Nel saggio “Delitto Neruda” lo scrittore e giornalista raccoglie tanti indizi che lo portano a una certezza: il poeta non morì per cause naturali
L’11 settembre 1973 il generale Augusto Pinochet assaltava il palazzo presidenziale de La Moneda a Santiago del Cile con mezzi militari e perfino aerei: il governo del presidente democraticamente eletto Salvator Allende verrà rovesciato: con il golpe il militare instaurerà uno dei più feroci regimi del ‘900. Pochi giorni dopo la casa del premio Nobel Pablo Neruda nel paese sul Pacifico di Isla Negra verrà perquisita e, come riportano le cronache, al capitano che conduce le ispezioni il poeta dichiaratamente comunista dirà che troveranno “una sola cosa pericolosa per voi”. “Cosa?” “La poesia!”. Il 25 settembre l’autore di “Confesso che ho vissuto” moriva nella clinica Santa Maria di Santiago. Ufficialmente morì per cachessia (sindrome da deperimento) provocata dal cancro alla prostata. Manca l’autopsia. Il certificato di morte, dicono più fonti, è senza dubbi falso.
Il sospetto che sia stato assassinato non è mai stato fugato. Anzi. Il giornalista e scrittore Roberto Ippolito ha appena pubblicato un saggio-inchiesta, Delitto Neruda (ChiareLettere, pp. 240, euro 17,60) dove confuta i dubbi e sostiene che la verità è una: il poeta fu ucciso. Per Pinochet il poeta in vita avrebbe rappresentato un grosso inciampo. Il 26 settembre sarebbe partito in esilio in Messico e avrebbe fatto sentire la sua voce contro il dittatore fascista. L’autore ricostruisce la vicenda delle analisi e parla del suo libro – inchiesta martedì 25 febbraio alle 18,30 al Museo del Giocattolo la Protablv, in via De Anellis 14 (Ingresso Oasi di san Francesco), ospite del Circolo dei Lettori di Andria, in Puglia.
Il suo autista Manuel Araya in servizio tra il 1972 e 1973 venne “mandato stranamente a cercare fuori della clinica un farmaco mancante, egli viene bloccato, arrestato e torturato, nello stesso momento in cui Neruda muore”, riporta la scheda editoriale. Fu Araya per primo a dire che il poeta non era morto per cause naturali ma era stato ucciso dal regime: imprigionato, torturato dai soldati di Pinochet, fu liberato e si salvò grazie al cardinale Raul Silva Henriquez, ha scritto Lucia Capuzzi in un lungo articolo sul libro uscito su Avvenire del 12 febbraio.
Nel 2004 Araya in un’intervista al giornale El Lider disse esplicitamente che il poeta era stato ucciso da un’iniezione di veleno. Un’indagine è in corso dal 2011. Ippolito la ricostruisce e vi trova troppi elementi che non tornano. Per gli esperti, racconta, il poeta non aveva nessun sintomo tra quelli che indicano la cachessia: non era deperito, le facoltà mentali non si erano annebbiate, le proteine non presentavano dati alterati. Ma la cartella clinica è sparita. Il medico di turno, un tale dottor Price, sembra svanito nel nulla. Più testimoni, ricorda Ippolito, hanno parlato di quell’iniezione.
Altro elemento riportato nel volume: il 20 ottobre 2017, all’Hotel Plaza San Francisco di Santiago, esperti dicono che nel Dna di Neruda hanno scoperto un batterio tossico, il clostridium botulinum, che è stato “utilizzato spesso come arma biologica”, ha ricordato Lucia Capuzzi. Più indizi portano all’assassinio. “Manca però la prova definitiva. Al laboratorio canadese McMaster toccherà appurare se il batterio sia entrato nel corpo prima o dopo il decesso”.
Ippolito ha condotto un lungo lavoro d’inchiesta su più fronti. Ha studiato archivi, perizie scientifiche, testimonianze, giornali su carta e online, ha rintracciato trasmissioni radio e tv, ha consultato blog, ha studiato libri e materiali provenienti da Cile, Spagna, Brasile, Messico, Perù, Italia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti. Il risultato, afferma nelle sue pagine, è chiarissimo.
24 febbraio 2020