Un documento “riservato” fa pensare che ci sia una strategia comunicativa che porterebbe a far accettare all’opinione pubblica un intervento militare.
di Luigi Grimaldi
In un documento segreto, l’UE parla esplicitamente di attacco a terra, in territorio libico, non solo per distruggere le attività dei trafficanti di esseri umani, ma anche per attaccare eventuali cellule dell’Isis. Insomma, partendo dal problema dei barconi, ci prepariamo in realtà alla guerra. E il documento raccomanda di preparare «una strategia d’informazione da parte dell’UE sin dall’inizio». Ossia, rendere accettabile l’idea del conflitto all’opinione pubblica. Il comando strategico? Viene affidato all’Italia.
Lo scorso 25 maggio Wikileaks ha rivelato e divulgato il documento classificato come “riservato” (“resticted”) approvato lo scorso 12 maggio dal “Servizio europeo per l’azione esterna” (European External Action Service, Eeas in sigla) dell’Unione Europea, e diretto al Comitato Politico e di Sicurezza (Psc) della Commissione Europea. Si tratta del piano, intitolato “Progetto di gestione della crisi per una possibile operazione Psdc per smantellare le reti di tratta di esseri umani nel Sud del Mediterraneo centrale” (in sigla 696 REV 2) in cui viene delineata la parte più strettamente militare dell’intervento europeo contro le imbarcazioni di migranti e profughi che viaggiano dalla Libia verso l’Italia.
Il documento prevede che vi siano “un comando operativo e un comando della forza di intervento e accoglie con favore l’offerta italiana per il comando operativo e il comando della forza dell’UE. Il piano è stato formalmente approvato dai rappresentanti di tutti i 28 paesi della Comunità lo scorso 18 Maggio 2015. È importante sottolineare che il documento riconosce che «la fine dell’intervento militare non è chiaramente definito» e raccomanda che la Commissione europea rilasci ulteriori e più precise indicazioni. Il progetto stabilisce le condizioni necessarie alla costituzione di un Quartier Generale Operativo (Ohq) e elenca le condizioni necessarie per condurre operazioni militari contro le infrastrutture e le reti di trasporto dei migranti attraverso il Mediterraneo. Le operazioni in territorio libico prevedono la distruzione di imbarcazioni per il trasporto di migranti e rifugiati.
La parte più strettamente militare del piano prevede la necessità di: «condividere tra gli Stati membri attività di intelligence e informazioni funzionali su tutta l’area di sorveglianza: attività sostenute da Bruxelles tramite il Seae (Servizio europeo per l’azione esterna) e dal Siac”, un’organismo di intelligence. Il piano riconosce anche la possibilità di uso militare della forza da parte EU contro gruppi quali l’Isis «all’interno del territorio sotto sovranità libica»: «La minaccia della forza», prevede ancora 696 REV 2, «dovrebbe essere esercitata in particolare durante attività quali l’imbarco e quando si opera a terra o in prossimità di una costa protetta, o durante l’interazione con imbarcazioni non in navigazione. La potenziale presenza di forze ostili, estremisti o terroristi, come Da’esh (Isis) dovrà comunque essere presa in considerazione». Numerosi paesi dell’Unione europea, tra cui Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Grecia, Italia, Paesi Bassi, Romania, Spagna, Svezia e Regno Unito hanno partecipato a attacchi aerei Nato sulla Libia nel 2011, ma è la prima volta che l’Unione Europea progetta di intervenire in proprio in attività che prevedono scontri militari. Insomma partendo dal problema dei barconi ci prepariamo alla guerra. Il documento, peraltro, riconosce che l’Unione europea rischia una pubblicità negativa nel caso in cui «dovessero esservi perdite di vite umane attribuite, correttamente o meno, per azione o inazione, alla forza militare dell’UE».
Per gestire questo rischio di immagine, il documento consiglia «una strategia d’informazione da parte dell’UE sin dall’inizio» al fine di «facilitare la gestione delle aspettative». È anche riconosciuta la «necessità di calibrare l’attività militare», in particolare nelle acque libiche e a terra, «al fine di evitare di destabilizzare il processo politico, provocando danni collaterali, interrompendo attività economiche legittime o la creazione di una percezione di sostegno a una parte (in conflitto, ndr)».
20/06/2015