Tutta colpa del capitalismo afferma il massimo studioso di marxismo negli Stati Uniti, Richard D. Wolff, professore emerito di Economia alla University of Massachusetts, che ne parla con Limes. «Capitalismo, sistema economico storicamente e intrinsecamente espansionistico. Molto più dello schiavismo, del colonialismo o di altri sistemi economici precedenti l’industrializzazione e l’avvento del capitalistico». Sintesi breve, grazie a Fabrizio Maronta, l’intervistatore: «I meccanismi di accumulazione e competizione del capitalismo implicano una spinta espansionistica».
Una nostra sintesi difficile e speriamo non troppo traditrice.
Globalizzazione figlia del capitalismo
Dalla nascita della prima forma di capitalismo, nell’Inghilterra del XVII secolo, quella dell’economia capitalistica è storia di crescita ed espansione costanti. Prima nel resto delle Isole Britanniche, poi nell’Europa continentale, poi in quelli che diverranno gli Stati Uniti d’America, infine -specie per mezzo di questi ultimi nel XX secolo- nel mondo intero. Nel Manifesto del Partito comunista, Marx ed Engels dicono chiaramente che gli imperativi della produzione capitalistica «spingono la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa si deve ficcare, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni».
La globalizzazione non è un semplice sottoprodotto del capitalismo, è il capitalismo in azione. A trarre in inganno è il fatto che, storicamente, a questa tendenza espansionistica siano stati dati nomi diversi, come colonialismo e imperialismo.
Il capitalismo coloniale
Nella prima globalizzazione i capitalisti europei e statunitensi erano in condizione di estrarre risorse nel Terzo Mondo da una posizione di superiorità economica, finanziaria, politica e militare incontrastata. Raramente dovevano scendere a patti, limitandosi a mascherare la spoliazione con una diplomazia di facciata, e spesso nemmeno quello. Ora invece il capitalismo occidentale, specie quello statunitense, deve fare concessioni vere, sempre maggiori. Una situazione imprevista e sconcertante. Perché le controparti sono sempre meno economie sottosviluppate, ma a loro volta capitalistiche, con mezzi e metodi sempre più simili al prototipo occidentale.
Asia e Cina
Quarant’anni fa Washington ha stretto un patto con il Partito comunista cinese: il capitalismo americano ha ottenuto accesso a un enorme bacino di manodopera economica e al più promettente mercato della Terra, ma in cambio ha dovuto condividere la gestione delle imprese attraverso innumerevoli joint ventures oggi accusate d’essere il mezzo di un colossale, metodico spionaggio industriale. Con il suo crescente peso di produttore e consumatore, la Cina sta modificando i termini del rapporto tra Occidente e resto del mondo. Lo fa da decenni, ma negli ultimi anni è diventato particolarmente evidente.
Non solo all’America, ma anche ad altre economie emergenti come India, Brasile, Turchia o i paesi del Sud-Est asiatico, che come Pechino accettano sempre meno il rapporto ineguale con gli Stati Uniti e le altre principali potenze capitalistiche.
Primato capitalistico e geopolitico finito
La globalizzazione è stata un gigantesco affare per il capitalismo americano e per gran parte delle economie europee. Ma ha un risvolto: la modernizzazione della Cina e la sua trasformazione in potenza economica, finanziaria, politica, militare e sempre più culturale. Oltre gli aspetti specifici, puntuali della battaglia senza quartiere ingaggiata da Washington con la Cina sotto il profilo tecnologico e commerciale, si staglia una realtà ineludibile:
l’impero americano, inteso come primato capitalistico e geopolitico, è finito. Ma l’America non vuole accettarlo
Il capitalismo versione cinese
A differenza dell’Urss, la Cina non ha interesse a superare il capitalismo, ma a padroneggiarlo per farne strumento di potenza al servizio dell’interesse nazionale. Senza però alterare la propria natura politica e dunque il ruolo del Partito comunista, circostanza che gli Stati Uniti hanno compreso appieno solo negli ultimi anni.
Colti alla sprovvista da questa tardiva epifania, ora reagiscono in modo muscolare e autolesionistico.
Lotta di potere ammantata di ideologie
Ora, a differenza della guerra fredda, a contrapporsi non sono più capitalismo ed economie «socialiste», cioè capitalismo privato e capitalismo di Stato. Il confronto è fra economie di mercato espressione di sistemi politici e culturali diversi, rivali, ma integrati in una rete di interdipendenze che rende la competizione per certi versi ancor più difficile
Conflitto di classe bandito, quello sociale esplode
L’ideologia neoliberista, che al primo vero ostacolo – la sfida cinese – è stata rimpiazzata da un nazionalismo isterico intriso di protezionismo. Siamo passati dalle delocalizzazioni forsennate che hanno ucciso la classe media al «riportiamo il lavoro in America!» a suon di sussidi, pagati ovviamente dal contribuente. Cioè dai lavoratori, che così scontano due volte il prezzo della globalizzazione.
Liberismo e protezionismo
La storia del capitalismo è un alternarsi di fasi liberiste e protezionistiche, normalmente associate alle esigenze della grande impresa. Nella fase competitiva prevale il libero commercio, in quella oligopolistica – frutto del consolidarsi di pochi «grandi campioni» a scapito di tutti gli altri – subentra il protezionismo, «complice l’influenza spropositata che il capitale è in grado di esercitare sul processo democratico».
Negli Stati Uniti, conflitto di classe latente
La disfunzionalità del capitalismo americano e le enormi sperequazioni che produce, con un establishment in confusione totale, che risponde con politiche reazionarie. Sussidi alle grandi corporations perché portino sul suolo americano la competizione al ribasso con le economie asiatiche: troppo tardi, perché c’è sempre qualcuno che produrrà in modo più economico, dall’India al Messico.
L’inflazione da ‘decoupling’, distanze dalla Cina
Altra mazzata alla classe media, destabilizzazione delle banche da salvare con i soldi… dei lavoratori, ovviamente. Il problema è che dopo oltre mezzo secolo di demonizzazione della sinistra e delle sue istanze sociali, la classe lavoratrice è troppo disarticolata e incosciente di sé stessa per fare massa critica. Il capitalismo americano ha vinto, ma ora la sua nemesi asiatica ne minaccia gli interessi fondamentali. La storia non perdona.
24 Maggio 2023