Il sistema economico-sociale dominante nell’occidente del pianeta, si avvale ultimamente di forme governative “democratiche”, le cui forme in continua evoluzione, sono da adattare alle esigenze dei mutamenti produttivi. Sotto le apparenze di questa formula istituzionale, politica e ideologica si nasconde il comando sul lavoro altrui.
di Carla Filosa
Quando i diritti dell’uomo non c’erano ancora, li aveva il privilegiato.
Questo era inumano.
Poi fu stabilita l’eguaglianza,
in quanto si tolsero al privilegiato i diritti dell’uomo.
Karl Kraus
Siamo all’interno di un processo storico e pertanto di trasformazioni continue della fase imperialistica attuale. E’ per questo che prima di ogni azione politica, individuale o collettiva – che ricada con piena efficacia nell’oggettività del movimento reale –, sarebbe necessario analizzare proprio questa fase ultima per individuarne le contraddizioni, i punti deboli o l’inanità possibile degli obiettivi dominanti. Infatti, nonostante le reiterate affermazioni governative di fuoriuscita dalla recessione, molti dati – relativi al continuo innalzamento dei numeri sulla disoccupazione, al mancato rinnovo dei contratti pubblici, alla lenta stabilizzazione di alcuni (non tutti) precari, alla difficile attrazione di capitali per investimenti produttivi, ecc. – stanno a conferma del contrario, e quindi rientrano nella menzogna normalizzata di un sistema incapace, ossia impossibilitato a mostrare il suo necessario percorso di predatore pubblico/privato della ricchezza sociale.
Siccome nessun politico o sindacalista sembra più in grado di ricordare e le cause di tali menzogne da propaganda – con buona pace degli illusi o ingenui/ignari dei 5 stelle – e le motivazioni reali delle difficoltà di fuoriuscita dalla crisi di sistema, proviamo qui a riproporre all’attenzione alcuni limiti sostanziali che determinano le fandonie della governabilità “democratica”, per ora, illimitata.
L’aumento più rapido della massa assoluta dei profitti, appropriati dalla totalità dei capitali ormai transnazionali, determina, nella ripartizione complessiva, la diminuzione assoluta del profitto di alcuni singoli capitali, che pertanto sono costretti a licenziare, a farsi assorbire da capitali più grandi, a ristrutturare, ecc. Questo “negare” i più deboli capitali determinati, indissolubilmente connessi al loro “altro”, cioè al capitale sociale mondiale, costituisce il limite fondamentale di questo sistema, quale ostacolo da superare nei tempi di crisi in maniera evidente. La forza produttiva del lavoro sociale aumenta, a favore della struttura interna che incrementa i capitali, anche in termini di potere sulla società , determinando quindi la riduzione necessaria di popolazione lavorativa, che si viene a trovare progressivamente sempre più in eccesso. Dato che lo sviluppo delle forze produttive richiede un impiego di quantità di lavoro sempre minore, anche i prodotti realizzati conterranno una minor quantità di lavoro effettuato, e pertanto i loro prezzi caleranno. Ciò significa però che aumenterà la quota di lavoro salariato non pagata rispetto a quella pagata, mediante il prolungamento della giornata lavorativa, per consentire l’esazione di profitti comunque alti, secondo l’imposizione della concorrenza ormai planetaria..
Il limite all’impiego di un egual numero di forze lavorative – con l’investimento della stessa quantità di capitale – è dato proprio dall’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, reso necessario dallo sviluppo stesso ed estensione del sistema. Questo limite non è dovuto però alla produzione di ricchezza per la soddisfazione di bisogni sociali, ma alla base ristretta, storica e pertanto transitoria, della sola produzione di nuovo capitale appropriabile dal valore prodotto e non pagato di lavoro altrui. Il limite sostanziale è pertanto lo stesso modo in cui i capitali dominanti gestiscono la produzione sociale, per il proprio intrinseco scopo: l’autovalorizzazione, il che necessariamente implica esproprio e impoverimento della massa crescente di una popolazione, sempre più espulsa (e quindi sempre più riducibile) dall’occupazione lavorativa.
Questo sistema economico-sociale, ormai dominante nell’occidente del pianeta, si avvale ultimamente di forme governative “democratiche”, le cui forme in continua evoluzione, sono da adattare alle esigenze dei mutamenti produttivi. Sotto le apparenze di questa formula istituzionale, politica e ideologica si nasconde il comando sul lavoro altrui, contenuto nelle leggi come nelle Costituzioni dei vari Stati. Il focus su questo specifico punto, qui forzatamente solo accennato, rinvia alla individuazione del conflitto sociale dovuto proprio a quanto detto sopra, all’antagonismo strutturale degli interessi sociali, da rintracciare anche nelle forme giuridiche e istituzionali. Per quanto concerne il paese in cui viviamo, le riforme istituzionali, e non, sono continui colpi di maglio all’esistenza stessa della conflittualità sociale, eradicando le basi stesse della sua espressione collettiva. La soppressione di questa, anche nella Carta costituzionale, costituisce il prossimo appuntamento governativo all’indomani delle elezioni regionali.
Sembra importante a questo proposito riportare un estratto dal “Manuale di autodifesa militante della Costituzione” – scritto da Salvatore d’Albergo (con contributo di A. Catone), in cui si evidenziano i limiti della “Democrazia Costituzionale” -, dato che i piani giuridici e istituzionali costituiscono il nesso imprescindibile alle necessità di riproduzione e sviluppo delle basi economico-sociali.
“La c.d. “democrazia costituzionale” oggi esprime la posizione culturale dei giuristi “democratici” che, tornando indietro di quasi un secolo, sganciano i diritti civili dai rapporti sociali, cioè “reali”, privandoli così della forza che la Costituzione, con una permanente dialettica “politica, economica e sociale”, conferisce anche ai diritti individuali, classificandoli così, anch’essi, come “fondamentali”. Ciò anche perché si avalla l’autoritarismo proprio della forma di governo verticistica e pseudodemocratica propria dei modelli politico-istituzionali bipolari, che si differenziano dal totalitarismo solo perché oltre al “partito unico” di governo, ammette un altro, solo e unico, polo o partito – di opposizione “costruttiva”, cioè subalterna -, ma del tutto emarginato per l’intera legislatura dal potere di indirizzo politico e parlamentare e, quindi, del tutto ininfluente. Rappresenta un pernicioso arretramento dell’ideologia giuridica italiana.”
In sintesi, per doveroso limite di spazio, la democrazia economico-sociale viene ridotta ai soli aspetti “istituzionali” sottolineando le “garanzie” di rigidità costituzionale e svalorizzando invece eventuali interventi pubblici nell’economia a favore dei gruppi sociali più deboli. Approfondire pertanto il passaggio da una forma di Stato storica ad un’altra, il cui nucleo dei principi di fondo è la centralità dei conflitti di classe nei vari ordinamenti politico-istituzionali, significa non immiserirsi nelle sequenze delle forme di governo, su cui presiede una “cupola sovranazionale”.
Come non esiste un “popolo sovrano europeo” e il Parlamento europeo rappresenta un coacervo di rappresentanze nazionali costrette a codecisioni di scarso potere, così i parlamenti nazionali sono ormai “succubi dei rispettivi esecutivi”.
La “Democrazia costituzionale” rappresenta quindi la svalorizzazione realizzata di una democrazia sostanziale (economico-sociale), in cui l’indipendenza tra le funzioni di governo e quelle di “garanzie” di libertà sociale, inattuate, determina altresì una riduzione della stessa democrazia politica. La prospettiva di un “capo”, dalle origini storiche non troppo remote, aleggia non solo sul piano politico ma si estende oggi anche a quelli sociali, come richiedono la centralizzazione e la conseguente strutturale corruzione della fase.
Giugno 7, 2015