by Federico Dezzani
Donald Trump ha prestato giuramento come 45esimo presidente degli Stati Uniti, tra festeggiamenti e proteste. L’establishment atlantico, quello dell’élite aglofona che vive tra la West Coast e Londra e dirige la politica estera americana dai tempi di Woodrow Wilson, non riesce a capacitarsi della sconfitta, furibondo all’idea che il neo-presidente smantelli quel che rimane dell’ordine mondiale “liberale” post-1945. È certo che gli “atlantici” non si rassegneranno all’amministrazione Trump e tenteranno in ogni modo di liquidarla prima della naturale scadenza del 2020. Gli USA hanno una lunga storia di faide per il potere, ma il paragone più calzante è certamente quello di Richard Nixon, estromesso dalla Casa Bianca per il suo approccio realpolitiker in politica estera e protezionista in campo economico. Il 93enne Henry Kissinger tifa, ovviamente, per Trump.
Un “pericoloso” protezionista e realpolitiker: Donald Trump? No, Richard Nixon
Sulla natura della democrazia abbiamo recentemente discusso, trattando il tema dei “populismi”: esiste una nutrita schiera di economisti e sociologi convinti che l’istituto democratico sia in realtà una chimera e, sottoposto ad un’analisi più approfondita, non sia niente altro che una forma occulta di oligarchia. Famosa è la massima: “chi dice democrazia dice organizzazione, chi dice organizzazione dice oligarchia, chi dice democrazia dice oligarchia.”
Anche gli Stati Uniti d’America, spesso ancora definiti come “più grande democrazia del mondo” a discapito dell’India, sembrerebbero non sfuggire a questa legge della società: dietro i due storici partiti americani, il repubblicano e il democratico, si nasconderebbe in realtà un unico establishment che, elezione dopo elezione, anno dopo anno, rimarrebbe saldamente al potere nonostante l’alternanza di facciata.
L’oligarchia in questione è spesso definita “atlantica” nei nostri articoli, dal momento che poggia sull’asse Londra-New York e raccoglie i papaveri della City inglese e di Wall Street: è l’élite anglofona, liberal, mondialista, che dirige le principali banche d’affari e sin dal XVIII secolo controlla i destini del Regno Unito. Custode del liberismo economico e della globalizzazione, geneticamente allergica alle potenze continentali (Germania, Russia e Cina) che rischiano di insediare la sua egemonia sui mari, quest’oligarchia è animata dal sogno di un governo mondiale (o “universale”, per usare il termine massonico più appropriato) in cui dovrebbero diluirsi anche gli Stati Uniti d’America.
È l’oligarchia atlantica che, oltre alle principali piazza finanziarie mondiali, controlla anche le corazzate dell’informazione: si comincia col The Times fondato a Londra nel 1785 e si termina con la CNN nata ad Atlanta nel 1980. Pur disponendo di uno strumento di influenza già capillare ed influente come la massoneria, a partire dal secondo decennio del Novecento quest’élite fonda una serie di organizzazioni ad hoc, studiate per consentire ai suoi elementi di spicco di rimanere in contatto e di discutere delle principali problematiche: nasce così nel 1920 la Chatham House per l’Inghilterra, nel 1921 il Council on Foreign Relations per gli Stati Uniti, nel 1954 il gruppo Bilderberg per l’Europa e gli USA, nel 1973 la Commissione Trilaterale per gli USA-CEE-Giappone, nel 2007 l’European Council on Foreign Relations per l’Unione Europea.
Dietro la democrazia americana si nasconde quindi una tentacolare e plurisecolare oligarchia, sempre pronta a difendere con grande spregiudicatezza i suoi interessi: sebbene si sorvoli sull’argomento, la storia degli USA è infatti anche un racconto a tinte fosche, dove non mancano gli omicidi politici e le violente faide mediatico-giudiziarie. Si contano innumerevoli aspiranti alla Casa Bianca uccisi ancor prima della campagna elettorale (come il populista, rivale di Franklin D. Roosevelt e fervente critico della FED, Huey Long, assassinato nel 1935), e ben quattro presidenti eliminati durante il loro mandato (Abraham Lincoln, James Garfield, William McKinley, John Kennedy).
Chiunque ambisca ad entrare o sia entrato alla Casa Bianca, deve quindi ricordarsi che anche il “più potente uomo del mondo” risponde ad un potere superiore (e non è Dio): chi osa disobbedirgli, corre il serio rischio di cadere vittima di qualche congiura. Non c’è dubbio che il “populista” Donal Trump rientri nella casistica dei “disubbidienti” e sia esposto a qualche pericolo: a pochi è sfuggita la minaccia neppure troppo velata della CNN che, alla vigilia del giuramento del prossimo presidente, si è chiesta nel servizio “Disaster could put Obama cabinet member in Oval Office” cosa sarebbe accaduto se Trump ed il suo vice fossero stati assassinati il giorno dell’inaugurazione.
Come abbiamo evidenziato nell’ultima analisi, il prossimo presidente non è un candidato completamente estraneo al sistema: nella sua scalata alla Casa Bianca, Donald Trump si è avvalso di una serie di alleanze che gli saranno certamente utili anche per rimanerci. Pensiamo innanzitutto al premier israeliano Benjamin Netanyahu ed alla destra israeliana, che avevano mal digerito le aperture all’Iran da parte dell’establishment liberal, le sue accuse di discriminazione ai danni dei palestinesi e la sua stigmatizzazione dei nuovi insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est. Ne è emersa quindi un’alleanza tra “nazionalisti” americani e “nazionalisti” ebraici ai danni dell’establishment atlantico, alleanza peraltro anche “benedetta” dalla Russia di Vladimir Putin, nell’ottica di una spartizione del Medio Oriente e dell’Europa in rispettive sfere d’influenza. Petrolieri e superstiti della Old Economy (costruzioni, siderurgia ed industria leggera) hanno anche salutato con gioia la vittoria del candidato “populista”, allettati dalla prospettiva di norme meno vincolanti e dazi a loro difesa.
Resta però il fatto che la parte preponderante del sistema statunitense, la sullodata oligarchia atlantica, è rimasta frustrata dalla vittoria di Trump: spaventa la sua volontà di liquidare i due bastioni del vecchio ordine liberale, la NATO e la UE, spaventa il desiderio ad una spartizione del mondo con le altre superpotenze, spaventa il rifiuto della missione messianica/universalista degli Stati Uniti a vantaggio di una più concreta realpolitik, spaventa l’intenzione di smontare la già traballante globalizzazione a colpi di dazi e barriere, spaventa l’accento sul binomio industria-inflazione , opposto di quello finanza-deflazione tanto caro all’élite della City e di Wall Street.
La rabbia per l’elezione di Trump è palpabile nella recenti parole di George Soros, un esponente dell’élite finanziaria liberal che, negli ultimi anni, abbiamo incontrato pressoché in ogni dossier: nel caso Regeni, nella destabilizzazione dell’Egitto, nel golpe ucraino, nell’emergenza migratoria, nell’assalto speculativo a Deutsche Bank, etc. etc. Ospite del forum World Economic Forum di Davos, Soros ha sferrato un attacco frontale a distanza di ventiquattr’ore dall’insediamento del presidente:
“Donald Trump è un impostore, un imbroglione e un potenziale dittatore. Non è a favore di una società aperta ma di una dittatura, di uno stato-mafia. Il Congresso deve costituire un bastione per proteggere i diritti americani e c’è una coalizione bipartisan su questo. Sono personalmente convinto Trump che fallirà, e non perché c’è gente come me che lo spera, ma perché le sue idee sono talmente contraddittorie che già si impersonano nei suoi consiglieri”.
Suona quasi come una dichiarazione di guerra, lanciata da un esponente di quell’oligarchia che sente gravemente minacciati i propri interessi.
Donald Trump deve quindi temere un colpo a brucia pelo come quello che assassinò Abraham Lincoln o un agguato paramilitare come quello di Dallas? A nostro avviso, il neo-presidente dovrebbe studiare la parabola di un altro repubblicano, anche lui inviso all’establishment, accusato non a caso di essere un dittatore e un fascista, realpolitiker in politica estera e fautore di un’agenda economica che presenta forti analogie con il programma di Trump. Ci riferiamo al presidente Richard Nixon (1913-1994), estromesso dalla Casa Bianca nel 1974 con il celebre scandalo mediatico-giudiziario che è stato spesso riesumato in questi ultimi mesi, tessendo parallelismi con le presunte ingerenze russe nella campagna elettorale: il Watergate. “Un Watergate firmato Russia: hacker rubano dati Trump al Partito Democratico” titolava la Repubblica nel giugno del 2016 1.
Originario della California ed estraneo ai circoli dell’élite della West Coast (Henry Kissinger ricorderà nelle sue memorie l’avversione del presidente per questi ambienti, che talvolta esplodeva in vero odio), Richard Nixon conquista la candidatura repubblicana alla Casa Bianca, battendo la concorrenza che fa capo a Nelson Rockfeller. Presentandosi come il candidato della legge e dell’ordine (idem per Trump) ed appellandosi alla “maggioranza silenziosa” (la stessa che è sfuggita lo scorso autunno ai sondaggisti ed ha portato Trump alla Casa Bianca), Nixon vince le elezioni del novembre 1968, ereditando un Paese in affanno (benché in condizioni nettamente migliori a quelle odierne). L’economia è debole (entrerà in recessione di lì a poco), ma soprattutto pesano sugli Stati Uniti due fardelli:
- la crescente competitività dell’Europa (Germania e Italia in testa) e del Giappone, che erode l’apparato produttivo americano;
- l’insostenibile quantità di risorse assorbite dall’apparato militare e, in particolare, dalla guerra del Vietnam.
Saltano subito all’occhio i parallelismi con gli USA del 2016: da un lato, il residuo apparato industriale è stato quasi completamente svuotato a partire dai primi ’90 dalla concorrenza asiatica, dall’altro il dispiegamento delle forze armate statunitensi nei Paesi dell’Ex-Unione Sovietica ed Estremo Oriente comporta un salasso di risorse che gli Stati Uniti non si possono più permettere, alla luce delle ristrettezze economiche.
Di fronte a questa situazione, Richard Nixon opta quindi per una ricetta che Donald Trump, cosciente o meno, sembra ricalcare a distanza di 50 anni con il suo “America first”: più protezionismo, svalutazione del dollaro, inflazione, difesa dell’industria nazionale, disimpegno militare all’estero ed una spartizione del globo in zone di influenza con le altre due superpotenze, Russia e Cina. Avvalendosi della consulenza di Henry Kissinger come Segretario di Stato, Nixon si muove infatti come segue:
- seppellisce nel 1970 gli accordi di Bretton Woods, sganciando il dollaro dall’oro e lasciando che si svaluti rispetto alle altre valute, così da rinvigorire le esportazioni americane (“il dollaro troppo forte ci sta uccidendo” ha detto pochi giorni fa Trump);
- adotta un serie di misure protezionistiche a difesa dell’industria nazionale (“Trump chooses protectionist-leaning trade representative” scriveva il Financial Times a inizio anno, commentando la scelta del nuovo rappresentate del Commercio americano);
- adotta un approccio realpolitiker e “isolazionista” in politica estera, riducendo gli interventi all’estero solo a quelle situazioni in cui gli interessi nazionali americani siano in effettivo pericolo. Compie così lo storico viaggio a Pechino del 1972, seguito a ruota dalla prima visita ufficiale di un presidente americano a Mosca (“Trump and Vladimir Putin to hold summit within weeks” scriveva pochi giorni The Guardian);
- grazie all’intermediazione cinese, ottiene con gli Accordi di Parigi un ritiro dignitoso dal Vietnam in cui gli Stati Uniti avevano dilapidato una quantità crescente di uomini e risorse (“Trump says NATO is obsolete” titolava il 16 gennaio la Reuters 2);
- rilancia il ciclo economico con larghi deficit ed investimenti pubblici, a costo di una maggiore inflazione (“Trump punta su un grande piano di spesa in infrastrutture”) 3.
Che quadro esce quindi dalla politica di Richard Nixon? Stati Uniti più protezionisti e isolazionisti, interessati a difendere l’industria nazionale. Un riconoscimento dei legittimi interessi di ‘URSS e Cina. Un’economia meno “globale” e più “regionalizzata”. Il primato della Nazione americana sull’élite atlantica. La Nixonomics non sembra forse l’antesignana della Trumponomics?
La paura che il processo di globalizzazione entri in stallo è tale che nel 1973 l’oligarchia atlantica si affretta a fondare la sullodata Commissione Trilaterale per ravvivare i rapporti sempre più sfilacciati tra USA, CEE e Giappone. Resta però il problema di come liberarsi di Richard Nixon.
Una serie quasi interrotta di proteste, sullo sfondo della guerra del Vietnam, accompagna il primo mandato di Nixon: poco importa se il presidente è l’artefice degli Accordi di Parigi che consentiranno il ritiro delle truppe. Poi, in concomitanza all’avvio del suo secondo mandato, c’è l’affondo: il Paese è attraversato da massicce manifestazioni contro la sua riconferma alla Casa Bianca. 100.000 persone a Washington e migliaia a Los Angeles e Chicago. “Nixon killer”, “Nixon fascist”, “Nixon liar”: l’obbiettivo è delegittimare il presidente uscito vincente dalle elezione con le marce i moti di piazza, proprio come George Soros ed i suoi manifestanti a pagamento 4 stanno facendo dallo scorso 8 novembre.
L’assalto decisivo a Nixon coincide però col famoso scandalo Watargate: l’accusa cioè di aver messo sotto sorveglianza il quartier generale del Comitato Nazionale Democratico (lo stesso che sarebbe stato “hackerato” dai russi nel 2016 a benefico di Donald Trump). L’inchiesta monta mese dopo mese, con un continuo stillicidio di notizie e rivelazioni, rivelando la presenza di un’attenta e professionale regia che segue l’operazione: accerchiato dalla stampa ed isolato dal suo stesso partito, Richard Nixon, per evitare la procedura di impeachment, rassegna spontaneamente le dimissioni il 9 agosto 1974.
Si rammarica Leonid Breznev, sicuro di aver perso un buon “amico” alla Casa Bianca, mentre gioisce l’oligarchia atlantica che, dopo la “reggenza” di Gerald Ford, si reinstallerà saldamente alla Casa Bianca nel 1977 con Jimmy Carter.
Le accuse di interferenze russe nella campagna elettorale saranno “lo scandalo Watergate” di Donald Trump? Dalla sua parte gioca l’obbiettiva debolezza dell’oligarchia atlantica: fiaccata dalla defezione della destra israeliana schierata col presidente, stordita dalla Brexit, intimorita dalla marea montante dei populismi a scala internazionale, l’élite liberal è oggi più che mai sulla difensiva. Ripetere l’operazione del 1974 potrebbe esserle addirittura letale, se intavolasse un braccio di ferro col neo-presidente nelle piazze e nelle aule di giustizia.
Chi confida nel successo di Donald Trump è, ovviamente, l’allora Segretario di Stato di Richard Nixon. All’età di 93 anni, Henry Kissinger, il campione di realpolitik che ha tenuto aperti i canali con Vladimir Putin anche nei momenti più bui dell’amministrazione Obama, ha ammesso 5:
“Donald Trump is a phenomenon that foreign countries haven’t seen. So, it is a shocking experience to them that he came into office. At the same time, extraordinary opportunity. I believe he has the possibility of going down in history as a very considerable president.”
E se lo dice Kissinger…