Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Alla Commissione antimafia disse: “Cosa nostra prendeva armi dalla Nato”
Trent’anni. Tanto è passato da quel terribile 1992, in cui ebbero luogo gli eccidi di Capaci e via d’Amelio. Stragi che sconvolsero il Paese e che portarono alla morte i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino, e gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina, Emanuela Loi e Claudio Traina.
La ricerca della verità su quei delitti ancora oggi non è completa e sul punto lavorano la Procura nazionale antimafia, le Procure di Palermo, Caltanissetta, Firenze e Reggio Calabria. Del resto sono tante le domande che attendono una risposta anche se pian piano, con inchieste e processi, prende forma in maniera sempre più netta la certezza che dietro a quella stagione di stragi non vi sia stata solo la mano di Cosa nostra.
Sono veramente numerosi e concreti gli spunti, gli indizi ed i fatti che, messi in fila, permettono di comprendere il reale motivo per cui quelle stragi possono considerarsi a tutti gli effetti come stragi di Stato.
Tra gli interrogativi più grandi a cui si è sempre cercato di dare una risposta riguardo il motivo per cui il progetto della strage di Via D’Amelio abbia subito un’accelerazione improvvisa, di cui Riina si assunse la responsabilità con i suoi sodali.
(foto) Il cratere della strage di Capaci © Shobha
Paolo Borsellino andava eliminato. Perché?
Il segreto, probabilmente, è in quei 57 giorni che separano il 23 maggio dal 19 luglio.
E’ chiaro che Paolo Borsellino aveva scoperto qualcosa di importante.
Tra le possibili “concause” dell’accelerazione dell’attentato, secondo gli inquirenti, potrebbe esservi l’intervista rilasciata il 21 maggio ai giornalisti francesi di Canal Plus (documento in cui parlava dei rapporti tra Mangano, Berlusconi e Dell’Utri, del fatto che Vittorio Mangano era considerato la “testa di ponte” dei finanziamenti di Cosa nostra al nord). Non si può dimenticare che Borsellino aveva chiesto pubblicamente di essere sentito dai magistrati di Caltanissetta in quanto ‘testimone’ di fatti di rilievo per le indagini sulla strage di Capaci, ndr. E’ un dato acquisito che in quel periodo ebbe a chiedere informazioni sull’inchiesta mafia-appalti, ma sappiamo anche che Paolo Borsellino era stato informato della trattativa, o meglio del dialogo avviato tra i carabinieri del Ros e Vito Ciancimino. Sappiamo, inoltre, che il primo luglio iniziò ad interrogare il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo, il quale gli parlò di soggetti istituzionali come il giudice Signorino ed il funzionario del Sisde Bruno Contrada. Ma nei giorni tra il 30 gennaio ed il 17 luglio Borsellino raccolse anche altre dichiarazioni: quelle di Leonardo Messina, boss di San Cataldo vicino al clan di Piddu Madonia, responsabile di Cosa nostra per la provincia di Caltanissetta.
La Cosa unica
“Narduzzo”, così veniva appellato, non è un collaboratore di giustizia come tanti. Per comprendere quanto siano state dirompenti, al tempo, le sue dichiarazioni basta riascoltare la sua deposizione davanti alla Commissione Antimafia presieduta da Luciano Violante, il 4 dicembre 1992. L’ex uomo d’onore di San Cataldo si soffermava allora sui legami tra mafia e politica e sui rapporti da lui intrattenuti con il Sisde a partire dal 1986, con particolare riferimento alle indicazioni che dichiara di aver fornito su come catturare gli esponenti della “Commissione mondiale di Cosa Nostra riunita”, ovvero i vertici di Cosa nostra e di alcune sue ramificazioni a livello internazionale.
In quella deposizione parlava anche dei rapporti tra le varie mafie (“Il vertice della ‘Ndrangheta è Cosa nostra. I soldati non sanno che appartengono tutti ad un’unica organizzazione. Lo sa il vertice”) o le modalità di rifornimento di armi tramite canali militari (“La nostra fornitrice principale è stata la Svizzera, ma da qualche tempo sono la Germania e il Belgio. Perché la Germania? Dai centri Nato escono armi, giubbotti, cartucce, tutto quello che si vuole… In mille modi… per mille strade, giornalmente… Basta andare fuori dall’Italia, per esempio in Belgio. E’ come andare a comprare le caramelle. In Svizzera, se si ha la residenza o se si conosce un armiere, si ottiene tutto ciò che si vuole. I kalashnikov costano un milione e mezzo, un milione e 800 mila, 2 milioni e 300 mila, con due caricatori a trecento colpi”).
Alla Commissione parlamentare aveva spiegato in maniera chiara che “molti degli uomini d’onore, cioè quelli che riescono a diventare dei capi, appartengono alla massoneria. Questo non deve sfuggire alla Commissione, perché è nella massoneria che si possono avere i contatti totali con gli imprenditori, con le istituzioni, con gli uomini che amministrano il potere diverso da quello punitivo che ha Cosa Nostra”. Disse anche che “Cosa Nostra, che è la stessa in Calabria come in Sicilia” era alla ricerca di un “compromesso” con “l’interesse ad arrivare al potere con i propri uomini, che sono la loro espressione: non saranno più sudditi di nessuno. … Cosa Nostra deve raggiungere l’obiettivo, qualsiasi sia la strada”. In un successivo interrogatorio disse anche che “Cosa Nostra e la massoneria, o almeno una parte della massoneria, sono stati sin dagli anni ‘70 un’unica realtà criminale integrata”.
(foto) Strage di via D’Amelio © Shobha
Le riunioni di Enna: stragi per un progetto politico
Quell’interesse di “arrivare al potere con i propri uomini” si manifestava nell’idea sostenuta da Leoluca Bagarella di creare una Lega meridionale, Sicilia libera, con lo scopo di una secessione da cui generare un narcostato del Sud gestito dai Corleonesi.
E’ sempre lui ad aver raccontato delle riunioni tra i capi dell’organizzazione, tenutesi tra il ’91 ed il ’92, nel corso delle quali discutevano proprio di un “progetto politico finalizzato alla creazione di uno Stato indipendente del Sud, all’interno di una separazione dell’Italia in tre Stati”. In tal modo Cosa Nostra si sarebbe fatta Stato. Il progetto era stato concepito dalla massoneria. Lo stesso Messina aveva parlato anche di una “Lega Sud”, che sarebbe stata la risposta naturale alla Lega Nord. Quest’ultima avrebbe visto proprio Gianfranco Miglio quale suo vero artefice, dietro al quale emergevano anche figure come Gelli e Andreotti. E proprio Miglio avrebbe poi raccontato, nel ’99, di essersi trovato a Villa Madama, a trattare di nascosto con Andreotti. Da evidenziare che molte dichiarazioni rilasciate da esponenti di diverse organizzazioni criminali, oltre Cosa Nostra, quali ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita convergono proprio su questi punti.
Di questo progetto, ovviamente, Messina parlò anche il 5 dicembre 2013, quando fu sentito nel processo trattativa Stato-mafia: “Io ero con Borino Miccichè e altri uomini d’onore e mi è stato detto chiaramente, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, che c’era una commissione nazionale che deliberava tutte le decisioni più importanti. Una commissione in cui sedevano i rappresentanti di altre organizzazioni criminali e il cui capo era Totò Riina”. E poi ancora: “Un giorno c’era Umberto Bossi a Catania. Dissi a Borino Miccichè: ‘questo ce l’ha con i meridionali, vado e l’ammazzo’. Mi disse di fermarmi: ‘questo è solo un pupo. L’uomo forte della Lega è Miglio (Gianfranco, ndr) che è in mano ad Andreotti’. Aggiunse che la Mafia si sarebbe fatta Stato. Questa era la tattica dei Corleonesi: creare una Lega del sud per fare uno Stato del Sud”.
Cosa nostra voleva spaccare in due l’Italia, per potere controllare il meridione insieme alle altre organizzazioni mafiose: “Lo Stato italiano, dicono i mafiosi, è nato non dalle rivolte popolari, ma dalla volontà della mafia, della massoneria e della Chiesa. In quel momento (sul finire del ’91, ndr), l’organizzazione voleva tornare alle origini: indipendenza significa amministrazione del potere”. Per dar vita al progetto separatista, la Mafia siciliana era disposta ad “acquistare dalla ‘Ndrangheta una grossissima partita di armi, investendo circa 2 miliardi di lire”. L’operazione, qualora si fosse fatta, sarebbe stata finanziata in parte con i soldi di Cosa nostra ed in altra con quelli “delle entità pronte a finanziare il progetto”.
Parole che furono di rilievo nella famosa inchiesta “Sistemi criminali”, archiviata nel 2001.
(foto) I magistrati Paolo Borsellino e, di spalle, Giovanni Falcone
L’incontro con Borsellino
Ma cosa c’entrano queste dichiarazioni con Paolo Borsellino?
C’entrano. E proprio l’esame al processo Stato-mafia ha chiarito il perché. Va tenuto conto che nei verbali ufficiali che Borsellino fa con Messina certe dichiarazioni non compaiono. Vi è solo un accenno quando fu sentito il 30 giugno 1992: “Signor giudice quei due delitti, la morte di Salvo Lima e di Giovanni Falcone, sono stati decisi in quella riunione, sono anelli di un’unica strategia. La commissione interprovinciale, quella che noi chiamiamo Regione, non si riunisce per niente, si riunisce soltanto per decidere cose di gravità eccezionale. Solo adesso ho capito, signor giudice: ad Enna, in quel giorno di febbraio, hanno deciso tutto. Solo ora sono in grado di mettere insieme cose diverse, solo ora ho capito. Ascolti, le voglio raccontare tutto”. Il dottor Borsellino lo interruppe, perché prima era necessario approfondire la sua storia all’interno dell’organizzazione e quelle che erano le motivazioni per cui si era deciso a intraprendere il percorso della collaborazione.
Nei verbali successivi parlerà degli interessi della mafia nel mondo degli appalti. Verbali tanto amati da certe difese di uomini delle istituzioni, da certa stampa e da certi familiari vittime di mafia convinte che di trattativa Stato-mafia non vogliono sentir parlare, inquadrando nella questione mafia-appalti l’unica ragione che portò all’eliminazione del giudice.
La verità è un’altra.
Le dichiarazioni di Messina sulle riunioni di Enna verranno messe a verbale nel novembre 1992 perché, come disse lo stesso pentito nel “processo trattativa”, c’era un accordo per cui avrebbe parlato solo nel momento in cui la sua famiglia sarebbe stata messa al sicuro. Cosa che avvenne.
Non solo. Su precise domande dell’allora sostituto procuratore Nino Di Matteo, e del Presidente della Corte d’assise di Palermo Alfredo Montalto, Messina dichiarò che di queste cose ne aveva parlato anche con il giudice Borsellino: “Di interrogatori ne ho avuti diversi. Ma a volte io ero in caserma di Polizia e anche veniva a salutare… Non che mi interrogava… Noi parlavamo per ore e fuori verbale si parlava… si prendeva il caffè… e lui fumava parecchio… Io sia con lui che con Manganelli… loro avevano il mestiere dentro… e fuori verbale fanno una domanda… ed io gli ho spiegato come erano le cose”.
Alle domande sempre più insistenti di Di Matteo aggiunse: “Abbiamo parlato di tutto. Anche che nelle riunioni non veniva fatto il suo nome. Gli interrogatori sono una fase. Poi c’è la trascrizione. Io, dato il personaggio che avevo davanti, gli ho parlato delle cose più forti che potevo parlare… delle riunioni, della strategia, della politica. Quello che avevo da dire ne ho parlato con Borsellino anche fuori interrogatorio”.
Borsellino sapeva di dover morire
In quella lunga testimonianza Messina raccontò anche l’ultimo incontro avuto il 17 luglio 1992. “Il dottore Borsellino era molto nervoso, fumava in continuazione. Accese un’altra sigaretta e prima di andare via mi disse: ‘signor Messina, non ci vediamo più, è arrivata la mia ora. Non c’è più tempo, la saluto’. Sapeva di morire… Io gli dissi che nella riunione (nella quale venne deciso di uccidere Falcone, ndr) non era stato fatto il suo nome. Forse sbagliai a rassicurarlo”.
(foto) A sinistra l’ex numero tre del Sisde, Bruno Contrada
I colloqui informali, quando fece i nomi di D’Antona e Contrada
Quando fu sentito nel processo Borsellino quater, Messina spiegò ulteriormente altri aspetti inerenti al rapporto tra mafia e massoneria (“Era usuale che alcuni membri di Cosa nostra entrassero in contatto con certe entità. Io stesso entrai e informai Piddu Madonia”), e del rapporto che vi era tra le varie organizzazioni mafiose italiane (“Mi riferirono che c’era una commissione nazionale, una struttura che deliberava tutte le decisioni più importanti ed evitava la guerra continua tra le varie mafie. In commissione sedevano i rappresentanti delle organizzazioni criminali. C’era Cosa nostra, la ‘Ndrangheta e i napoletani”). Confermò quanto detto in passato sulla riunione in cui si decise di uccidere Giovanni Falcone e Gaspare Mutolo (“Nessuno si oppose si decide anche di usare la sigla terroristica Falange Armata. Era una nuova strategia politica della Commissione a cui nessuno apparentemente si oppose anche se in realtà c’erano due correnti a quel punto. Un’ala stragista e una più moderata. Queste cose le dissi a Borsellino quando iniziai a collaborare”). E sempre ai pm nisseni raccontò di aver riferito a Borsellino dei contatti tra Cosa nostra ed esponenti dei Servizi segreti (“Noi sapevamo che Contrada era vicino. Ma lo era anche Ignazio D’Antona, dirigente della Squadra Mobile di Palermo. Questi nomi li ho fatti al dottor Borsellino nel nostro colloquio informale. Ma gli parlai anche di vigili urbani, pretori, avvocati, onorevoli. Tutti a braccetto con la mafia”).
Possibile dunque che Paolo Borsellino acquisendo tutte queste informazioni, le abbia scritte nell’agenda rossa? Può essere anche questo un valido motivo per cui doveva essere eliminato e l’agenda dovesse sparire?
Come ricordato più volte dall’ex Procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, “se quella agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, Borsellino avrebbe provocato gravi danni anche da morto e lo scopo dell’accelerazione della sua uccisione sarebbe stato vanificato. Era assolutamente consequenziale dunque che dopo l’esplosione di via D’Amelio soggetti che certamente non appartenevano alla mafia ma ad apparati istituzionali, intervenissero sul luogo con un un’unica mission: fare sparire l’agenda rossa”.
Una mission che è iniziata immediatamente dopo l’esplosione dell’autobomba. Ed è lì, come ha invece ricordato in altre occasioni il magistrato Nino Di Matteo, che “ha avuto inizio il depistaggio sulla strage di via d’Amelio” andando ben oltre alla questione del falso pentito Vincenzo Scarantino.
Oggi la ricerca della verità prosegue anche su questo punto. E Leonardo Messina, con le sue parole, offre una chiave di lettura che non può essere ignorata.