di Gianni Barbacetto
Ieri il quotidiano Il Tempo ha annunciato in prima pagina una nuova “verità” sul caso Abu Omar: “Ecco le carte segrete, Pollari innocente”. La vicenda è quella dell’imam Abu Omar, sequestrato nel 2003 a Milano da un commando della Cia e portato di forza in Egitto, dove è stato a lungo detenuto e torturato. Caso chiuso, perché la Procura di Milano, dopo un’indagine da film di 007 condotta da Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, è riuscita a ottenere le condanne per sequestro di persona dei 27 americani protagonisti dell’extraordinary rendition. Gli italiani del Sismi (il servizio segreto oggi Aise) che hanno collaborato all’operazione – l’allora direttore Nicolò Pollari e gli ufficiali Marco Mancini, Raffaele Di Troia, Giuseppe Ciorra e Luciano Di Gregori – hanno evitato la condanna definitiva soltanto per l’intervento della Corte costituzionale che li ha protetti con il segreto di Stato (come denunciato con chiarezza dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo del febbraio 2016).
Ora la vicenda torna alla ribalta, a causa di una indagine aperta dalla Procura di Ravenna su minacce di morte ricevute da Marco Mancini e altri agenti. Una strana indagine, per almeno due motivi: il primo è che il procuratore della Repubblica di Ravenna è Alessandro Mancini, fratello di Marco; il secondo, che l’inchiesta parte dalle minacce ricevute dagli 007, ma si trasforma – indebitamente – in una controinchiesta sul rapimento Abu Omar che punta a dimostrare che Pollari, Mancini e gli altri sono innocenti. Pezzo forte dell’indagine, che ora sta per essere chiusa con una richiesta d’archiviazione, è la rivelazione di una “inchiesta interna” realizzata dal Sismi che – scrive sul Tempo Gian Marco Chiocci – scagionerebbe gli imputati della Procura di Milano. “Sì, è stata fatta questa inchiesta interna al servizio, da me e dal dottor Manenti, entrambi all’epoca vicedirettori”: lo dichiara ai magistrati di Ravenna Paolo Scarpis, che quando Abu Omar fu rapito era questore a Milano (e fu la Digos della questura ad arrestare Mancini e gli altri) e ora è vicedirettore dell’Aise. “Questa inchiesta, che si risolse in un pomeriggio, è consistita nell’audizione di alcuni appartenenti al servizio impegnati da tempo nei servizi di osservazione aventi ad oggetto estremisti islamici presenti sul territorio italiano”.
Alberto Manenti, attuale direttore dell’Aise, smentisce però il collega: nessuna inchiesta interna, “solo un processo di valutazione riscontri al fine di promuovere il conflitto di attribuzione e fornire al presidente del Consiglio tutti gli elementi necessari per delimitare il segreto di Stato”. Comunque sia, appare debole contrapporre una “indagine interna” al lungo processo penale che ha valutato prove tanto solide da produrre pesanti condanne, seppur revocate dal segreto di Stato: è chiaro che ogni oste dirà che il suo vino è buono. Ma intanto vengono messi in circolo nuovi dubbi (o vecchi depistaggi?). Come quelli secondo cui nell’operazione Abu Omar sarebbero coinvolti altri agenti del Sismi, diversi da quelli finiti sotto processo. Magari appartenenti non alla divisione comandata da Mancini, ma a quella di Nicola Calipari (poi ucciso in Iraq).
Con un mistero internazionale: uno straniero, forse un alto responsabile della Cia, si era offerto di portare ai vertici del Sisde e all’allora presidente del Consiglio Mario Monti notizie che “avrebbero consentito di certificare la nostra innocenza”, dichiara Pollari. Ma “nonostante le mie sollecitazioni, i risultati di questa inchiesta non mi risulta siano stati utilizzati nel processo”. Marco Mancini si mostra entusiasta dell’inchiesta di Scarpis: “Riferirono a me, al generale Pollari e ad altri che era stata appurata la nostra estraneità rispetto al sequestro Abu Omar. L’esito dell’istruttoria ci fu comunicato con termini enfatici poco prima della pronuncia della sentenza di condanna nei nostri confronti. Ritengo però che l’esito di questa istruttoria non fu adeguatamente rappresentato nelle sedi opportune, ovvero nel processo d’appello”. Erano pronte due relazioni scritte, di Mancini e Di Troia, che spiegavano la “verità”. Invece tutto viene bloccato. Scarpis promette promozioni e chiede in cambio ai due agenti di ritirare le relazioni, perché “il contenuto avrebbe potuto creare seri imbarazzi al governo”. Si punta solo sul segreto di Stato, che comunque salva gli imputati.
Avrebbe dovuto scendere in campo anche il presidente del Consiglio Matteo Renzi, con una lettera ai magistrati di Milano in cui spiegava i fatti e scagionava gli agenti del Sismi. Invece niente. Agli atti del processo di Ravenna c’è però una lettera della presidenza del Consiglio, controfirmata da Renzi il 28 aprile 2015, che dice che sulle due relazioni non c’è segreto di Stato. Ma alla fine Scarpis smorza tutto: “Un’inchiesta c’è stata, ma non era quello lo scopo al quale tendeva”. E smonta anche la “fonte americana”: “Mancini me ne parlò, ma non aveva nulla a che vedere, sia come tempi che come oggetto, con l’inchiesta”.
Il Fatto quotidiano, 21 luglio 2016