiamo un esempio: un fittavolo dà al suo giornaliero cinque groschen d’argento al giorno. Per questi cinque groschen d’argento il salariato lavora sul campo del fittavolo per tutta la giornata, assicurandogli in tal modo un’entrata di dieci groschen d’argento. Il fittavolo non riceve soltanto, ricostituiti, i valori ch’egli ha dato al salariato, ma li raddoppia. Quindi, egli ha impiegato, consumato in modo profittevole, produttivo, i cinque groschen d’argento ch’egli ha dato al salariato. Per cinque groschen d’argento egli ha comprato il lavoro e la forza del salariato i quali rendono prodotti del suolo per un valore doppio, e di cinque groschen d’argento ne fanno dieci. Il salariato, invece, al posto della sua forza produttiva, i cui effetti egli ha ceduto al fittavolo, riceve cinque groschen d’argento che egli scambia contro mezzi di sussistenza, che consuma più o meno rapidamente. I cinque groschen d’argento sono stati dunque consumati in due modi: in modo riproduttivo per il capitale, poiché essi sono stati scambiati con una forza-lavoro che ha prodotto dieci groschen d’argento; in modo improduttivo per l’operaio, poiché essi sono stati scambiati con mezzi di sussistenza, che sono scomparsi per sempre e il cui valore egli potrà riavere soltanto ripetendo il medesimo scambio con il fittavolo. Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda [61].
Un operaio in un cotonificio produce egli soltanto tessuti di cotone? No, egli produce capitale. Egli produce valori che serviranno nuovamente a comandare il suo lavoro, per creare a mezzo di essi nuovi valori.
Il capitale può accrescersi soltanto se si scambia con il lavoro29, soltanto se produce lavoro salariato. Il lavoro salariato [62] si può scambiare con capitale soltanto a condizione di accrescere il capitale, di rafforzare il potere di cui è schiavo. Aumento del capitale è quindi aumento del proletariato, cioè della classe lavoratrice.
L’interesse del capitalista e dell’operaio è quindi lo stesso, sostengono i borghesi e i loro economisti. E infatti! L’operaio va in malora se il capitale non lo occupa. Il capitale va in malora se non sfrutta il lavoro [29], e per sfruttarlo deve comperarlo. Quanto più rapidamente si accresce il capitale destinato alla produzione, il capitale produttivo, tanto più fiorente è l’industria; quanto più la borghesia si arricchisce, quanto più gli affari vanno bene, tanto più il capitalista ha bisogno di operai, tanto più caro si vende l’operaio.
La condizione indispensabile per una situazione sopportabile dell’operaio è dunque l’accrescimento più rapido possibile del capitale produttivo.
Ma che cosa vuol dire accrescimento del capitale produttivo? Accrescimento del potere del lavoro accumulato sul lavoro vivente. Accrescimento del dominio della borghesia sulla classe operaia. Quando il lavoro salariato produce la ricchezza estranea che lo domina, il potere che gli è nemico, il capitale, i mezzi di occupazione, cioè i mezzi di sussistenza, rifluiscono nuovamente verso di lui, a condizione ch’esso si trasformi di nuovo in una parte del capitale, in una leva che imprima di nuovo al capitale un accelerato movimento di sviluppo.
Dire che gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro [63] sono gli stessi, significa soltanto che il capitale e il lavoro salariato sono due termini di uno stesso rapporto. L’uno condiziona l’altro, allo stesso modo che si condizionano a vicenda lo strozzino e il dissipatore.
Sino a tanto che l’operaio salariato è operaio salariato, la sua sorte dipende dal capitale. Questa è la tanto rinomata comunità di interessi fra operaio e capitalista.
IV
Colonia, 7 aprile. Se cresce il capitale, cresce la massa del lavoro salariato, cresce il numero dei salariati; in una parola, il dominio del capitale si estende sopra una massa più grande di individui. E supponiamo pure il caso più favorevole: se cresce il capitale produttivo, cresce la domanda di lavoro, e sale perciò il prezzo del lavoro, il salario.
Una casa, per quanto sia piccola, fino a tanto che le case che la circondano sono ugualmente piccole, soddisfa a tutto ciò che socialmente si esige da una casa. Ma se, a fianco della piccola casa, si erge un palazzo, la casetta si ridurrà a una capanna. La casetta dimostra ora che il suo proprietario non può far valere nessuna pretesa, o solamente pretese minime; e per quanto ci si spinga in alto nel corso della civiltà, se il palazzo che le sta vicino si eleva in ugual misura e anche più, l’abitante della casa relativamente piccola si troverà sempre più a disagio, sempre più scontento, sempre più oppresso fra le sue quattro mura.
Un aumento sensibile del salario presuppone un rapido aumento del capitale produttivo. Il rapido aumento del capitale produttivo provoca un aumento ugualmente rapido della ricchezza, del lusso, dei bisogni sociali e dei godimenti sociali. Benché dunque i godimenti dell’operaio siano aumentati, la soddisfazione sociale che essi procurano è diminuita in confronto con gli accresciuti godimenti del capitalista, che sono inaccessibili all’operaio, in confronto con il grado di sviluppo della società in generale. I nostri bisogni e i nostri godimenti sorgono dalla società; noi li misuriamo quindi sulla base della società, e non li misuriamo sulla base dei mezzi materiali per la loro soddisfazione. Poiché sono di natura sociale, essi sono di natura relativa [64].
Il salario non è in generale determinato soltanto dalla massa di merci che posso ottenere in cambio di esso. Esso contiene parecchi rapporti.
Ciò che gli operai, anzitutto, ricevono in cambio del loro lavoro [29], è una determinata somma di denaro. È il salario determinato soltanto da questo prezzo in denaro [65]?
Nel secolo XVI, in seguito alla scoperta dell’America [66], l’oro e l’argento circolanti in Europa aumentarono. Il valore dell’oro e dell’argento cadde quindi, in rapporto alle altre merci. Gli operai continuarono a ricevere per il loro lavoro la stessa quantità di argento monetato. Il prezzo in denaro del loro lavoro rimase lo stesso, eppure il loro salario era diminuito, poiché, nello scambio, con la stessa quantità di argento essi ricevevano una quantità minore di altre merci. Questa fu una delle circostanze che favorirono l’accrescimento del capitale, lo sviluppo della borghesia nel secolo XVI.
Prendiamo un altro caso. Nell’inverno del 1847, in seguito a un cattivo raccolto, i generi alimentari di prima necessità, frumento, carne, burro, formaggi, ecc., aumentarono notevolmente di prezzo. Supposto che gli operai avessero continuato a ricevere per il loro lavoro la stessa somma di denaro, il loro salario non sarebbe forse diminuito? Senza dubbio. Per lo stesso denaro essi ricevevano in cambio meno pane, meno carne, ecc. Il loro salario era diminuito, non perché fosse diminuito il valore dell’argento, ma perché era aumentato il valore dei mezzi di sussistenza.
Supponiamo infine che il prezzo in denaro del lavoro non muti, mentre tutti i prodotti agricoli e industriali, in seguito all’introduzione di nuove macchine, ad annate più favorevoli, ecc., siano diminuiti di prezzo. Con lo stesso denaro gli operai possono ora comperare più merci di ogni sorta. Il loro salario è dunque aumentato, appunto perché il suo valore in denaro non è cambiato.
Il prezzo in denaro del lavoro, il salario nominale, non coincide quindi con il salario reale, cioè con la quantità di merci che vengono realmente date in cambio del salario. Quando parliamo, dunque, di aumento o diminuzione del salario, non dobbiamo tener presente soltanto il prezzo del lavoro in denaro, il salario nominale.
Ma né il salario nominale, cioè la somma di denaro per la quale l’operaio si vende al capitalista, né il salario reale, cioè la quantità di merci ch’egli può comperare con questo denaro, esauriscono i rapporti contenuti nel salario.
Innanzi tutto il salario è determinato anche dal suo rapporto col guadagno, col profitto del capitalista. Questo è il salario proporzionale, relativo.
Il salario reale esprime il prezzo del lavoro in rapporto col prezzo delle altre merci [67], il salario relativo, invece, il prezzo del lavoro immediato, in rapporto col prezzo del lavoro accumulato, il valore relativo di lavoro salariato e capitale, il valore reciproco di capitalisti e operai [68].
Il salario reale può restare immutato, anzi può anche aumentare, e ciononostante il salario relativo può diminuire. Supponiamo, per esempio, che il prezzo di tutti i mezzi di sussistenza sia caduto di due terzi, mentre il salario giornaliero non è caduto che di un terzo, poniamo da tre a due franchi. Quantunque l’operaio con questi due franchi disponga di una maggiore quantità di merci, che non prima con tre, il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del capitalista. Il profitto del capitalista (del fabbricante, per esempio) è aumentato di un franco, il che vuol dire che per una minore quantità di valori di scambio ch’egli paga all’operaio, l’operaio deve produrre una quantità di valori di scambio maggiore di prima. La parte che va al capitale, in rapporto alla parte che va al lavoro, è cresciuta [69]. La distribuzione della ricchezza sociale fra capitale e lavoro è diventata ancora più disuguale. Il capitalista, con lo stesso capitale, comanda una maggiore quantità di lavoro. Il potere della classe capitalista sulla classe operaia è aumentato; la posizione sociale del lavoratore è peggiorata, è stata sospinta un gradino più in basso al di sotto di quella del capitalista [70].
Qual è dunque la legge generale che determina l’aumento e la diminuzione del salario e del profitto nel loro rapporto reciproco?
Essi stanno in rapporto inverso. Il valore di scambio del capitale [71], il profitto, aumenta nella stessa proporzione in cui diminuisce il valore di scambio del lavoro [72], il salario giornaliero, e viceversa. Il profitto sale nella misura in cui il salario diminuisce, e diminuisce nella misura in cui il salario sale.
Ci si obietterà, forse, che il capitalista può guadagnare per uno scambio vantaggioso dei suoi prodotti con altri capitalisti, per un aumento della domanda della sua merce, sia in seguito all’apertura di nuovi mercati, sia in seguito a un aumento momentaneo dei bisogni dei vecchi mercati, ecc.; che il profitto del capitalista, quindi, può aumentare a scapito di terzi capitalisti, indipendentemente dall’aumento o dalla diminuzione del salario, del valore di scambio del lavoro29; oppure, che il profitto del capitalista può aumentare anche in seguito a un perfezionamento degli strumenti di lavoro, a un nuovo impiego di forze naturali, ecc.
Innanzi tutto, si ammetterà che il risultato resta lo stesso, benché raggiunto per via opposta. Il profitto, infatti, non è aumentato perché il salario è diminuito, ma il salario è diminuito perché il profitto è aumentato. Il capitalista, con la stessa somma di lavoro [73], ha comperato una maggiore somma di valori di scambio, senza per questo aver pagato di più il lavoro; cioè il lavoro viene pagato di meno in rapporto al beneficio netto che esso procura al capitalista.
Ricordiamo inoltre che, nonostante le oscillazioni dei prezzi delle merci, il prezzo medio di ogni merce, il rapporto secondo il quale essa si scambia con altre merci, è determinato dai suoi costi di produzione. Perciò nel seno della classe capitalista i guadagni straordinari si compensano necessariamente. Il perfezionamento delle macchine, il nuovo impiego di forze naturali al servizio della produzione rendono possibile creare in un dato tempo di lavoro, con la stessa somma di lavoro e di capitale, una maggiore quantità di prodotti, ma non una maggiore quantità di valori di scambio. Se con l’impiego della filatrice posso produrre in un’ora il doppio di filato di quanto non ne producessi prima, per esempio cento libbre invece di cinquanta, in cambio di queste cento libbre non riceverò [74] più merci di quante ne ricevevo prima per cinquanta, perché i costi di produzione sono caduti della metà, oppure perché con gli stessi costi posso produrre il doppio.
Infine, qualunque sia la produzione nella quale la classe capitalista, la borghesia, sia essa di un solo paese o dell’intero mercato mondiale, si ripartisce il beneficio netto della produzione, la somma totale di questo beneficio netto non è altro, in ogni circostanza, che la somma di cui il lavoro accumulato è stato accresciuto, grosso modo, dal lavoro vivo [75]. Questa somma totale aumenta dunque nella proporzione in cui il lavoro accresce il capitale, cioè nella proporzione in cui il profitto aumenta rispetto al salario.
Noi vediamo dunque che, anche se rimaniamo nel quadro dei rapporti fra capitale e lavoro salariato, gli interessi del capitale e gli interessi del lavoro salariato sono diametralmente opposti [76].
Un rapido aumento del capitale significa un rapido aumento del profitto. Il profitto può aumentare rapidamente soltanto quando il valore di scambio [77] del lavoro, quando il salario relativo diminuisce con la stessa rapidità. Il salario relativo può diminuire anche se il salario reale sale assieme salario nominale cioè assieme al valore monetario del lavoro, a condizione che esso non salga nella stessa proporzione che il profitto. Se, per esempio, in epoche di buoni affari il salario aumenta del 5 per cento mentre il profitto aumenta del 30 per cento, il salario proporzionale, relativo, non è aumentato, ma diminuito.
Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale.
Dire che l’operaio ha interesse al rapido aumento del capitale significa soltanto che, quanto più rapidamente l’operaio accresce la ricchezza altrui, tanto più grasse sono le briciole che gli sono riservate, tanto più numerosi sono gli operai che possono essere impiegati e messi al mondo, tanto più può essere aumentata la massa degli schiavi alle dipendenze del capitale.
Abbiamo dunque visto:
Anche la situazione più favorevole per la classe operaia, un aumento quanto più possibile rapido del capitale, per quanto possa migliorare la vita materiale dell’operaio non elimina il contrasto fra i suoi interessi e gli interessi del capitalista. Profitto e salario stanno, dopo come prima, in proporzione inversa.
Se il capitale aumenta rapidamente, per quanto il salario possa aumentare, il profitto del capitale aumenta in modo sproporzionatamente più rapido. La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale.
Infine:
Dire che la condizione più favorevole per il lavoro salariato è un aumento il più rapido possibile del capitale produttivo, significa soltanto che, quanto più rapidamente la classe operaia accresce e ingrossa la forza che le è nemica, la ricchezza che le è estranea e la domina, tanto più favorevoli sono le condizioni in cui le è permesso di lavorare a un nuovo accrescimento della ricchezza borghese, a un aumento del potere del capitale, contenta di forgiare essa stessa le catene dorate con le quali la borghesia la trascina dietro di sé.
V
Colonia, 10 aprile. L’accrescimento del capitale produttivo e l’aumento del salario sono però davvero così inseparabilmente uniti come pretendono gli economisti borghesi? Non dobbiamo creder loro sulla parola. Non dobbiamo nemmeno creder loro che, quanto più florido è il capitale, tanto meglio viene ingrassato il suo schiavo. La borghesia è troppo intelligente, essa sa fare i conti troppo bene, per condividere i pregiudizi dei signori feudali, i quali si vantavano dello sfarzo della loro servitù. Le condizioni di esistenza della borghesia la costringono a calcolare.
Dobbiamo quindi esaminare più da vicino la questione seguente:
Quale influenza esercita sul salario l’accrescimento del capitale produttivo?
Se il capitale produttivo della società borghese si accresce nel suo insieme, ha luogo una accumulazione di lavoro più vasta. I capitalisti crescono di numero, i loro capitali crescono di dimensione. L’aumento del numero dei capitali aumenta la concorrenza fra i capitalisti. La crescente dimensione dei capitali fornisce i mezzi per portare sul campo di battaglia dell’industria eserciti sempre più potenti di operai, con strumenti di guerra sempre più giganteschi.
Un capitalista può cacciare l’altro dal campo e conquistare il suo capitale solamente vendendo più a buon mercato. Per poter vendere più a buon mercato senza rovinarsi, deve produrre più a buon mercato, cioè aumentare quanto più è possibile la forza produttiva del lavoro. La forza produttiva del lavoro viene però aumentata, innanzi tutto, con una maggiore divisione del lavoro, con un’introduzione generale e un perfezionamento costante del macchinario. Quanto più grande è l’esercito degli operai fra i quali il lavoro viene diviso, quanto più gigantesca è la scala in cui vengono introdotte le macchine, tanto più diminuiscono proporzionalmente i costi di produzione, tanto più fruttuoso diventa il lavoro. Sorge quindi una gara generale fra i capitalisti per accrescere la divisione del lavoro e il macchinario e per sfruttarli sulla scala più grande che sia possibile [78].
Se ora un capitalista, con una più grande divisione del lavoro, con l’impiego e col perfezionamento di nuove macchine, con uno sfruttamento più vantaggioso e più grandioso delle forze naturali, ha trovato il modo di produrre con la stessa quantità di lavoro o di lavoro accumulato una maggiore quantità di prodotti, di merci, che i suoi concorrenti; se, per esempio, nello stesso tempo di lavoro in cui i suoi concorrenti tessono un mezzo braccio di tela, egli può produrne un braccio, come si comporterà?
Egli potrebbe continuare a vendere mezzo braccio di tela al precedente prezzo di mercato; ma questo non sarebbe un mezzo per eliminare i suoi avversari e aumentare il proprio smercio. Ma nella stessa misura in cui si è estesa la sua produzione, si è esteso il suo bisogno di smercio. I mezzi di produzione più potenti e più costosi ch’egli ha messo in azione gli danno la capacità di vendere le sue merci più a buon mercato, ma lo costringono in pari tempo a vendere più merci, a conquistare un mercato incomparabilmente più vasto per le sue merci. Il nostro capitalista venderà dunque il mezzo braccio di tela più a buon mercato dei suoi concorrenti.
Ma il capitalista non venderà l’intero braccio di tela allo stesso prezzo a cui i suoi concorrenti vendono il mezzo braccio, quantunque la produzione di un intero braccio a lui non costi più di quanto costi agli altri la produzione di mezzo braccio. Se facesse così, non realizzerebbe dei guadagni straordinari, non farebbe che riavere in cambio i costi di produzione. La sua eventuale maggiore entrata dipenderebbe in tal caso soltanto dal fatto che egli ha messo in movimento un capitale più grande, e non dal fatto di aver valorizzato il suo capitale in misura maggiore degli altri. Inoltre, se fissa il prezzo della sua merce soltanto di qualche unità percentuale più in basso dei suoi concorrenti, egli raggiunge lo scopo che vuol raggiungere. Egli li elimina, egli strappa loro almeno una parte del loro smercio, vendendo a un prezzo inferiore. E infine, ricordiamo che il prezzo corrente sta sempre al di sopra o al di sotto dei costi di produzione, a seconda che la vendita di una merce cade nella stagione favorevole o sfavorevole all’industria. A seconda che il prezzo di mercato della tela sta al di sopra o al di sotto dei costi di produzione che prima le erano abituali, varia la percentuale con cui il capitalista, che ha impiegato mezzi di produzione nuovi e più fruttuosi, vende al di sopra dei suoi costi di produzione reali.
Ma il privilegio del nostro capitalista non è di lunga durata; altri capitalisti concorrenti introducono le stesse macchine, la stessa divisione del lavoro, lo fanno su una stessa scala o su una scala più grande, e così questa introduzione diventa generale, fino a che il prezzo della tela cade non soltanto al di sotto dei suoi vecchi costi di produzione, ma al di sotto dei nuovi.
I capitalisti si trovano dunque, reciprocamente, nella stessa situazione in cui si trovavano prima dell’introduzione dei nuovi mezzi di produzione; e se essi possono, con questi mezzi, portare al mercato agli stessi prezzi una quantità doppia di prodotti, sono però costretti ora a vendere questo doppio prodotto al di sotto del vecchio prezzo. Sulla base di questi nuovi costi di produzione ricomincia lo stesso giuoco. Maggiore divisione del lavoro, più macchinario, una scala più grande su cui vengono sfruttati la divisione del lavoro e il macchinario. E la concorrenza produce nuovamente la stessa reazione a questo risultato [79].
Vediamo dunque che così il modo di produzione, i mezzi di produzione, sono costantemente sconvolti, rivoluzionati, che la divisione del lavoro porta con sé necessariamente una maggiore divisione del lavoro; l’impiego di macchine, un maggior impiego di macchine; il lavoro su vasta scala, un lavoro su scala ancora più vasta.
È questa la legge che di continuo getta la produzione borghese fuori del suo vecchio binario e costringe il capitale a intensificare sempre [80] più le forze produttive del lavoro, perché esso le ha intensificate una prima volta; la legge che non gli concede nessuna tregua e gli mormora senza interruzione: Avanti! Avanti!
Questa legge non è altro che la legge la quale, entro i limiti delle oscillazioni dei cicli commerciali, riconduce necessariamente il prezzo di una merce ai suoi costi di produzione.
Per quanto potenti siano i mezzi di produzione che un capitalista mette in campo, la concorrenza generalizzerà questi mezzi di produzione, e, a partire dal momento che essa li ha generalizzati, l’unico vantaggio della maggiore produttività del suo capitale è che egli ora dovrà fornire al mercato per lo stesso prezzo, dieci, venti, cento volte più merci di prima. Ma poiché egli dovrà forse vendere mille volte di più per compensare con una maggiore massa di prodotti venduti il prezzo di vendita più basso; poiché una vendita molto più larga è ora necessaria non soltanto per guadagnare, ma per reintegrare i costi di produzione, lo strumento di produzione stesso diventa, come abbiamo visto, sempre più caro, poiché questa vendita così larga è divenuta una questione di vita o di morte non solo per lui, ma anche per i suoi rivali; per questo la vecchia lotta ricomincia tanto più aspra, quanto più fruttuosi sono i mezzi di produzione già scoperti. La divisione del lavoro e l’impiego del macchinario proseguiranno dunque a svilupparsi sempre più, in misura sempre più grande.
Qualunque sia la potenza dei mezzi di produzione impiegati, la concorrenza cerca di rapire al capitale i frutti dorati di questa potenza, riconducendo il prezzo della merce ai costi di produzione; facendo sì che, nella misura in cui si può produrre di più a buon mercato, cioè nella misura in cui si può produrre di più con la stessa somma di lavoro, la produzione più a buon mercato, la fornitura di masse sempre maggiori di prodotti per lo stesso prezzo diventi una legge inesorabile. In tal modo con i suoi sforzi il capitalista non avrebbe guadagnato nient’altro che l’obbligo di produrre di più nello stesso tempo di lavoro, in una parola, nient’altro che condizioni più difficili di valorizzazione del suo capitale. Mentre la concorrenza lo perseguita senza tregua con la sua legge dei costi di produzione e ogni arma che egli forgia contro i suoi rivali si ritorce contro lui stesso, il capitalista cerca continuamente di superare la concorrenza sostituendo senza tregua al vecchio macchinario e alla vecchia divisione del lavoro macchinari nuovi e nuove divisioni del lavoro, più costose, ma che producono più a buon mercato, e ciò senza attendere che la concorrenza abbia rese vecchie anche le nuove.
Se ci rappresentiamo questa agitazione febbrile contemporaneamente su tutto il mercato mondiale, comprenderemo come l’aumento, l’accumulazione e la concentrazione del capitale hanno come conseguenza una divisione del lavoro ininterrotta, che travolge se stessa e viene introdotta su una scala sempre più gigantesca, un ininterrotto impiego di nuovo macchinario e il perfezionamento del vecchio.
Ma come agiscono queste circostanze, le quali sono inseparabili dall’aumento del capitale produttivo, sulla determinazione del salario?
La maggiore divisione del lavoro rende capace un operaio di fare il lavoro di cinque, di dieci, di venti; essa aumenta quindi di cinque, di dieci, di venti volte la concorrenza fra gli operai. Gli operai si fanno concorrenza non soltanto vedendosi più a buon mercato l’uno dell’altro; essi si fanno concorrenza nella misura in cui uno fa il lavoro di cinque, di dieci, di venti, e la divisione del lavoro, introdotta dal capitale e sempre accresciuta, costringe gli operai a farsi questo genere di concorrenza.
Inoltre, nella stessa misura in cui la divisione del lavoro aumenta, il lavoro si semplifica. L’abilità particolare dell’operaio perde il suo valore. Egli viene trasformato in una forza produttiva semplice, monotona, che non deve più far ricorso a nessuno sforzo fisico e mentale. Il suo lavoro diventa lavoro accessibile a tutti. Perciò da ogni parte si precipitano su di lui dei concorrenti; e ricordiamo inoltre che quanto più il lavoro è semplice, quanto più facilmente lo si impara, quanto minori costi di produzione occorrono per rendersene padroni, tanto più in basso cade il salario, perché, come il prezzo di qualsiasi altra merce, esso è determinato dai costi di produzione.
Nella misura, dunque, in cui il lavoro diventa tedioso e privo di soddisfazioni, nella stessa misura aumenta la concorrenza e diminuisce il salario. L’operaio cerca di conservare la massa del suo salario lavorando di più, sia lavorando più ore, sia producendo di più nella stessa ora. Spinto dal bisogno, egli rende ancora più gravi gli effetti malefici della divisione del lavoro. Il risultato è il seguente: più egli lavora, meno salario riceve, e ciò per la semplice ragione che nella stessa misura in cui egli fa concorrenza ai suoi compagni di lavoro, egli si fa di questi compagni di lavoro altrettanti concorrenti, che si offrono alle stesse cattive condizioni alle quali egli si offre, perché, in ultima analisi, egli fa concorrenza a se stesso, a se stesso in quanto membro della classe operaia [81].
Le macchine portano agli stessi risultati su una scala molto più vasta, perché sostituiscono operai qualificati con operai non qualificati, uomini con donne, adulti con ragazzi, perché le macchine là dove vengono introdotte per la prima volta gettano sul lastrico masse enormi di operai manuali, e dove vengono migliorate e perfezionate, sostituite ad altre più redditizie, provocano il licenziamento degli operai a gruppi più piccoli. Abbiamo già tracciato a grandi tratti il quadro della guerra industriale fra capitalisti; questa guerra ha come carattere specifico che le battaglie in essa vengono vinte meno con l’arruolamento di nuove armate di operai che con il loro licenziamento. I comandanti, i capitalisti, fanno a gara a chi può licenziare il maggior numero di soldati dell’industria.
È vero che gli economisti ci raccontano che gli operai resi superflui dalle macchine trovano lavoro in nuove branche dell’industria.
Essi non osano sostenere direttamente che gli stessi operai che vengono licenziati trovino un rifugio in nuovi rami di lavoro. I fatti gridano troppo forte contro questa menzogna. Essi si limitano ad affermare che per altre parti costitutive della classe operaia, per esempio per quella parte della giovane generazione operaia che era già pronta a entrare nel ramo dell’industria rovinato, si apriranno nuovi campi di impiego [82]. Ciò costituisce, evidentemente, una grande soddisfazione per gli operai colpiti. Ai signori capitalisti non mancheranno carne e sangue freschi da sfruttare; si lascerà che i morti seppelliscano i loro morti [83]. È questo un conforto che i borghesi concedono più a se stessi che agli operai. Se tutta la classe dei salariati fosse distrutta dalle macchine, che cosa terribile per il capitale, il quale senza lavoro salariato cessa di essere capitale!
Ma supponiamo pure che gli operai, che le macchine hanno eliminato dal lavoro direttamente, e tutta quella parte della nuova generazione, la quale già era in attesa di essere assunta in quel ramo, trovino una nuova occupazione. Credete voi che tale occupazione sarà retribuita come quella che è andata perduta? Ciò sarebbe in contraddizione con tutte le leggi dell’economia. Abbiamo visto come l’industria moderna tenda sempre a sostituire a una occupazione complessa, superiore, una occupazione più semplice, di ordine inferiore.
Come potrebbe dunque una massa di operai, che le macchine hanno espulso da una branca dell’industria, trovare rifugio in un’altra, a meno che non sia pagata peggio, con un salario inferiore?
Sono stati citati come eccezione gli operai che lavorano alla fabbricazione delle macchine stesse. Non appena nell’industria si richiedono e consumano più macchine, le macchine devono necessariamente aumentare, quindi anche la fabbricazione di macchine, quindi anche l’occupazione degli operai che lavorano alla fabbricazione di macchine; e gli operai occupati in questa branca d’industria sarebbero operai qualificati, anzi operai specializzati.
A partire dal 1840 questa affermazione, già prima vera soltanto per metà, ha perduto ogni parvenza di verità, in quanto per la fabbricazione delle macchine si impiegano in modo sempre più generale le macchine, né più né meno che per la fabbricazione del filo di cotone, e gli operai occupati nelle fabbriche di macchine tengono soltanto più il posto di macchine estremamente imperfette di fronte a macchine estremamente perfezionate [84].
Ma al posto dell’uomo che la macchina ha eliminato, la fabbrica occupa forse ora tre ragazzi e una donna. Il salario dell’uomo non avrebbe dovuto bastare per tre bambini e una donna? Il salario minimo non avrebbe dovuto bastare per conservare e accrescere la razza? Che cosa prova dunque questa affermazione così cara ai borghesi? Essa non prova altro, se non che ora vengono consumate quattro volte più vite operaie di prima, per guadagnare il sostentamento di una sola famiglia operaia.
Riassumendo: quanto più il capitale produttivo cresce, tanto più si estendono la divisione del lavoro e l’impiego della macchine. Quanto più la divisione del lavoro e l’impiego della macchine si estendono, tanto più si estende la concorrenza fra gli operai, tanto più si contrae il loro salario.
Per di più, la classe operaia si recluta anche fra gli strati più alti della società; in essa va a finire una massa di piccoli industriali e di gente che viveva di una piccola rendita, che non ha nulla di più urgente da fare che il levare le braccia accanto alle braccia degli operai. Così la foresta delle braccia tese in alto e imploranti lavoro si fa sempre più folta, e le braccia stesse si fanno sempre più scarne.
Il fatto che il piccolo industriale non può sopravvivere a questa guerra [85], in cui una delle prime condizioni è di produrre su una scala sempre più vasta, cioè di essere appunto un grande e non un piccolo industriale, si comprende da sé.
Il fatto che l’interesse del capitale diminuisce nella stessa misura in cui la massa e il numero dei capitali aumentano, nella misura in cui il capitale cresce, e che perciò colui che vive di una piccola rendita non può più vivere della sua rendita e deve buttarsi nell’industria, contribuendo con ciò a ingrossare le file dei piccoli industriali, e quindi dei candidati al proletariato, tutto questo non ha bisogno di essere maggiormente chiarito [86].
Infine, nella misura in cui i capitalisti sono costretti, dal movimento che abbiamo descritto, a sfruttare su una scala più grande i mezzi di produzione giganteschi già esistenti, e a mettere in moto per questo scopo tutte le leve del credito [87], nella stessa misura aumentano i terremoti [88], in cui il mondo del commercio si mantiene soltanto sacrificando agli dèi inferi una parte della ricchezza, dei prodotti e persino delle forze produttive: in una parola, nella stessa misura aumentano le crisi. Esse diventano più frequenti e più forti per il solo fatto che, nella misura in cui la massa della produzione, cioè il bisogno di estesi mercati, diventa più grande, il mercato mondiale sempre più si contrae, i nuovi mercati da sfruttare si fanno sempre più rari, poiché ogni crisi precedente ha già conquistato al commercio mondiale un mercato fino ad allora non conquistato o sfruttato dal commercio soltanto in modo superficiale [89]. Ma il capitale non vive soltanto del lavoro. Signore ad un tempo barbaro e grandioso, esso trascina con sé nell’abisso i cadaveri dei suoi schiavi, intere ecatombe di operai che periscono nelle crisi. Noi vediamo dunque che, se il capitale cresce rapidamente, cresce in modo incomparabilmente più rapido la concorrenza fra gli operai, cioè sempre più diminuiscono proporzionalmente i mezzi di occupazione, i mezzi di sussistenza per la classe operaia e ad onta di ciò il rapido aumento del capitale è la condizione più favorevole per il lavoro salariato.
(Continua) [90]
Note:
1 Resta uno schema manoscritto di sedici pagine, relativo alle conferenze tenute a Bruxelles, pubblicato postumo per la prima volta nel 1925 sulla rivista Unter dem banner des Marxismus, riportato nelle opere complete con il titolo di Salario.
2 Nella “Prefazione” a Per la Critica dell’Economia Politica Marx accenna specificamente al suo progetto di una pubblicazione tratta dai suoi appunti del 1847: “La pubblicazione d’una dissertazione, scritta in lingua tedesca, sul Lavoro salariato, in cui raccoglievo le conferenze tenute da me su questo argomento nella Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles, venne interrotta dalla rivoluzione di febbraio e dalla mia espulsione dal Belgio che ne seguì”.
3 Nel 1881, all’insaputa di tutti (probabilmente dello stesso Marx), era stata realizzata a Breslavia una edizione di 24 pagine dell’opuscolo. Nel 1884, dopo la morte di Marx, Engels aveva ripubblicato gli articoli apparsi sulla “Neue Reinische Zeitung” con il titolo di Lohnarbeit und Kapital.
4 In questa sua notazione, e in quelle successive, Engels si riferisce naturalmente alla sua redazione del 1891. Come sottolineato nella “Nota editoriale” introduttiva a pag. 5 di questo volume, il testo riportato nella presente edizione è, invece, quello originario pubblicato sulla “Neue Reinische Zeitung” nel 1849. Le modificazioni apportate da Engels nell’edizione del 1891 sono tutte riportate in nota.
5 Cfr.: K.Marx, Il Capitale, vol.I, Cap.I: “… Per economia politica classica io intendo tutta l’economia, da W.Petty in poi, che indaga il nesso interno dei rapporti di produzione capitalistici”. I maggiori rappresentanti dell’economia politica classica in Inghilterra furono A.Smith e D. Ricardo.
6 Cfr.: F.Engels, Antidüring, Sez.II, Cap.I: “L’economia politica, pur essendo sorta in alcune menti geniali verso la fine del secolo XVII, nella sua forma positiva è però stata creata dai fisiocratici e da Adam Smith; essa è dunque essenzialmente figlia del secolo XVIII”.
7 Cfr. anche: K.Marx, Salario, prezzo e profitto, pubblicato per la prima volta nel 1898, dopo la morte di Marx, e che costituisce una esposizione popolare di questo stesso problema.
8 Val la pena di sottolineare ulteriormente che fin qui Marx non ha “inventato” né “scoperto” niente: egli si è limitato ad evidenziare impietosamente la contraddizione irrisolvibile a cui era approdata l’economia politica classica. Merito di Marx — come sottolinea Engels — è di aver indicato la via per uscirne in modo rigoroso e di aver individuato il plus-lavoro e il plus-valore.
9 Cfr.: K.Marx, Il Capitale, Vol.I.
10 Con estrema lucidità e semplicità Engels fornisce una chiave di lettura attualissima dell’applicazione del progresso scientifico e tecnologico al processo produttivo all’interno dei rapporti di produzione capitalistici: ad ogni scoperta scientifica applicata alla produzione, ad ogni innovazione tecnologica inserita nel ciclo produttivo aumenta la quantità di lavoro non retribuita all’operaio, aumenta il plus-lavoro di cui si appropria il capitalista sotto forma di plus-valore, aumenta — quindi — lo sfruttamento. Il progresso scientifico e tecnologico, dunque, conferma — non contraddice — l’analisi marxista, poiché moltiplica e ingigantisce gli effetti iniqui del sistema capitalistico di produzione.
11 Dopo oltre un secolo la constatazione di Engels è ancora più vera ed attuale, malgrado le conquiste parziali strappate dai lavoratori, e nonostante che il capitalismo liberoscambista abbia ceduto il passo al capitalismo monopolista e imperialista. Proprio la mondializzazione dei mercati ha generalizzato su scala planetaria quel tipo di società che “soffoca nella sua stessa abbondanza”, in cui cresce incessantemente la divaricazione tra “una piccola classe smisuratamente ricca” e una “grande classe di salariati nullatenenti”. E lo sviluppo storico ha confermato come “questo stato di cose diventa di giorno in giorno più assurdo e più inutile”. Cfr. anche: Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo.
12 La politica di piano è irrinunciabile nella società socialista, ma non è di per sé sufficiente e non ne costituisce elemento esclusivo e caratterizzante. Necessaria per coordinare e finalizzare le “immense forze produttive di tutti i membri della società” e per evitare che si riproponga l’anarchia tipica dell’economia capitalistica, trova i suoi presupposti in valori, obbiettivi e meccanismi del tutto opposti a quelli del modo di produzione e di distribuzione del capitalismo. È in questa differenza che risiede l’inutilità degli sforzi di pianificazione che la borghesia va compiendo e, probabilmente, anche di molti errori e distorsioni nelle esperienze del socialismo “realizzato”. Non va, infine, dimenticato che anche tutti gli opportunisti fanno ricorso alla pianificazione come mezzo per superare il caos dell’economia capitalistica, o come traguardo di un “supercapitalismo” che, padrone incontrastato del mondo e privo (!) di contraddizioni interne, potrebbe finalmente programmare lo sviluppo e il benessere dell’intera società (!).
13 Engels delinea con rapidissimi tratti lo straordinario orizzonte che si apre per l’umanità con il “nuovo ordine sociale” in cui, finalmente, l’immenso potenziale di forze e di creatività della società avrà la possibilità di dispiegare tutte le proprie capacità di progresso. E — oggi più di ieri — il grande sviluppo scientifico e tecnologico, la crescita straordinaria di tutte le forze produttive — che il sistema capitalistico distorto oggi soffoca e distrugge e che debbono essere liberate — rendono più che mai possibile e necessario questo nuovo punto di partenza per l’umanità, un diverso e straordinario sviluppo (“in misura crescente” e “a disposizione di tutti”) quale la storia non ha mai conosciuto.
14 Il 1° Maggio fu proclamato giornata di lotta e di festa della classe operaia nel 1889 con una risoluzione del I° Congresso operaio internazionale (con cui fu fondata la II Internazionale) tenutosi a Parigi. Le Trade Unions inglesi decisero di celebrare questa giornata di solidarietà la prima domenica del mese che, nel 1891, cadeva il giorno 3.
15 Marx, nella lettera del 1° agosto 1849 all’amico Joseph Weydemeyer indica questo lavoro con il titolo di Il salario. La suddivisione in capitoli qui riportata corrisponde alla sequenza di pubblicazione dei cinque editoriali sulla Neue Rheinisce Zeitung rispettivamente dei 5, 6, 7, 8 e 11 aprile 1849.
16 È il concetto fondamentale che sta alla base della concezione materialistica della storia elaborata da Marx: ogni società è divisa in classi e i loro rapporti politici poggiano sulle rispettive condizioni materiali e, cioè, sui loro reciproci rapporti economici. Così, nella società borghese, le lotte tra la classe dei capitalisti e quella dei proletari si basano sulle condizioni materiali insite nei rapporti capitalistici di produzione e di scambio che vedono queste due classi proprietarie l’una di tutti i mezzi di produzione (e, quindi dei prodotti e del loro valore di scambio), e l’altra esclusivamente della propria forza-lavoro.
Quanto alle lotte “nazionali” occorre sottolineare come la lotta del proletariato, pur essendo senza frontiere, è in ciascun paese diretta in primo luogo necessariamente contro la borghesia organizzata come classe dominante (economicamente e politicamente) su base nazionale.
17 Si tratta delle rivoluzioni del 23 e 24 febbraio 1848 a Parigi, del 13 marzo a Vienna e del 18 marzo a Berlino.
18 “1848” è aggiunto nella edizione del 1891 da Engels.
19 Marx si riferisce agli avvenimenti più importanti del biennio 1848-49: l’insurrezione del proletariato di Parigi dei 23-26 giugno 1848; la repressione dell’insurrezione popolare dell’ottobre dello stesso anno a Vienna, culminata con la conquista della città il 1° novembre da parte delle truppe di Windischgrätz; il colpo di Stato controrivoluzionario in Prussia del novembre 1848 con lo scioglimento dell’Assemblea nazionale prussiana il 5 dicembre successivo; le lotte di liberazione e di indipendenza nazionale in Polonia, Italia e Ungheria. Infine l’Irlanda, dove negli anni tra il 1845 e il 1847 si ebbe una terribile carestia seguita al ripetersi di pessimi raccolti di patate.
20 Engels, edizione del 1891: “del cosiddetto ceto inurbato”.
21 Questo opuscolo è, appunto, il primo dei tre capitoli previsti da Marx, l’unico che fu possibile pubblicare prima che la “Neue Rheinische Zeitung” fosse soppressa nel maggio 1849 dalle autorità, in seguito al precipitare della situazione politica. Come sottolinea Engels nella Introduzione del 1891 “il manoscritto del seguito non è stato trovato tra le carte lasciate da Marx”
22 Engels, nell’edizione del 1891, sostituisce sempre “franco” con “marco”.
23 Engels, 1891: le parole “per un determinato tempo di lavoro o” sono omesse.
24 Engels, 1891: “capitalista” invece di “borghese”.
25 Engels, 1891: “Il capitalista, sembra,”.
26 Engels nell’edizione del 1891 ha aggiunto: “Ma ciò non è che l’apparenza. Ciò che essi in realtà vendono al capitalista per denaro è la loro forza-lavoro. Il capitalista compera per un giorno questa forza-lavoro, una settimana, un mese, ecc. E dopo averla comperata, egli la usa facendo lavorare gli operai per il tempo pattuito”.
La differenza tra lavoro e forza-lavoro è decisiva in tutta la elaborazione marxista sul salario e sul plus-valore: è alla base della spiegazione scientifica data da Marx della determinazione del salario e della natura dello sfruttamento capitalistico. La forza-lavoro è la capacità lavorativa (energia muscolare, capacità mentale, abilità, etc.) che l’operaio possiede, che deve essere continuamente riprodotta e che consente all’operaio di effettuare un lavoro concreto (ad esempio, di fabbricare un determinato oggetto). È del tutto evidente che tale lavoro concreto è cosa del tutto diversa dalla capacità di lavoro (o forza-lavoro) che l’operaio possiede.
27 Engels, 1891: “il capitalista ha comperato la loro forza-lavoro”.
28 Engels, 1891: invece di “lavoro”, “uso di forza-lavoro”.
29 Engels, 1891: “forza-lavoro” invece di “lavoro”.
30 Engels, 1891: “per tanto uso di forza-lavoro”.
31 Engels, 1891: “prezzo della forza-lavoro, che d’abitudine si chiama il prezzo del lavoro”.
32 Nell’edizione del 1891 Engels sostituisce, qui e di seguito “borghese” con “capitalista”.
33 Dunque: anche per Marx, come per gli economisti classici, l’acquisto di forza-lavoro produttiva da parte del capitalista costituisce un investimento di capitale al pari dell’acquisto degli impianti, degli strumenti di lavoro, delle materie prime, etc.
34 Qui Marx accenna ad un altro suo concetto fondamentale, quello del “lavoro estraniato” e, quindi, dell’alienazione dell’operaio nella società capitalistica. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx aveva scritto: “L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto lo confronta estranea e nemica”. “In che cosa consiste ora l’espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica o spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso”. Il lavoro in cui l’operaio si aliena è, dunque, un sacrificio, una mortificazione; la sua attività non appartiene più a lui ma ad un altro. “Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare […] e che nelle sue funzioni umane si sente solo più che una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale”.
35 Engels, 1891: “a questo o quel capitalista, ma alla classe dei capitalisti”.
36 Engels, 1891: “classe dei capitalisti”.
37 L’ordinamento giuridico borghese considera — sotto il profilo formale — il proletario “libero”, mentre il sistema economico borghese ne fa — di fatto — una sorta di schiavo. Il lavoratore salariato è, per così dire, “libero di essere schiavo”. E, del resto, questa sua condizione di completa subordinazione economica è sancita da quello stesso ordinamento giuridico borghese che, mentre tutela solo formalmente la “libertà” e la “uguaglianza” dei cittadini, disciplina, nella sostanza, attraverso la tutela della proprietà privata, la disuguaglianza e due ben diversi concetti di libertà. Da questa evidente contraddizione tra rapporti giuridici formali e rapporti economici reali scaturisce il rifiuto marxista della democrazia liberale borghese.
38 Nel manoscritto copiato dall’amico di Marx, Weydemeyer, si legge qui di seguito: “… secondo le leggi della concorrenza. Ed esse, come ho già spiegato, riconducono sempre il prezzo della merce al suo costo di produzione. Ciò però non avviene in modo tale che le merci si vendano e si comprino sempre ugualmente ai prezzi indicati, ma in modo che ai costi di produzione si uguaglia il prezzo medio, che si ottiene come risultato di grandi oscillazioni della domanda e dell’offerta”.
39 Il lettore tenga conto che Marx, ovviamente, analizza il fenomeno all’interno della realtà del suo tempo, l’unica che egli conosca e possa studiare, quella di un capitalismo ancora basato sulla libera concorrenza. L’avvento dei monopoli, intorno alla fine del secolo scorso, ha spesso notevolmente modificato il meccanismo studiato da Marx, portando anche a fenomeni paradossali apparentemente opposti, proprio per la capacità delle concentrazioni monopolistiche di assumere, entro certi limiti, decisioni e comportamenti che un sistema concorrenziale non permetterebbe.
40 Marx, in linea con l’economia classica, sostiene che per comprendere effettivamente le ragioni delle oscillazioni dei prezzi occorre superare la “banalità” della legge della domanda e dell’offerta ed elaborare una teoria dei costi che si basi sul valore delle merci in termini di lavoro. La quantità, cioè, di forza-lavoro necessaria alla produzione individua il costo di produzione intorno a cui i prezzi oscillano. L’economia politica borghese moderna ha creduto di poter superare questa teoria sostituendovi quella della cosiddetta “utilità marginale” che, in realtà ha ben poco di scientifico poiché sostituisce al criterio oggettivo dei costi di produzione quello soggettivo della valutazione, da parte dei singoli individui, del grado di utilità — da ciascuno attribuibile arbitrariamente — per definire il valore delle merci.
41 La formazione dei monopoli ha evidentemente modificato questo meccanismo descritto da Marx: la mobilità assoluta dei capitali è possibile soltanto in un sistema di piena concorrenza. Il regime monopolistico ostacola o impedisce l’immigrazione di capitali e la formazione di nuove aziende in un determinato settore produttivo. Il regime dei prezzi, di conseguenza, non subisce l’influenza di questa mobilità dei capitali e delle conseguenti variazioni della produzione. Cfr. anche: Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo.
42 Vale a dire che in regime di libera concorrenza la formazione del prezzo delle merci si spiega con la variazione complessiva della produzione e della circolazione delle merci: i prezzi sono spinti ciclicamente ora in alto ora in basso a seconda delle fasi alterne di queste variazioni. La formazione dei prezzi, cioè, si determina, sì, sulla base dei costi di produzione delle merci, ma attraverso il meccanismo della concorrenza. Ne Il capitale Marx spiegherà che i prezzi di vendita delle merci oscillano intorno ai “prezzi di produzione” (costi di produzione + profitto medio). Cfr.: Marx, Il Capitale, II, sez. I-IV).
43 Engels, 1891: “logorio degli strumenti di lavoro”.
44 Nel manoscritto ricopiato da Weydemeyer si legge qui di seguito: “Ancora una volta abbiamo stabilito che il prezzo di una merce è determinato dai costi di produzione, e i costi di produzione del lavoro sono i costi che si esigono per conservare l’operaio come operaio e fare di lui un operaio”.
45 Marx tiene in debito conto che il valore della forza-lavoro può avere grandezze diverse, vuoi per motivi storici, vuoi per il maggior costo della formazione e dell’apprendimento. Non per caso, ed anche per questo motivo, il salario di un lavoratore qualificato o specializzato è superiore a quello di un lavoratore generico. E poiché il valore della forza-lavoro può essere diverso Marx ha sempre polemizzato con la tesi ingenua del “livellamento dei salari”, ritenuta da lui priva di qualsiasi fondamento. Cfr.: Marx, Critica al programma di Gotha.
46 Engels, 1891, aggiunto: “e capace di lavorare”.
47 Engels, 1891: “della semplice forza-lavoro”.
48 In Miseria della filosofia Marx fa una affermazione simile. A quel brano Engels annota: “La tesi secondo la quale il prezzo ”naturale”, cioè, normale, della forza-lavoro coincide col minimo del salario, cioè con l’equivalente del valore dei mezzi di sussistenza assolutamente necessari per la vita e per la riproduzione dell’operaio, questa tesi venne stabilita la prima volta da me, nello Schizzo di una critica dell’economia politica (Deutschfranzösische Jahrbücher, Parigi, 1844) e nella Situazione della classe operaia in Inghilterra. Come si vede da questo passo, Marx aveva allora accettato questa tesi. Da noi due la prese Lassalle. Ma sebbene in realtà il salario abbia continuamente la tendenza ad avvicinarsi a questo minimo, la tesi suddetta è falsa. Il fatto che la forza-lavoro viene pagata in media e di regola al di sotto del suo valore, non può mutare il valore di essa. Nel Capitale Marx ha ad un tempo rettificato quella tesi (cap. “Compera e vendita della forza-lavoro”) e inoltre (capitolo XXIII, “La legge generale dell’accumulazione capitalista”) mostrato quali sono le circostanze che permettono alla produzione capitalistica di ridurre il prezzo della forza-lavoro al disotto del suo valore”.
49 In Salario, prezzo e profitto Marx spiega che il valore della forza-lavoro è costituito di due elementi “di cui l’uno è unicamente fisico, l’altro è storico o sociale. Il suo limite minimo è determinato dall’elemento fisico; il che vuol dire che la classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare la propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d’uso assolutamente necessari per la sua vita e la sua riproduzione. Il valore di questi oggetti d’uso assolutamente necessari costituisce quindi il limite minimo del valore del lavoro… Oltre che da questo elemento puramente fisico il valore del lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella vita fisica, ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati educati”. Cfr. anche: Marx, Il Capitale, I, cap. “Compera e vendita della forza-lavoro”, e sezione VI “Il salario”.
50 Nel manoscritto copiato da Weydemeyer vi è aggiunto: “Prima di considerare il capitale nelle sue relazioni reciproche con il lavoro, dobbiamo determinare in modo più esatto il concetto di capitale”.
51 Marx intende sottolineare che il capitale non è soltanto lavoro accumulato, ma lo è in modo storicamente determinato, all’interno di un determinato rapporto di produzione, quello della società borghese, che è fondato sullo sfruttamento della forza lavoro del proletariato da parte della classe dei capitalisti. Questa natura sociale del capitale viene, ovviamente, ignorata nelle elaborazioni economiche borghesi.
Nel manoscritto copiato da Weydemeyer si legge di seguito: “… ponete la macchina in condizione tale che non sia accessibile al lavoro umano, ed essa non sarà più capitale, così come non lo è uno scoglio del mare, il quale, benché possa distruggere del valore, non ne può creare. Vedete dunque che il concetto di capitale non si può assolutamente ridurre al concetto di lavoro accumulato. Il concetto di capitale significa in pari tempo un determinato rapporto sociale, e precisamente il rapporto di produzione della società borghese”.
52 Engels, 1891: “non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri”
53 Engels, 1891: “la loro azione sulla natura”.
54 Per un ulteriore approccio alla concezione materialistica della storia, cfr., tra l’altro: Marx, “Prefazione” a Per la critica dell’economia politica; Marx, Tesi su Feuerbach; Engels, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca; Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza; Marx-Engels, L’ideologia tedesca.
55 Marx esplicita in modo inequivocabile che “il capitale è un rapporto sociale di produzione”, anzi “è un rapporto borghese di produzione, un rapporto di produzione della società borghese”. Vedi anche nota n.51. Si noti come Marx indichi anche i mezzi di sussistenza tra gli elementi costitutivi del capitale.
56 Engels, 1891: qui e oltre: “pfenning” invece di “centesimo”
57 Invece dei quattro capoversi precedenti, nel manoscritto copiato da Weydemeyer si legge: “Come ho già detto, il concetto di capitale significa un rapporto sociale determinato, il rapporto di produzione della società borghese”.
58 Il capitale, cioè, esiste in quanto tale esclusivamente grazie alla forza-lavoro “vivente” e alla possibilità di sfruttarla “come mezzo per conservare e per accrescere il valore di scambio”. Senza l’uso della forza-lavoro — all’interno di ben determinati rapporti di produzione — da parte del capitalista, non esisterebbe il capitale. A differenza di ogni altra merce, inoltre, la forza-lavoro è l’unica che accresce il valore di scambio.
59 Engels, 1891: “tra capitalista e lavoratori salariati”.
60 Nel manoscritto copiato da Weydemeyer, invece di questa frase, si legge: “Consideriamo più da vicino lo scambio tra capitale e lavoro”.
61 Ma con una differenza che emerge chiarissima dal testo di Marx: il rapporto si risolve in modo improduttivo per il lavoratore salariato (che ha ricevuto e consumato mezzi di sussistenza), e in modo riproduttivo e produttivo per il capitalista (che ha reintegrato e accresciuto il capitale anticipato). È questa la contraddizione reale e ineliminabile insita nel rapporto capitalistico di produzione.
62 Engels, 1891: “la forza-lavoro del salariato”.
63 Engels, 1891: “dei lavoratori”.
64 L’aumento della ricchezza prodotta dalla forza-lavoro salariata porta ad una crescita del capitale ed anche (ma non necessariamente) dei salari. Tuttavia, poiché i frutti del lavoro sociale non sono equamente distribuiti (in massima parte al capitale, in minima parte, e non sempre, al salario), il divario sociale tra la classe dei capitalisti e la classe dei proletari aumenta. Ben vero che l’operaio può soddisfare con il salario aumentato un numero maggiore di bisogni, ma è altrettanto vero che la crescita economica ne crea di nuovi che l’operaio non potrà soddisfare o potrà soddisfare solo in piccola parte. Ciò che Marx evidenzia è che i bisogni dei lavoratori salariati non sono soltanto quelli assoluti, legati alla mera sopravvivenza naturale, ma anche e soprattutto quelli relativi, legati alla società in cui il lavoratore salariato vive. Essi, quindi, crescono sia con la crescita della società nel suo complesso, sia con la crescita del divario sociale (ed oggi, dovremmo aggiungere, con la crescita dei bisogni indotti aritificiosamente per creare nuovi spazi di mercato). Occorre tener conto di questo essenziale passaggio dell’elaborazione marxiana per poter comprendere come la condizione operaia in regime capitalistico è destinata — a causa del divario sociale inevitabilmente crescente — a peggiorare in termini relativi.
65 Nel manoscritto copiato da Weydemeyer, in luogo dell’ultima frase interrogativa, si legge: “Il salario non viene soltanto determinato da questo prezzo in denaro”.
66 Engels, 1891: “alla scoperta in America di miniere più ricche e più facili a essere sfruttate”.
67 È la modificazione più consistente apportata da Engels nell’edizione del 1891 che, da questo punto e fino alla fine del capoverso sopprime lo scritto originario e lo sostituisce con questo lungo brano: “… il salario relativo, invece, esprime la parte del valore nuovamente creato che spetta al lavoro immediato, in confronto con la parte che spetta al lavoro accumulato, al capitale.
“Dicevamo sopra: ‘Il salario non è una partecipazione dell’operaio alla merce da lui prodotta. Il salario è quella parte di merce, già preesistente, con la quale il capitalista si compera una determinata quantità di forza-lavoro produttiva’. Ma questo salario il capitalista deve reintegrarlo dal prezzo al quale egli vende il prodotto creato dall’operaio; e lo deve reintegrare in modo tale che, di regola, gli resti ancora un’eccedenza sui costi di produzione anticipati, un profitto. Il prezzo di vendita della merce prodotta dall’operaio si suddivide, per il capitalista, in tre parti: primo, la reintegrazione del prezzo delle materie prime da lui anticipate e il logorio degli strumenti, macchine e altri mezzi di lavoro ugualmente anticipati da lui; secondo, la reintegrazione del salario da lui anticipato, e, terzo, un’eccedenza, il profitto del capitalista. Mentre la prima parte reintegra soltanto dei valori preesistenti, è evidente che tanto la reintegrazione del salario quanto l’eccedenza di profitto del capitalista vengono tratti, grosso modo, dal nuovo valore creato dal lavoro dell’operaio, e aggiunto alle materie prime. In questo senso, per confrontarli tra di loro, possiamo considerare tanto il salario quanto il profitto come partecipazione al prodotto dell’operaio”.
68 Se non lo si considera come anticipazione del capitale (al pari delle materie prime, dei macchinari, etc.), ma come derivazione del nuovo valore creato con la propria forza-lavoro dall’operaio, il salario è una parte del valore aggiunto dalla forza-lavoro, una parte del prodotto dell’operaio. Esattamente come lo è il profitto che è ciò che resta del valore aggiunto, una volta detratto il salario. Salario e profitto sono, dunque, relativi l’uno all’altro.
69 Engels, 1891, sostituisce l’intera frase: “La parte di capitale in rapporto alla parte del lavoro è cresciuta”.
70 È il concetto di “plus-valore relativo” (complementare a quello di “salario relativo”), con cui Marx dimostra come l’aumento della ricchezza prodotta dalla forza-lavoro dell’operaio, sia pure con un incremento dei salari non solo nominali ma reali, porta ad un peggioramento della posizione sociale del lavoratore rispetto a quella del capitalista, ad un suo impoverimento relativo, perché è maggiore la parte di prodotto (vale a dire del valore aggiunto dalla forza-lavoro operaia) che va al profitto del capitalista rispetto a quella che va al salario dell’operaio. Cfr. anche: Marx, Salario, prezzo e profitto; Marx, Il Capitale, I, cap.XXIII, “La legge generale dell’accumulazione capitalistica”.
71 Engels, 1891: “Il valore di scambio del capitale” è sostituita da “La parte che spetta al capitale”.
72 Engels, 1891: “il valore di scambio del lavoro” è sostituita da “la parte che spetta al lavoro”.
73 Engels, 1891 aggiunge: “altrui”.
74 Engels, 1891 aggiunge: “a lungo andare”.
75 Engels, 1891 sostituisce “lavoro vivo” con “lavoro immediato”.
76 È la conclusione assolutamente rigorosa della elaborazione fin qui sviluppata da Marx. Ma questa contraddizione assoluta tra capitale e lavoro è anche la premessa di tutta l’elaborazione politica marxiana, basata sulla irriconciliabilità degli opposti interessi di classe tra capitalisti e lavoratori. E quel che occorre sottolineare a questo punto è che lo scontro tra borghesia e proletariato non è un dato superabile volontaristicamente, ma irriducibile perché è basato sulle leggi oggettive che sovraintendono in modo ferreo ai meccanismi del modo di produzione capitalistico. Anzi, quanto più lo sviluppo della società — che si realizza attraverso l’aumento della produzione sociale — accresce il divario tra la classe che produce nuova ricchezza e la classe che se ne appropria, in misura per di più crescente, tanto più la contraddizione si fa irriconciliabile.
77 Engels, 1891 sostituisce “valore di scambio” con “prezzo”.
78 Tutto lo sviluppo capitalistico dall’epoca in cui Marx scriveva si è basato sulla crescente divisione del lavoro e sull’introduzione sempre più gigantesca di macchine via via più perfezionate tecnicamente. Questi fattori hanno consentito ai capitalisti di ridurre i costi di produzione, di accrescere enormemente i profitti e, quindi, di far divenire “tanto più fruttuoso” lo sfruttamento del lavoro. In regime di libera concorrenza questi potenti stimoli alla crescita hanno svolto in pieno il loro ruolo. E quando sono intervenuti i monopoli leffetto è stato rinnovato con l’impiego ancora più massiccio di macchinari ormai in grado di incorporare una quantità straordinaria di lavoro “diviso”. Cfr.: Il Capitale, III, cap. X.
79 Si tenga sempre presente che Marx ha analizzato il processo dell’aumento di produttività del lavoro, dello sfruttamento crescente della forza-lavoro, dell’accumulazione del capitale e dell’ampliamento del mercato nelle condizioni della libera concorrenza. Con l’avvento dei monopoli molti effetti si determinano in modo diverso: la rigidità dei prezzi, ad esempio, consente ai monopolisti di aumentare i profitti riducendo i costi, e di mantenere quei profitti straordinari che in condizioni di concorrenza sono temporanei.
80 Engels, 1891 aggiunge: “di più”.
81 Naturalmente qui Marx non tiene volutamente conto dell’azione delle organizzazioni di classe dei lavoratori che agiscono proprio in senso opposto. Cfr., ad esempio: Marx, Salario, prezzo e profitto.
82 È un’analisi quanto mai rigorosa e che l’avvento dei monopoli ha reso ancora più attuale. Così come la critica agli economisti borghesi che continuano a raccontare sciocchezze di compensazione tra posti di lavoro andati perduti e quelli nuovi creati. Cfr.: Marx: Il Capitale, I “Macchine e grande industria”, in cui viene dimostrato come “l’effetto “temporaneo” delle macchine è permanente, invece, quando si impadronisce di sempre nuovi campi di produzione”, vale a dire che la quantità finale di forza-lavoro “liberata” dall’introduzione delle macchine è superiore a quella che può nel frattempo complessivamente essere riassorbita.
83 Anche per quello che riguarda la sostituzione dei lavoratori espulsi dalla produzione con le nuove generazioni operaie l’elaborazione di Marx mantiene tutta la sua freschezza e attualità. Quel che Marx non poteva immaginare è che i capitalisti sono riusciti — senza una consistente opposizione delle organizzazioni operaie — a trarne ulteriore vantaggio abbassando con artifici giuridici il prezzo della forza-lavoro giovanile sostitutiva.
84 Lo sviluppo dell’industria pesante e, ancor di più, del settore della produzione delle macchine utensili, in cui il rapporto tra capitale e forza-lavoro è più alto, ha confermato l’analisi di Marx
85 Engels, 1891: “lotta” invece di “guerra”.
86 Cfr.: Marx, Il Capitale, III).
87 Cfr.: Marx, Il Capitale, cap.XXVII, “La funzione del credito nella produzione capitalistica”).
88 Engels, 1891 aggiunge: “industriali”.
89 Anche questo passo è di estrema attualità. Anzi, l’avvento dei monopoli e la mondializzazione dei mercati ha ulteriormente aggravato la contraddizione del capitalismo costituita dalle crisi. Di più: nell’epoca dell’imperialismo lo stato di crisi è la condizione di normalità e, perfino, di ulteriore “crescita” del capitalismo.
Per una trattazione più sistematica del problema da parte di Marx, cfr. Il Capitale, II, “Le crisi”?
90. Il 20 aprile 1848 la “Neue Reinische Zeitung” annunciava l’imminente ripresa delle pubblicazioni: “L’assenza momentanea dell’autore ci obbliga a interrompere l’analisi dei rapporti tra lavoro salariato e capitale. La riprenderemo tuttavia tra poco e la condurremo a termine senza interruzione”. La stampa di Lavoro salariato e capitale, invece, restò incompiuta.