di Stefania Limiti
Beccaria e Turone raccontano la storia del corleonese protetto dagli Affari riservati
Quando entrò nella macchina delle Fiamme Gialle che lo stavano arrestando, fu lui stesso a dire il suo vero nome: “Mi chiamo Luciano Liggio”, perché gli agenti pensavano si trattasse di un altro. Era il 16 maggio del 1974 e finì così la lunga latitanza del corleonese che liquidò la mafia feudale e latifondista di don Michele Navarra e aprì le porte di Cosa Nostra al commercio, all’edilizia e agli appalti. Nel libro Il Boss. Luciano Liggio: da Corleone a Milano, una storia di mafia e complicità, da poco in libreria grazie a Castelvecchi, la brava giornalista Antonella Beccaria e Giuliano Turone, uno di quei magistrati ai quali l’Italia democratica deve molto, ricostruiscono a quattro mani la storia dell’imprendibile latitante che proprio Turone arrestò scoperchiando il lucroso affare dei sequestri di persona in Lombardia nella prima parte degli anni 70. Perché prima della ’ndrangheta calabrese e del banditismo sardo, i rapimenti come finanziamento delle attività illegali furono praticati da Cosa nostra al tempo in cui gli uomini di Liggio (nome che si è imposto sul Leggio, correttamente registrato all’anagrafe) frequentavano l’esclusiva enoteca di via Giambellino insieme ai fascisti e a quelli del Mar di Carlo Fumagalli – Pio La Torre, da vera avanguardia, lo disse chiaramente in una intervista a L’Unità del 21 luglio 1974: “Una parte dei proventi dei sequestri è stata utilizzata per finanziare il terrorismo nero”.
Entrando nelle storie dei sequestri, che Turone ricorda nei minimi particolari ricostruendo anche le vie che prendevano i soldi (in Svizzera e a Palermo), il lettore si troverà a fare i conti con una sensazione di sgomento: com’è possibile, si chiederà, che ancora oggi c’è chi osa negare la potenza del radicamento del crimine organizzato al di fuori degli insediamenti storici del meridione? Perché il quadro che abbiamo di fronte è proprio il dato storico della presenza mafiosa tra Lombardia e Piemonte già dai primi anni ’70 quando Cosa nostra installa attività economiche legali, compravendita di immobili, edilizia o ristorazione, e illegali, appunto i sequestri di persona, e poi ancora il riciclaggio su ampia scala. Lo sgomento del lettore non sarà forse lenito dall’apprendere che Liggio non era solo un boss potente ma anche un uomo protetto da una parte dello Stato.
Non si tratta della questione sollevata da Tommaso Buscetta a Falcone: “è un uomo malato di sbirritudine”. Se andiamo a guardare bene, gli uomini di Cosa Nostra si intrattenevano spesso con gli sbirri. No, il punto è che Liggio-latitante dal 1948 al 1964 e dal ’69 al ’74, dopo essere stato assolto al processo di Bari nel giugno del ’69 dovrebbe andarsene al soggiorno obbligato fuori da Corleone ma preferisce riprendere la sua latitanza. Infatti, il foglio di via non va nelle questure d’Italia: resta in un cassetto degli Uffici degli Affari Riservati, struttura della direzione generale della Pubblica sicurezza che si era ritagliata compiti di intelligence. Da quel momento si dilegua definitivamente, garantito da un pezzo dell’anti-Stato. Quando il colonnello Vessicchio bussa alla sua porta per mettergli le manette, Liggio prima di dire il suo vero nome, gli chiede, davvero incredulo: “È sicuro che non ci sia un errore?”.
A proposito: sapete perché Liggio fu arrestato dalla Guardia di Finanza, che per la prima volta partecipava ad una operazione non finanziaria? Turone scelse di collaborare con le Fiamme Gialle dopo aver scoperto che un carabiniere del Gruppo della Pastrengo di Milano guidata da Pietro Rossi, nome centrale nella strategia della tensione, era implicato nei sequestri in Lombardia. Inevitabile, a quel punto, “licenziare” gli investigatori dei carabinieri, perché è dannatamente vero quello che disse una volta Giulio Andreotti: “Ahi l’Arma! Fedele nei secoli ma nel breve periodo… meno”.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano del 25 Febbraio