La disoccupazione giovanile nel nostro paese ha ormai superato il 42% delle nuove generazioni in età lavorativa e ha raggiunto il 13% della popolazione complessiva in grado di lavorare.
Le persone che rientrano nelle fasce della povertà assoluta e relativa rappresentano circa il 18% della popolazione residente (più di 11 milioni e mezzo di abitanti).
La crisi del capitalismo globalizzato, provocata dai grandi gruppi monopolistici della finanza internazionale, statunitense ed europea, è ricaduta completamente sulle già magre spalle della classe lavoratrice e sui ceti sociali intermedi, attraverso misure governative di austerità e di macelleria sociale, che hanno arricchito ulteriormente i già ricchi.
Dati di Bankitalia testimoniano che nel nostro paese il 10% della famiglie italiane possiede il 50% della ricchezza nazionale (valutata in circa 9.000 miliardi di euro), mentre il restante 90% viene continuamente fustigato da tasse, gabelle, pensioni da fame e – quando c’è – dal lavoro precario.
Se dal punto di vista sociale le cose vanne leggermente meglio in Lombardia e in provincia di Milano anche qua comunque la crisi morde con ferocia, distruggendo posti di lavoro ed imprese in grade quantità.
Il tasso di disoccupazione in Lombardia, che nel 2003 era pari al 3,6%, nel 2012 (ultimo dato disponibile dalla statistica regionale) è salito al 7,5% mentre quello relativo alla Provincia di Milano (Provincia di Monza e Brianza compresa) che nel 2003 era pari al 4,5%, nel 2012 ha raggiunto il 7,8%.
Come risulta dal registro delle imprese della Camera del Commercio di Milano e Provincia, solo nel 2012 si sono cancellate da tale registro 24.422 imprese.
Del resto, la provincia milanese è ormai da più di trent’anni che è investita da un vigoroso processo di de-industrializzazione che colpisce soprattutto i settori tessile, chimico, metalmeccanico, l’elettronica e la produzione di strumenti di precisione.
Se mettiamo a confronto gli occupati nei grandi settori di attività al 31/12/2003 con quelli presenti al 31/12/2012, otteniamo la seguente tabella
ANNI AGRICOLTURA INDUSTRIA MAN. COSTRUZIONI TERZIARIO TOTALE
n. occupati n. occupati n. occupati n. occupati
2003 11.000 470.000 90.000 1.079.000 1.650.000
2012 6.600 357.000 105.000 1.306.500 1.775.000
Da questa tabella elaborata con dati ricavati dal sito, www.asr-lombardia.it, si evince che nell’industria manifatturiera vera e propria si sono persi ben 113.000 posti di lavoro e che perfino nell’agricoltura gli occupati si sono ridotti di 4.400 unità.
Sono cresciuti invece gli occupati nel settore delle costruzioni più legato alla realizzazione dei “grandi progetti” sia edilizi che infrastrutturali della mobilità e, soprattutto, gli occupati nel settore terziario (servizi alle imprese, Amministrazione pubblica, commercio, intermediazione finanziaria, etc.).
Come si vede, nella Provincia di Milano esiste una grande forbice fra gli occupati nel settore industriale e quelli del terziario; una forbice che si è allargata ulteriormente dopo il 2007 nonostante che la crisi abbia iniziato ad intaccare anche l’occupazione terziaria.
Oggi gli occupati nel terziario rappresentano quasi il 74% dell’occupazione totale mentre nel 2012 il peso degli occupati nell’industria sul totale è sceso dal 28,5% del 2003 al 20,1% del 2012.
Il potere d’acquisto della classe lavoratrice e dei ceti sociali intermedi si è ridotto sensibilmente non solo per il blocco dei salari, delle pensioni, dei ritardi sul rinnovo dei contratti di lavoro e per l’aumento di cassaintegrati e disoccupati permanenti, ma anche per la crescita dei prezzi al consumo di fondamentali beni e servizi.
Dal 2010 al 2012, fatto uguale a 100 l’indice generale dei prezzi al consumo del 2010 in Provincia di Milano, tale indice nel 2012 è salito a 105,8.
L’indice del prezzo al consumo dei generi alimentari nel periodo considerato è salito al 106,2, quello relativo all’abitazione, all’acqua, all’elettricità e ai combustili, al 110,8 mentre quello dei trasporti, grazie agli aumenti voluti dall’amministrazione comunale del Sindaco “arancione” Pisapia, ha raggiunto l’indice record di 113,4.
Gli aumenti degli affitti e dei ratei del mutuo della casa, le spese per la mobilità pendolare, le spese per l’istruzione dei figli, per i servizi pubblici e beni comuni, sempre più privatizzati, sono stati ancora più consistenti nel capoluogo lombardo e in quei comuni della provincia milanese interessati prima dalla realizzazione del polo fieristico Rho-Pero e poi dalle aspettative legate all’attuazione di Expo 2015 e alle operazioni di speculazione edilizia nelle aree industriali dismesse dell’ex Alfa Romeo di Arese, Garbagnate Milanese, Lainate, Rho.
Anche la sanità lombarda, pubblicizzata come eccellente, è stata abbondantemente privatizzata ed egemonizzata da Comunione e Liberazione (CL) e dal suo braccio economico – la Compagnia delle Opere (CdO). La famosa “sussidiarietà della prestazioni sanitarie” tra pubblico e privato è stata una invenzione furbesca del “celeste” Formigoni per foraggiare, con una marea di soldi pubblici, gli amici di CL e della CdO operanti nella sanità. Lo testimoniano i casi famosi e scandalosi del Santa Rita a Milano, del San Raffaele sempre a Milano e della Fondazione Maugeri a Pavia. Ma, in omaggio al famoso proverbio, “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”, proprio in relazione alle vicende della Fondazione Maugeri , Roberto Formigoni, ex governatore della Lombardia e attualmente, perfino Senatore della ex Repubblica “ fondata sul lavoro”, è stato incriminato per corruzione aggravata e per associazione a delinquere.
Le questioni sociali principali che si dovrebbero affrontare nell’area metropolitana milanese, con qualche beneficio d’inventario, si possono così sintetizzare:
– la enorme difficoltà di trovare un’ occupazione stabile e sicura, soprattutto da parte delle nuove generazioni, per la continua riduzione e chiusura delle attività produttive manifatturiere e per gli ostacoli che le piccole e medie imprese incontrano nel nascere o ad espandersi, dovute alle carenze di strutture per la ricerca, l’innovazione e servizi di supporto, non ultimi quelli relativi all’accesso al credito bancario;
– la polverizzazione delle imprese sul territorio, in particolare quelle terziarie, dove si annida prevalentemente il lavoro precario e “in nero” che, grazie in genere alla loro micro e piccola dimensione, sfugge ad ogni controllo;
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la “emergenza casa”, per l’estrema carenza di abitazioni con canoni d’affitto alla portata delle tasche dei ceti sociali meno abbienti e per studenti e studentesse del sistema universitario milanese provenienti da altre regioni e da altri paesi;
– l’espulsione dei ceti sociali a più basso reddito dalle zone centrali dell’area metropolitana e dai centri storici delle città, per i continui processi di sostituzione della residenza popolare con funzioni terziarie (banche, sedi di assicurazioni, uffici, ecc.) e la residenza di lusso, assai più redditizie per la proprietà privata immobiliare;
– l’emarginazione di una notevole parte della popolazione in zone urbane periferiche, degradate e sovente prive dei più elementari servizi, e in settori marginali della stessa area metropolitana mal servite dal trasporto pubblico;
– l’aumento del “tempo sprecato” nei percorsi pendolari casa-lavoro-studio, per il continuo incremento del traffico veicolare privato, per la mancanza di adeguati collegamenti trasversali fra i comuni esterni a Milano e per la scarsa presenza ed efficienza del trasporto pubblico;
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il blocco delle iscrizioni di studenti e studentesse al primo anno dell’università attraverso l’istituzione di un numero fisso per le immatricolazioni che preseleziona le matricole attraverso un apposito test d’ingresso che è in contrasto col diritto allo studio per tutti e tutte;
– una dotazione insufficiente di “libertà urbane” (spazi per il verde, l’istruzione, la cultura, il tempo libero, l’assistenza e la sanità, ecc.) in molte parti dell’area, compresa la mancanza di adeguate strutture per l’accoglienza e l’integrazione della popolazione straniera, sempre più presente nelle città.
Come se non bastasse, la popolazione residente nella Provincia di Milano e in quella di Monza e Brianza, che alla data del 01/01/2013 ammontava complessivamente a 3.925.767 abitanti, e che costituisce la parte maggiore dell’area metropolitana milanese, è costretta a vivere in un ambiente con il triste primato di essere fra quelli più inquinati d’Europa, impregnato com’è da ogni tipo di sostanze pericolose per la nostra salute.
In un convegno tenuto il 5 febbraio 2014 a Milano è stato illustrato e reso pubblico uno studio svolto da un gruppo di medici specialisti dell’Associazione lotta alla trombosi, dove si dice che in città italiane, Milano e Torino in particolare, si possono perdere dai 2 ai 3 anni di vita per l’inquinamento atmosferico.
In questo studio vi sono dei dati sconcertanti: l’inquinamento atmosferico in tutto il mondo mieterebbe 3 milioni di vittime ogni anno.
In una città come Milano un aumento di 10 micron per millimetro cubo di PM10 (polvere sottile) in atmosfera provoca un incremento del 20% degli infarti. Nel solo capoluogo lombardo muoiono circa 230 persone all’anno causa dello smog.
Del resto è ormai noto da serie ricerche scientifiche che l’aria inquinata provoca il cancro e le malattie respiratorie come l’asma ai polmoni, le trombosi, l’infarto, l’ictus e l’embolia polmonare.
Per esempio alcuni anni fa sono stati pubblicati i dati dell’Osservatorio Epidemiologico dell’Istituto dei Tumori del capoluogo lombardo secondo cui ogni anno nella sola Milano, oltre ai morti, erano direttamente riconducibili all’inquinamento atmosferico 6.000 casi di bronchite acuta, 5.500 casi di asma e 1.000 ricoveri per malattie cardiache o respiratorie.
L’assurdo è che, per ottenere questi bei risultati, paghiamo pure il carburante coi prezzi più alti d’Europa, generando un traffico automobilistico stradale che emette più del 72 % di polveri sottili in atmosfera, violando costantemente i limiti delle emissioni fissati per legge; limiti superati a Milano anche dopo l’entrata in vigore dell’area C a traffico limitato e a pagamento del Sindaco Pisapia e nonostante i frequenti blocchi del traffico nei giorni festivi.
Naturalmente il superamento dei limiti di legge dell’inquinamento atmosferico dovuto alle polveri sottili (PM10; PM2,5) non riguarda solo Milano ma tutte le città dell’area metropolitana interessate dagli assi principali del trasporto privato (in particolare l’asse del Sempione), in cui la congestione del traffico automobilistico raggiunge i suoi picchi in alcune ore della giornata dove si concentrano gli spostamenti casa- luoghi di lavoro e casa-luoghi di studio.
Anche sulla riduzione della immissione di sostanze climalteranti nell’aria, nonostante qualche lieve miglioramento, siamo ancora lontani dagli obbiettivi, sia pure modesti, di Kyoto.
Le criticità delle condizioni di vita ambientale della popolazione non si fermano comunque al solo inquinamento atmosferico.
Queste criticità riguardano pure l’inquinamento dei maggiori corsi d’acqua (i fiumi Olona, Lambro, Seveso, i torrenti Guisa, Lura, Bozzente, etc.), l’inquinamento da rumore ed elettromagnetico e soprattutto, le difficoltà dell’area metropolitana di metabolizzare, recuperare e riciclare tutti i rifiuti organici ed inorganici, la degradazione idrogeologica e paesaggistica di molti siti, lo stato pietoso in cui si trovano molti centri storici anche di valore monumentale ed artistico, la riduzione della massa vegetale e degli animali e, infine, il consumo e l’artificializzazione del suolo.
Su quest’ultimo aspetto è necessario fare alcuni chiarimenti di carattere generale. Intanto per “suolo consumato” si intendono non solo le aree edificate, cementificate, asfaltate o completamente coperte da materiali artificiali impermeabili, ma anche quei terreni che attraverso una serie di trasformazioni umane hanno subito la distruzione dello strato superficiale chiamato “humus” ( circa 30 cm.) contenente forme viventi (microrganismi, batteri, etc.), tali da essere paragonabili a terreni desertici.
Molti studiosi di scienze naturali sostengono, con dati alla mano, che quando in una città il consumo del suolo supera il 55% dell’intera superficie comunale, l’humus perde la sua capacità di autoriproduzione insieme alla sua capacità di produrre masse vegetali anche sui terreni liberi da costruzioni, tendendo anch’essi alla desertificazione. Superata quella soglia aumenterebbe inoltre, a dismisura, il pericolo di un disastro, che noi chiamiamo impropriamente, “naturale”, ogni volta che piove (esondazioni di corsi d’acqua, allagamenti e ruscellamento di strade, frane, smottamenti e dissesti idrogeologici, etc.).
Il Centro Studi PIM per le Province di Milano e Monza-Brianza ha elaborato alcune carte sul consumo del suolo esistente nel 2008 e previsto dai piani urbanistici comunali vigenti, espresso in % sul territorio comunale e per zone intercomunali omogenee, coi seguenti risultati.
Milano città = 70%; Sud Milano = 41,4%; Legnanese = 54,6%
Castanese = 27,7%; Martesana Adda = 35,6%; Magentino = 31,2%
Rhodense = 58,5%; Nord Milano = 82,1%; Brianza = 54,3%
Sud est Milano = 28,8%; Abbiatense Binaschino = 13,3% Totale = 42,0%
Tra il 1999 e il 2009, secondo gli esiti di una ricerca svolta nel Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico (DIAP) di Milano, nella provincia milanese è stata edificata complessivamente un’area di 7.323 ettari (1 ha = 10.000 mq), pari alla metà della superficie comunale del capoluogo lombardo. Ogni giorno si sono consumati 20 mila metri quadrati di territorio prevalentemente agricolo.
A Milano le aree verdi sono diminuite del 43,4% passando dai 489 ettari del 1999 ai 277 ettari attuali mentre le aree agricole si sono ridotte del 14%.
Anche nella provincia di Monza e Brianza il consumo del suolo nel periodo 1999-2009 è aumentato di 2.078 ettari, pari a più di due terzi la superficie comunale di Monza.
Non dobbiamo nemmeno dimenticare che in Lombardia esistono ancora 285 industrie classificate ad alto rischio di incidente ambientale, la maggior parte collocate proprio nella provincia di Milano e che esistono vari problemi di bonifica di siti industriali dismessi.
A questo proposito non possiamo non ricordare alcuni scandali riguardanti la mancata bonifica di terreni inquinati interessati da nuovi grandi insediamenti edilizi come quello residenziale realizzato a Santa Giulia a Rogoredo-Montecity e quello fortunatamente fermato dalla protesta dei cittadini, che doveva sorgere, con autorizzazione già rilasciata dal Comune, sulla ex cava-discarica di Garegnano nelle vicinanze del capolinea della MM1 a Bisceglie.
Più recentemente – gennaio 2014 – sono state arrestate 6 persone e 38 indagate per la mancata bonifica dell’ex polo chimico SISAS di Pioltello-Rodano, alla periferia est di Milano.
Fra gli arrestati spicca la figura di Luigi Pelaggi, che all’epoca dei fatti a lui contestati ricopriva la carica pubblica di segretario del ministro dell’ambiente Stefania Prestigiacomo. Il Pelaggi avrebbe intascato una mazzetta di 700 mila euro da chi doveva eseguire la bonifica. Tra gli indagati troviamo invece il direttore generale di ARPA Lombardia che doveva analizzare e monitorare tutta la bonifica e lo smaltimento dei rifiuti pericolosi da parte delle imprese incaricate che si sono poi rivelate colluse con la criminalità in Lombardia, Calabria, Campania e Sicilia.
Il Pelaggi, tra l’altro, in omaggio al proverbio che dice, “il lupo perde il pelo ma non il vizio”, è pure indagato nell’inchiesta sull’ILVA di Taranto.
Riassumendo, gli aspetti critici più generali che riguardano la questione ambientale, sono i seguenti:
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il contrasto dualistico (morfologico, ambientale e paesaggistico) tra la città “moderna” delle periferie e quel che rimane della città antica, dove nella prima, al contrario della seconda, l’unico principio ordinatore che s’intravede è quello economico della speculazione edilizia;
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la perdita delle identità locali, sommerse da forme insediative e di vita imposte dalla globalizzazione economica, che poco hanno da spartire coi caratteri fisici, con la storia, la cultura, le credenze, che sono originari dei nostri contesti territoriali;
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la de-naturalizzazione del suolo, dove la biodiversità vegetale ed animale è ormai ridotta al lumicino da un’enorme colata di cemento ed asfalto (quest’ultimo neppure drenante), che ha creato nell’ habitat umano un insano e pericoloso squilibrio tra le forme artificiali e quelle naturali: la parte urbanizzata copre più del 50 % del territorio, mentre al nord dell’area metropolitana abbiamo conurbazioni insediative fra più comuni dove il consumo del suolo supera anche il 70 %;
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la privatizzazione di tradizionali spazi pubblici, quali vie e piazze, trasformati in parcheggi a “cielo aperto”, sottraendo così alla collettività una parte importante della città, rendendo più insicura e caotica la circolazione di veicoli, ciclisti e pedoni: la maggior parte della mortalità dovuta ad incidenti stradali avviene nell’ambiente urbano;
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il micidiale miscuglio nel sistema della mobilità tra traffico locale e traffico extralocale, tra il trasporto delle persone e quello delle merci, che aumenta a dismisura la congestione sulle principali strade urbane ed extraurbane;
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i disagi e il malessere creati dagli alti livelli d’inquinamento (dell’aria, dell’acqua, del suolo, acustico ed elettromagnetico), che espongono continuamente la nostra vita al rischio di malattie;
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la povertà del paesaggio della campagna agricola, soprattutto nelle zone peri-urbane in prossimità dei centri edificati, per l’uso di monocolture praticate con tecnologie intensive che riducono “l’humus” del suolo, la densità e la varietà delle masse vegetali e dove sono in aumento i terreni incolti in attesa di edificazione e le discariche abusive;
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la dilagante protesta della popolazione residente in alcune zone metropolitane, densamente abitate, per la presenza di grandi impianti di incenerimento dei rifiuti con tecnologie non in grado di escludere i rischi d’inquinamento dell’aria e del suolo;
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l’aumento dello spreco di acqua potabile dovuto alle perdite delle reti degli acquedotti comunali che sono vecchie ed obsolete;
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la presenza di importanti corsi d’acqua (il Lambro, il Seveso, l’Olona, ecc.) inquinati e maleodoranti, che escono dai loro alvei alla prima pioggia intensiva, con conseguenze facilmente immaginabili.
Questi elenchi, che assomigliano alla famosa “lista della serva”, pur non essendo esaustivi di tutti gli aspetti critici del territorio metropolitano (pensiamo per esempio, alle conseguenze della presenza dell’amianto) sono tuttavia utili per darci un’idea della complessità dei problemi che bisognerebbe affrontare.
Essi comunque ci fanno soprattutto comprendere che la contraddizione tra capitale e lavoro, nella sua accezione scientifica marxiana, non riguarda solamente i livelli dell’occupazione, il potere d’acquisto dei salari, delle pensioni operaie e tutto ciò che possiamo definire come “economicismo” e “tradunionismo”.
I rapporti sociali di produzione del capitalismo riducono a merce non solo il lavoro umano ma anche la natura, concepita come un serbatoio infinito di materia bruta dalla quale estrarre illimitatamente le risorse materiali da trasformare in prodotti o beni da vendere sul mercato, dando un profitto al capitalista.
La sete infinita di profitto del capitalista entra però in conflitto con la stessa natura in quanto le sue risorse non sono illimitate e i loro cicli riproduttivi – quando non vengono distrutti – hanno tempi assai più lunghi rispetto a quelli del consumo umano. La società “USA e getta” tende quindi a consumare tutto in poco tempo, lasciando alle future nuove generazioni solo grandi patologie ambientali che rischiano di essere incurabili.
Accanto alla contraddizione tra capitale e lavoro troviamo dunque quella tra capitale e natura, che condizionano l’organizzazione funzionale (strutturale ed infrastrutturale) della città e del territorio, dove anche la terra è ridotta a merce con propri valori di mercato.
Sono entrambe queste due contraddizioni che conformano le condizioni ambientali di vita della popolazione, non solo all’interno dei luoghi di lavoro e di studio ma anche fuori, nei territori, nelle città e nei quartieri, subordinandoli non solo al profitto ma anche all’appropriazione della rendita fondiaria urbana da parte della proprietà privata immobiliare.
Una volta si diceva che lo sfruttamento della classe lavoratrice e, in genere, delle masse popolari, inizia dai luoghi di lavoro e prosegue anche fuori: questa osservazione è più che mai attuale ancora oggi!
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Il declino di Milano
Milano, secondo alcune ricerche europee del tipo “European Cities Monitor” e “Rapporto sullo Stato delle Città Europee”, è una città in declino, soprattutto dal 2.000, secondo molti indicatori, da quelli economico-sociali a quelli ambientali, rispetto ad altre metropoli come Londra, Parigi, Francoforte, Bruxelles, Amsterdam, Barcellona, Monaco di Baviera, Berlino, Zurigo, Düsseldorf, Madrid e perfino rispetto a città dell’Est Europa e a Lisbona.
I rapporti annuali di “MeglioMilano” confermano sostanzialmente l’arretramento del capoluogo lombardo nelle classifiche europee.
L’ultimo rapporto 2013 di “Ecosistema Urbano”, che ha stillato una classifica tra le 15 città italiane, capoluoghi di provincia con una popolazione residente superiore ai 200 mila abitanti, secondo un indice di sostenibilità socio-ambientale complessivo, colloca Milano al tredicesimo posto.
Senza continuare a citare indagini sul declino di Milano, sia pure interessanti, preferisco invece individuare gli aspetti negativi comuni che si possono anche trarre da esse e che la politica dei governi municipali di centrodestra e dell’attuale governo arancione di Pisapia non hanno saputo o voluto affrontare per i loro legami, più o meno evidenti, con l’ideologia del capitalismo: il liberismo.
Il primo aspetto negativo riguarda l’economia e il lavoro.
Nel periodo tra il censimento del 2001 dell’industria e del commercio e l’ultimo censimento del 2011 gli addetti al settore industriale vero e proprio (comparto delle costruzioni edilizie escluso) sono diminuiti ancora di circa 18.400 unità continuando un trend al ribasso che dura ormai dagli anni ottanta del secolo precedente anche se si è accentuato negli anni recenti della crisi del capitalismo globalizzato.
Questa crisi, nei paesi occidentali, rende ancora più insostenibili le condizioni di vita delle famiglie e delle persone in un paese come il nostro, con un’economia in uno stato comatoso già da alcuni decenni per la perdita di importanti quote di produzione industriale, specialmente nell’area che una volta veniva chiamata “triangolo industriale” (Torino, Milano, Genova).
A Milano e nell’area metropolitana milanese abbiamo imprenditori che già da alcuni decenni chiudono la propria attività preferendo andare altrove per spuntare profitti più alti, realizzando nello stesso tempo operazioni di speculazione immobiliare sulle aree dismesse.
I livelli dell’occupazione a Milano sono diminuiti dal 2001 al 2011 anche nel settore agricolo e nelle istituzioni pubbliche. Nel settore primario hanno chiuso i battenti 53 unità locali sulle 98 esistenti nel 2001 e 209 agricoltori hanno perso il lavoro mentre nelle istituzioni pubbliche sono circa 18.000 gli addetti, per lo più del comparto dell’istruzione, che sono rimasti a casa.
Nei recenti anni della crisi la riduzione dei livelli occupazionali ha iniziato a colpire, anche a Milano, il settore terziario, in maniera particolare il piccolo commercio basato sul negozio a conduzione famigliare.
Non importa se intere famiglie di lavoratori vengono gettate nella disperazione. Non importa se la disoccupazione cresce soprattutto fra i giovani, dove ha raggiunto percentuali a due cifre impensabili fino a pochi anni fa. Questo, si dice, è il costo della “modernità”, che naturalmente devono pagare i soliti operai, quelli del “vecchio e sorpassato” posto fisso che va soppresso per mantenere competitiva l’azienda del padrone, benché il livello medio dei salari italiani sia già al ventitreesimo posto fra i trenta paesi più industrializzati.
Il declino manifatturiero di tutta l’area metropolitana milanese è anche dovuto alla perdita di capacità innovativa di Milano e della sua classe imprenditoriale che all’industria preferisce la speculazione immobiliare e finanziaria tant’è che la città è pure diventata un luogo di “lavaggio” dei soldi sporchi di ‘ndrangheta, camorra e mafia.
Il secondo aspetto negativo è costituito dall’emergenza casa.
Nonostante che la popolazione residente nel Comune dal 1971 alla data del 1/01/2013 (1.366.409 abitanti) abbia subito una riduzione superiore ai 450 mila abitanti, la fame di alloggi alla portata dei ceti sociali a più basso reddito è rimasta elevata.
Per la verità, anche la popolazione residente negli ultimi anni mostra dei segni di ripresa; per esempio, dal 1/01/2010 (1.322.750 residenti) alla data del 1/01/2013 si registra un aumento di 43.659 abitanti ma tale crescita è esclusivamente dovuta all’incremento della popolazione residente straniera che nello stesso periodo passa dai 217.284 abitanti del 2010 ai 261.412 abitanti del 2013. Anche questo incremento dei residenti stranieri è un elemento che rende più acuta la fame di alloggi economici e popolari.
Solo nell’ultimo anno (2013) le richieste di persone e famiglie di avere un alloggio popolare sono state circa 22 mila mentre si sono registrati ben 17 mila sfratti esecutivi, di cui 11.615 per morosità. La crisi con l’aumento della disoccupazione ha fatto crescere il numero di persone e famiglie non più in grado di pagare i canoni d’affitto e quindi anche del numero degli occupanti abusivi in alloggi ALER e del Comune, che alla fine del 2013 sono stati pari a 3.532 persone.
Eppure a Milano sono 60 mila gli alloggi privati vuoti ai quali si devono aggiungere altri 4 mila alloggi di proprietà pubblica che sono inagibili o in ristrutturazione. Gli alloggi privati messi in vendita, nonostante che il mercato edilizio sia stagnante, hanno un prezzo medio che supera i 4 mila euro al metro quadrato, assai lontano dalle possibilità di un lavoratore.
Nel Dipartimento di Architettura e Pianificazione (DIAP) del Politecnico di Milano-Leonardo, un gruppo di ricercatori aveva definito per l’edilizia residenziale pubblica (ERP), intesa come edilizia sovvenzionata, agevolata e convenzionata, il fabbisogno di alloggi per il periodo 2007-2016, applicando la legge nazionale 10/07/1977 che permette di vincolare alla ERP una quantità di alloggi non inferiore al 40% e non superiore al 70% del fabbisogno complessivo in un decennio (ERP + alloggi di iniziativa privata). Per la vecchia provincia milanese (Monza e Brianza compresa) quel fabbisogno ammontava a 220.333 alloggi di cui circa 84.000 per Milano.
L’edilizia residenziale pubblica (ERP) con la fine della GESCAL è diventata ancora di più latitante nel mercato delle abitazioni e l’ALER ci appare oggi soprattutto come un’agenzia di svendita del patrimonio residenziale pubblico, anziché l’ente preposto alla costruzione dell’ERP, alla sua manutenzione e gestione.
Tanto per fare un confronto coi paesi europei, si precisa che il numero degli alloggi ERP ( compresi anche quelli costruiti da cooperative edilizie con soci che hanno goduto di finanziamenti pubblici agevolati e quelli convenzionati con privati che hanno costruito su aree per l’edilizia economica e popolare) ha un peso del 9% sull’intero patrimonio abitativo esistente nella provincia di Milano. Questo peso è superiore alla media italiana del 6% ma è pari alla metà della media UE27 che è del 18%.
Sul totale degli alloggi esistenti, l’ERP in Francia ha un peso intorno al 17%, in Gran Bretagna siamo al 24% e in Germania al 26%.
Il terzo aspetto negativo è dato dalla concentrazione dei posti di lavoro in Milano.
La città ogni giorno lavorativo, nelle ore diurne supera i 2 milioni di persone che calcano il suo suolo, per poi ritornare, alla fine della giornata verso il suo normale numero di abitanti.
Questo elastico demografico, che si allunga e s’accorcia giornalmente, è dovuto a quelle centinaia di migliaia di pendolari provenienti da altri Comuni che ogni giorno entrano ed escono da Milano principalmente per motivi di lavoro e di studio, congestionando il traffico automobilistico sulle principali strade del sistema metropolitano della mobilità.
Il fenomeno della congestione del traffico indotto dalla mobilità su mezzi prevalentemente privati è quindi dovuto principalmente al fatto che sulla superficie comunale di Milano, che rappresenta il 9,25% dell’intera superficie provinciale (Monza e Brianza compresa), sono concentrati più del 50% dei posti di lavoro esistenti in tutta la Provincia insieme alla maggiore concentrazione italiana di strutture universitarie.
Questa mega-concentrazione di attività, soprattutto terziarie è la fonte principale di molti guai che si possono così sintetizzare:
– la trasformazione di molti Comuni dell’area metropolitana milanese in “Comuni-dormitorio” con spiccati caratteri di dipendenza da Milano;
– il tempo perso nei percorsi pendolari casa-luoghi di lavoro e casa-luoghi di studio per la congestione del traffico veicolare privato e per l’insufficiente ed inefficiente trasporto pubblico su gomma e su ferro;
– la grande incidenza della congestione del traffico veicolare privato sull’inquinamento atmosferico dovuto alle polveri sottili (PM10 e PM2,5) che in particolare a Milano supera per molti giorni dell’anno i livelli ammessi, con grave pericolo per la nostra salute.
Il quarto aspetto negativo riguarda le patologie ambientali.
Il suolo consumato ovvero, artificializzato, come si è visto, è mediamente pari al 70% della superficie comunale, sorpassando di molto quella soglia del 55% di cui si è già scritto.
Stiamo parlando di una città che presenta una densità media di popolazione intorno ai 7.500 ab/Kmq (abitanti al chilometro quadrato) ma che in alcune zone urbane raggiunge anche i 9.000 ab/Kmq mentre la densità media della vecchia Provincia si aggira sui 2.000 ab/Kmq, quella lombarda sui 410 ab/Kmq e quella italiana sui 200 ab/kmq. I livelli d’inquinamento dell’aria violano costantemente i limiti fissati dalla legge e In tutte le classifiche europee sulla qualità della vita urbana, Milano viene citata come la città più inquinata in Europa, dopo Mosca.
Notevole disagio è sofferto dalla cittadinanza per l’inquinamento acustico (rumore) provocato soprattutto dal traffico veicolare e, in alcune zone, dal traffico ferroviario mentre sono aumentati i pericoli per la nostra salute dovuti alla crescita dell’inquinamento elettromagnetico.
Le patologie ambientali riguardano anche le acque: tutti i maggiori corsi d’acqua che attraversano Milano sono inquinati e le frequenti esondazioni del Seveso causano dissesti territoriali, danni e disagi alla popolazione. La città è inoltre inserita in quella parte del territorio provinciale dove il rischio d’inquinamento delle falde freatiche è maggiore.
La dotazione di verde pubblico esistente per parchi e giardini è assai scarna: 9,90 metri quadrati per abitante calcolata da alcuni ricercatori del già citato DIAP del Politecnico Milano – Leonardo; 12 mq/ab citati invece da “Ecosistema Urbano 2013” di Legambiente.
Entrambe le quantità (standard) sono superiori allo standard minimo di legge (9 mq/ab.) solo perché la legge regionale n.12/1975 ha tagliato drasticamente lo standard minimo previsto dalla abolita legge urbanistica regionale n. 51/1975, pari a 15 mq/ab. Il confronto con altre città europee è comunque impietoso: 19 mq/ab a Copenaghen; 20 mq/ab a Varsavia; 24 mq/ab a Londra; 27 mq/ab a Vienna; 66 mq/ab a Berlino; quasi 12 mq/ab a Parigi. Solo Madrid coi suoi 6,11 mq/ab ha uno standard di verde pubblico inferiore a Milano.
Le piste ciclabili esistenti coprono una modesta distanza pari a circa 150 Km solo se conteggiamo le di piste interne ai parchi e i tratti segnati su marciapiedi e su sedi stradali esistenti senza nessuna separazione fisica con gli spazi percorsi dalle auto.
Siamo dunque ben lontani dai 1.000 Km di Berlino e questi percorsi ciclabili sono ben lungi dal costituire una vera e propria rete, coi rami interconnessi ed integrati nel sistema generale della mobilità cittadina.
La dotazione di isole pedonali è assai limitata ed è così anche per il recupero dei nuclei urbani antichi, degli edifici di valore storico-monumentale, la loro valorizzazione culturale, turistica e paesaggistica, insieme a quella dei viali alberati ottocenteschi.
Abbiamo infine il problema della raccolta differenziata dei rifiuti che si aggira intorno al 38%, del totale dei rifiuti prodotti, molto lontana dall’obbiettivo del 65% che secondo la legge nazionale doveva essere raggiunto entro la fine del 2012.
Nel mese di novembre del 2012 è partita finalmente la raccolta dell’umido in maniera separata dal resto dei rifiuti ma ciò ha interessato solamente un quarto delle famiglie milanesi che dovrebbero essere tutte coinvolte entro la fine del 2014. Milano è quindi un Comune fuorilegge per quel che riguarda la raccolta differenziata dei rifiuti, che per la maggior parte finiscono nell’inceneritore di Figino.
Il quinto aspetto negativo è relativo al grado di civiltà che la città offre.
Con ciò si intende l’insieme dei livelli quantitativi e qualitativi della cultura e svago, dell’istruzione e conoscenza, dei servizi e beni comuni e della sicurezza, di cui è dotata la città e che mi permetto di definire come “libertà civili urbane”.
A Milano si legge sempre meno; le vendite dei libri e i prestiti delle biblioteche, risultano in decremento. Diminuiscono anche le rappresentazioni teatrali, i concerti, la frequenza ai cinema, mentre si sente la mancanza di adeguati spazi autogovernati per la vita di relazione e di auto-apprendimento fra le persone e in particolare, fra i giovani.
Negli ultimi anni si è registrato un calo marcato nella spesa media mensile delle famiglie residenti dedicata alla cultura e allo svago.
E’ in diminuzione il numero dei diplomati rispetto ai residenti e il numero dei laureati rispetto agli studenti iscritti al primo anno di università pur essendo diminuite le immatricolazioni. E’ peggiorato sensibilmente, dopo la cosiddetta “riforma Gelmini”, il rapporto tra il numero di studenti e il numero dei docenti (più studenti per ogni docente), nelle scuole dell’obbligo, nelle medie superiori e nelle Università dove una parte notevole della didattica viene svolta da ricercatori con contratti precari e perfino da cultori della materia.
Gli asili nido e le scuole materne comunali e statali sono insufficienti rispetto al numero dei bambini in età da zero fino a 6 anni.
E’ in crescita non solo il numero di alunni non italiani nella scuola dell’obbligo e nelle medie superiori ma anche il numero degli studenti stranieri iscritti all’università. Per accogliere in maniera adeguata gli studenti stranieri e quelli italiani che provengono da altre regioni del nostro paese esisterebbe un fabbisogno di circa 40 mila nuove stanze. Vi è inoltre una carenza di strutture per l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri per assicurare a loro la libertà di coltivare le proprie tradizioni ed identità nel pieno rispetto delle leggi italiane.
Per quel che concerne la salute il “sistema formigoniano” fondato sulla cosiddetta “sussidiarietà” (ovvero al ricorso massiccio all’iniziativa privata), oltre ad aver portato ai noti scandali già citati, sta realizzando in un piano ospedaliero che si traduce in una dismissione di strutture sanitarie pubbliche con meno di 100 letti diffuse sul territorio, a favore di una loro concentrazione in luoghi dell’area metropolitana difficilmente alla portata della popolazione perfino per lo svolgimento di semplici analisi preventive (analisi del sangue, del cuore, etc.). Sono inoltre in aumento i decessi legati all’apparato circolatorio e ai vari tumori mentre, in particolare, crescono le morti al primo anno di vita.
Sulla sicurezza le cose non vanno bene, pur essendo diminuiti i delitti contro il patrimonio: sono cresciuti gli omicidi, le violenze carnali e le lesioni dolose. Le morti sul lavoro rimangono purtroppo una costante e i procedimenti giudiziari sia civili che penali sono ancora troppo lunghi.
Infine, anche gli impianti sportivi si sono ridotti e negli ultimi anni vi è stato un calo degli utenti rispetto al 2008.
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La questione EXPO 2015.
Expo 2015 è stato e viene presentato da una vasta platea di persone e politici di professione di destra, di centro e di finta sinistra, come un evento miracolistico capace di fermare il declino di Milano e di proiettare l’intera area metropolitana milanese nell’empireo delle metropoli “più avanzate e moderne” d’Europa.
Perfino gli ultimi tre Presidenti del Consiglio dei Ministri, Mario Monti, Gianni Letta e l’attuale, Matteo Renzi, pur essendo in un periodo di “vacche magre”, hanno speso per questo evento parole magniloquenti, attribuendo ad esso il significato simbolico di un rilancio dell’Italia nel mondo.
C’è da scommettere che fra poco ci sarà qualcuno che affermerà la capacità di Expo 2015 di debellare la fame su Terra, suggestionato dal tema dell’evento, “Nutrire il pianeta, energia per la vita” e, forse, ci sarà anche chi sosterrà che con esso si potrà camminare sull’acqua senza affondare!
In realtà questo evento è una specie di “cavallo di Troia” inserito nella parte centrale dell’area metropolitana milanese, sui confini periferici di Nord-Ovest del capoluogo lombardo, con lo scopo di rivitalizzare uno sviluppo economico “Milano-dipendente”, tradizionalmente egemonizzato dai grandi attori della speculazione finanziaria ed immobiliare, interessati più all’appropriazione privata della rendita fondiaria urbana che al profitto industriale.
Ma perché Expo 2015 è solo uno strumento utile al rilancio in grande stile dell’attività edilizia, della cementificazione e dell’asfaltatura del suolo dei soliti noti?
Prima di rispondere alla domanda mi permetto però di dare alcune informazioni di base. Intanto l’area in questione, pari a 1 milione e 100 mila metri quadrati, prima della sua trasformazione d’uso per rendere possibile l’evento, era destinata dalla pianificazione urbanistica comunale vigente al verde pubblico e all’attività agricola.
L’area apparteneva per lo più alla Fondazione Fiera-Milano, alla famiglia dei costruttori Cabassi e ad altri piccoli proprietari tra cui il Comune di Rho.
La società AREXPO SpA, voluta soprattutto da Formigoni, ha rilevato l’area in questione con la seguente ripartizione delle quote societarie: Regione Lombardia 34,67%; Comune di Milano 34,67%; Fondazione Fiera-Milano 27,67%; Provincia di Milano 2,0%; Comune di Rho 1,0%.
Come si vede, il peso preponderante in questa società sta dalla parte di Maroni e Pisapia, se si alleano insieme, ma la Fondazione Fiera-Milano, in caso di decisioni contrastanti tra Regione Lombardia e Comune di Milano, diventa il vero arbitro della situazione.
L’area in questione è stata ceduta alla società EXPO 2015 SpA tramite concessioni del diritto di superficie e di contributi per oneri di infrastrutturazione della stessa area. La scadenza del diritto di superficie avverrà dopo 8 mesi dal termine dell’evento che si terrà dal 1maggio 2015 al 31 ottobre dello stesso anno. La società EXPO 2015 è costituita dal Governo italiano, dalla Regione Lombardia, dalla Provincia di Milano, dal Comune di Milano e dalla Camera di Commercio di Milano.
L’evento prevede la partecipazione di 142 paesi di cui 139 hanno già aderito insieme a tre organizzazioni internazionali: ONU, CERN e la Commissione Europea.
Cercando ora di rispondere alla domanda, sottolineo subito che mentre il vasto coro degli entusiasti, in omaggio al tema dell’evento, parla di alimenti per tutti, di bioagricoltura, orti, serre, energia rinnovabile, di consumo zero del suolo e sviluppo sostenibile, si fa esattamente l’incontrario: si riducono sensibilmente le aree verdi ed agricole a favore del cemento e dell’asfalto.
Secondo un accordo stipulato dall’ex Sindaco di Milano, Letizia Moratti coi principali proprietari dell’area Expo (Fiera-Milano e Cabassi), mai smentito o denunciato dall’attuale Sindaco Pisapia, dopo la fine dell’evento una parte dell’area di circa 400 mila mq sarà mantenuta a parco pubblico mentre sui restanti 600 mila metri quadrati si potrà costruire un nuovo insediamento privato con un mix di funzioni (residenza e terziario) pari a più di un milione di metri cubi. Circolano pure voci, con una certa insistenza, sulla possibilità che si costruisca un nuovo stadio di calcio per la società del Milan. Tanto per avere un’idea della dimensione dell’insediamento, se fosse completamente residenziale si tratterrebbe di una piccola città intorno ai 6 mila e 500 abitanti!
Tutto questo in un’area già fortemente inquinata, delimitata da assi autostradali congestionati come la A8 (Milano-Laghi), la A4 (Torino-Milano-Trieste), la Statale del Sempione, la ferrovia (TAV compreso), il polo fieristico di Rho-Pero, la zona industriale di Mazzo-Rho e confinante infine, con una zona industriale di Bollate dove vi sono attività classificate ad alto rischio di incidente ambientale.
Collegata direttamente con l’area dell’evento vi è poi la grande operazione di EUROMILANO (società formata da Marco Brunelli, Acli, Lega Coop, Unipol, Banca Intesa San Paolo) sulle aree di Cascina Merlata (più di 500 mila mq prima agricoli), dove sorgerà, in fregio al villaggio Expo, un complesso residenziale e commerciale di circa 360 mila mq di superficie lorda di pavimento. Ma la strage di aree verdi ed agricole non finisce qua!
Collegati all’Expo vi sono i grandi progetti, di vecchia e nuova data, che riguardano le infrastrutture della mobilità sia autostradali a pagamento, che nuove strade e superstrade, nonché quelle per il trasporto pubblico su ferro. Infrastrutture ritenute necessarie per aumentare l’accessibilità delle persone all’evento il cui costo complessivo preventivato supera i 10 miliardi di euro.
Le nuove autostrade sono: la Pedemontana che collegherà direttamente il Varesotto con la Brianza e le aree di Bergamo e Brescia; la Brescia-Bergamo-Milano (BreBeMi); la nuova ed esterna Tangenziale Est Milano (TEM); la trasformazione della strada provinciale Rho-Monza in una autostrada a pedaggio.
Le nuove infrastrutture della mobilità su ferro che riguardavano soprattutto le linee MM4 e MM5 che permettevano di collegare il sito Expo, la prima con Linate e Forlanini, la seconda con S. Siro non potranno però essere realizzate in tempo. La MM4 probabilmente non si farà più mentre per la MM5 si è realizzato il tratto Bignami-stazione di Porta Garibaldi ma il secondo tratto fino a S. Siro è anch’esso in forse.
Le uniche nuove opere della mobilità in corso di attuazione sono dunque – guarda caso – quelle autostradali che saranno gestite da società private, a parte la Rho-Monza (un mostro di 16 corsie) mai partita per la dura opposizione delle popolazioni e alcune opere e servizi del sistema ferroviario che si stanno realizzando.
Queste nuove autostrade, che servono solo per incrementare il trasporto di merci e persone su gomma e l’inquinamento dell’aria e non certo per diminuire la congestione del traffico all’interno dell’area metropolitana milanese, si mangeranno milioni e milioni di mq di verde e di superficie agricola. La TEM (40 Km) per esempio, che costerà sui 50 milioni di Euro/Km ed è semplicemente un doppione più esterno dell’attuale tangenziale est, toglierà all’agricoltura una superficie di quasi un milione di mq, per lo più interna al Parco Sud Agricolo Milanese.
C’è poi da chiedersi cosa succederà sulle aree confinanti coi tracciati autostradali tenendo presente l’esistenza di una legge lombarda, istituita ai tempi di Formigoni, che permette a chi finanzia le autostrade di costruire su quelle aree altre funzioni (residenza, alberghi, terziario in genere, etc.) attraverso l’uso del potere di esproprio delle relative superfici, concesso al privato dal potere pubblico. Anche se nessuno ci ha fatto caso, con Expo 2015 siamo arrivati pure al privato che espropria un altro privato!
Significativa è inoltre la vicenda del canale navigabile che doveva collegare il sito Expo, le sue zone d’acqua, col Naviglio Grande e con la Darsena di Milano.
Abbandonata l’idea della navigabilità questa decantata via d’acqua è diventata un canale di cemento che ha fatto saltare la mosca al naso agli abitanti delle zone attraversate che si sono decisamente opposti anche a questa soluzione più economica della prima ma alquanto devastante. La mobilitazione degli abitanti e dei comitati di cittadini contro il canale è assolutamente giusta; esso modifica in peggio tre parchi (Pertini, Trenno, e delle Cave) tagliandoli in due e attraversando anche zone agricole e aree inquinate mai bonificate del Gallaratese e di via Bisceglie.
Al momento dell’assegnazione a Milano dell’Expo 2015 sono stati collegati a questo evento grandi progetti urbanistici-edilizi (Pirelli-Bicocca; ex Falk; ex Alfa Romeo di Arese; Portello; ex Magneti-Marelli; ex Carminati-Toselli; Santa Giulia; City Life; Città della Moda; scalo Farini; etc.), alcuni dei quali sono già stati realizzati e altri sono ancora in fase di realizzazione.
Nei Comuni del nord-ovest e a Milano sono però sul nastro di partenza altre vaste operazioni tendenti a trasformare aree verdi ed agricole, aree industriali già dismesse o attive che si vogliono dismettere, in aree edificabili per la residenza di lusso, alberghi, centri commerciali e uffici. Operazioni di speculazione immobiliare recepite, nel nome di Expo, nelle previsioni dei Piani di Governo del Territorio (PGT) in formazione, già adottati o approvati come quelli di Milano, Bollate, Rho, Garbagnate, per esempio.
A questo punto non posso non citare quello che sta avvenendo sulle aree dell’ex Alfa Romeo di Arese, Garbagnate, Lainate e Rho (2,4 milioni di mq) ormai di proprietà di società immobiliari, anche straniere, fra le quali ancora la EUROMILANO e Brunelli. Su queste aree, “l’accordo di programma” stipulato tra le proprietà, i Comuni di Lainate ed Arese, la Provincia di Milano e la Regione Lombardia (con Formigoni ancora Presidente) da a Brunelli la possibilità di costruire il centro commerciale più grande d’Europa, pari a circa 77 mila mq di superficie lorda di pavimento e agli altri proprietari, alberghi, attività ludiche, uffici e abitazioni al posto dei capannoni industriali ancora esistenti ma vuoti.
Il Piano di Governo del Territorio (PGT) del capoluogo lombardo, benché revisionato e modificato in alcuni suoi contenuti dalla Giunta Comunale (GC) arancione di Pisapia, mantiene inalterato il suo carattere originario, voluto dall’ex Sindaco di centrodestra, Letizia Moratti, che è quello di essere un piano fatto su misura di tutto ciò che ruota intorno ad Expo.
Esso è un modello di piano sempre sognato dai liberisti più sfrenati, divenuto realtà. E’ insomma un “non piano” dove i tanti vituperati “lacci e laccioli” alla proprietà privata dei suolo sono stati tolti, nonostante alcuni limiti e riduzioni alla edificabilità introdotti dalla GC arancione.
Per la verità, già ci aveva pensato il solito Formigoni a mettere a loro agio i ghiottoni della rendita fondiaria urbana, con la legge regionale n. 12 del marzo 2005 sul governo del territorio, consegnando nelle loro mani questo “governo”.
La legge citata ha sancito giuridicamente tre principi fondamentali che sono delle vere e proprie bombe ad orologeria poste per distruggere il piano urbanistico comunale generale.
1. I tre elaborati del PGT (il Documento di Piano, il Piano dei Servizi, il Piano delle Regole) sono dichiarati “flessibili” e “sempre modificabili” ogni volta che le circostanze (leggi, “richieste dei poteri forti dell’economia di mercato”) lo esigono.
2. A tutti i Comuni viene data la facoltà di applicare un indice di edificazione di fondo su tutte le aree, uguale per tutte le proprietà (la cosiddetta “perequazione urbanistica”), comprese le aree destinate ai servizi pubblici e al verde pubblico, con la sola esclusione dei parchi sovraccomunali esistenti e della aree agricole. Si riconosce così il principio che tutte le aree sono edificabili “per natura”, come se il suolo, insieme alle sue proprietà fisiche, chimiche, geologiche e biologiche, avesse connaturata anche quella della “edificabilità”, assolutamente non visibile e sconosciuta perfino ad un potentissimo microscopio. La “perequazione” permette alla proprietà privata di un qualsiasi suolo di avere quote di volume che si possono costruire altrove o comprare e vendere come una qualsiasi merce o titolo di Borsa.
3. Gli strumenti decisionali principali atti a stabilire cosa si può fare su un terreno o su una parte ben definita della città o del territorio, diventano gli “atti negoziali”, gli “accordi di programma” tra gli esecutivi del governo pubblico e i proprietari delle aree interessate (la cosiddetta “urbanistica contrattata”). Questi accordi possono anche diventare “varianti automatiche” alle previsioni dei PGT vigenti.
Il PGT di Milano anche con Pisapia, applica queste tre scelte di fondo (anche se quella della “perequazione” è una facoltà non un obbligo di legge) delineando una città con molti grattacieli, dove le identità storico-culturali specifiche vengono ridotte o perse per far posto alle forme globalizzate e de-territorializzate di una metropoli anonima e plastificata, tipo New York.
Se infatti è vero che i 500 mila nuovi abitanti previsti dal PGT della Moratti sono stati ridotti a 155 mila da Pisapia, è anche vero che gli indici di edificazione previsti dal piano sono più elevati degli esistenti in molte zone della città e ciò può dal luogo a modifiche del tessuto urbano mediante “accordi di programma” non esattamente prevedibili e quantificabili. Inoltre il PGT riconosce un incremento del 15% della volumetria per chi attua interventi di riqualificazione dell’esistente in linea con le regole del risparmio energetico e, per chi costruisce anche case a basso costo, l’incremento può addirittura essere pari a quasi tre volte l’indice di edificazione previsto: 1mq/mq al posto di quello normale pari a 0,35mq/mq.
Infine questo “non piano” prescinde totalmente da un quadro di riferimento più vasto per la pianificazione urbanistica, come se Milano non fosse organicamente inserita in una grande conurbazione urbana, di cui costituisce il centro più denso e concentrato, fonte principale degli squilibri sociali ed ambientali di un’area metropolitana milanese con più di 5 milioni di abitanti.
Con Expo 2015 e il PGT di Milano il centrosinistra e il centrodestra, hanno affidato il futuro della città a Ligresti, Zunino, Cabassi, Tronchetti Provera, Caltagirone, Unicredit, Intesa San Paolo, Unipol e altri bei nomi della speculazione immobiliare e finanziaria, lasciando ai ceti sociali non capitalisti lavoro precario, caporalato e aria inquinata e molto, molto asfalto e cemento.
Un futuro non privo della presenza ingombrante, all’ombra della Madonnina, della ‘ndrangheta, della camorra e della mafia, interessate agli appalti e all’imponente giro d’affari che ruota intorno all’Expo e ai grandi progetti milanesi, provinciali e lombardi.
A proposito di futuro, l’accordo Expo 2015 fra le “parti sociali” che metteranno concretamente in piedi l’evento è l’esempio più evidente di cosa intendono i capitalisti, i loro lacchè politici e i sindacati concertativi quando parlano di “riforma del lavoro”.
Per chi faticherà nel sito sono infatti previsti modi di assunzione a tempo selvaggiamente parziale.
Stipendi da 516 euro mensili e assunzioni a giornata: massima flessibilità su orari, turni di lavoro e mansioni. Salari variabili pure in relazione alla produttività del lavoro non solo fornita ma anche richiesta.
L’accordo Expo 2015 è stato sottoscritto da Confindustria, dalle tre Confederazioni sindacali CGIL-CISL-UIL, dalla AC di Milano guidata dal Sindaco Giuliano Pisapia e dall’associazione “Alleanza delle Cooperative”, che vede insieme, amorevolmente affratellate, la Lega Coop e le Cooperative “bianche” di area Comunione e Liberazione-Compagnia delle Opere.
Questo è il modello di contratto sul lavoro che si vuole esportare su tutto il territorio nazionale con lo strumento del “contratto territoriale-locale”, che sancisce la fine del Contratto Nazionale.
Come si vede, la massima flessibilità a sostegno della redditività dell’impresa privata nel capitalismo globalizzato coinvolge non solo il lavoro ma anche le trasformazioni territoriali e i loro cambiamenti nell’uso delle aree.
4. Per un governo metropolitano: la Città Metropolitana
Dopo lo scenario che ho appena delineato, mi risulta assai difficile ignorare, come fanno in molti nella sinistra anti-capitalista e perfino fra i comunisti, la necessità e l’urgenza di istituire la Città Metropolitana Milanese (CMM).
Sull’esistenza di un’area metropolitana milanese ovvero, di un’ insieme di territori che hanno fra di loro relazioni strutturali di una certa consistenza, che riguardano l’economia, il lavoro, lo studio la cultura e financo la continuità fisica degli insediamenti umani anche se appartengono a Comuni diversi, non vi sono dubbi.
Come non vi dovrebbero essere dubbi sul fatto che l’area metropolitana sia prevalentemente costituita dai territori della Provincia di Milano e dalla Provincia di Monza e Brianza anche se, come ha dimostrato l’urbanista, prof. Giuseppe Boatti, nel suo libro, “L’Italia dei Sistemi urbani”, pubblicato da Mondadori Electa a Milano nel 2008, quest’area è molto più estesa coinvolgendo territori di confine di altre Provincie.
Tra l’altro, la Provincia di Monza e Brianza non dovrebbe nemmeno esistere secondo i dati sul pendolarismo per motivi di lavoro e di studio che ritroviamo nel libro citato, dove risulta chiaro che essa non è separabile dalla Provincia di Milano.
L’istituzione della Provincia di Monza e Brianza non ha quindi nulla di scientifico e appare essenzialmente motivata dalla volontà di creare nuovi posti di potere politico-amministrativi, ben remunerati, nel governo pubblico del territorio a favore soprattutto di leghisti e centrodestra, con un centrosinistra che certamente non si è “stracciato le vesti” per l’ennesimo sperpero di soldi pubblici.
Nell’area metropolitana milanese ridotta (composta solamente dalle due Provincie di Milano e Monza-Brianza) la concentrazione di circa 345 mila imprese e poco meno di 4 milioni di residenti produce ogni giorno lavorativo circa 2milioni di viaggi da parte delle persone, che per il 90% avvengono all’interno di quest’area, confermando i legami esistenti fra le loro parti.
Gli effetti sociali ed ambientali negativi di questa enorme concentrazione e conurbazione continua, hanno una dimensione sovraccomunale che, per essere affrontata con successo, richiede, insieme ad una pianificazione territoriale sostenibile di “area vasta” (non solo programmatica ma anche operativa), un corrispondente livello pubblico di governo del territorio, sovraccomunale e metropolitano.
Del resto tutte le Provincie sono in corso di abolizione e, francamente, non hanno mai dato grandi prove della loro esistenza.
Tutte le scelte storiche della Provincia di Milano sono state rivolte, attraverso la politica dei “grandi progetti” (insediamenti prevalentemente terziari sempre concentrati in Milano; nuove infrastrutture della mobilità soprattutto autostradale), a valorizzare il patrimonio immobiliare del grande capitale finanziario, consolidando l’assetto piramidale dei valori della rendita fondiaria urbana, assai più elevati nelle zone centrali dell’area metropolitana milanese e degradanti verso la periferia.
I poteri istituzionali della Provincia di Milano in materia di pianificazione urbanistica, sono stati sempre assai vaghi ed inconsistenti e il processo di riforma amministrativa, iniziato con la legge nazionale n. 142 del 1990, è finito praticamente con la legge regionale lombarda n. 12 del marzo 2005.
Se con la legge 142/1990 alla Provincia si riconoscevano alcuni timidi spazi di decisione autonoma anche in materia di previsioni urbanistiche riguardanti la distribuzione territoriale di grandi insediamenti residenziali e produttivi, con la l.r. 12/2005 questi spazi sono stati praticamente chiusi e il Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale (PTCP) è ormai uno strumento urbanistico totalmente subordinato alle scelte del Comune di Milano e della Regione Lombardia.
La Provincia inoltre, ha una scarsa capacità autonoma di spesa: per i mezzi finanziari dipende dallo Stato e dalla Regione e sotto il profilo dell’autonomia finanziaria è certamente più debole degli stessi Comuni in particolare, di Milano, che hanno entrate proprie.
L’area metropolitana milanese è sempre stata governata soprattutto dalla Regione Lombardia, dal Comune di Milano e da potenti “tecnostrutture” (ATM, FFS, FNM, società autostradali, ANAS, Consorzi, Agenzie, ecc.) semi-private o privatizzate.
L’amministrazione regionale e quella comunale del capoluogo lombardo sono oggi in mano, la prima, ad una coalizione di centrodestra con Maroni Presidente e la seconda, ad una coalizione di centrosinistra, ma entrambe occupano insieme posizioni di potere nelle tecnostrutture che sfuggono ad ogni controllo da parte delle assemblee pubbliche elettive, ma non a Comunione e Liberazione e alla Compagnia delle Opere.
Questo “sodalizio”, impugnando la bandiera della “privatizzazione” come se fosse una mazza ferrata, sta frantumando e dissolvendo in mille rivoli il governo pubblico del territorio metropolitano, con una politica urbanistica basata esclusivamente su “atti negoziali” diretti coi poteri forti del regime immobiliare privato: politica istituzionalizzata dalla l.r. 12/2005.
La Provincia insomma, oggi assomiglia a quel “vaso di coccio fra vasi di ferro” di manzoniana memoria, dove sono in atto tendenze concrete rivolte a dividere e frantumare perfino il suo ambito territoriale di governo.
Mi riferisco non solo alla istituzione della nuova Provincia della Brianza con Monza capoluogo, ma all’esistenza di altre spinte, tenute vive soprattutto dalla Lega di Salvini, verso la costituzione di nuove Province o aggregati di Comuni. Se questa frantumazione avverrà si realizzerà nei fatti l’ipotesi di destra della “Grande Milano”, teorizzata nel 2000 dal “Documento di Inquadramento” dei programmi integrati d’intervento della “giunta Albertini”.
In conclusione l’area metropolitana è oggi governata da un insieme di poteri singoli accomunati da una “visione aziendale”, dove prevale la competitività e la redditività dell’impresa privata sugli interessi generali della collettività, come si può agevolmente dedurre dai documenti fin qui prodotti relativi al Piano Territoriale Regionale (PTR), dal PTCP del Presidente della Provincia Podestà e dal PGT del Comune di Milano.
Questo tipo di governo metropolitano fondato sull’urbanistica contrattata tra il pubblico e il privato, che concepisce il piano come un “collage” di singoli atti negoziali con la proprietà privata immobiliare, rende da una parte inutile il piano programmatico e generale, che infatti è diventato per legge “flessibile” e “sempre modificabile” e, dall’altra, rende il governo pubblico del territorio sempre più debole ed inefficiente, incapace di costruire, insieme ai Comuni, un progetto organico e globale di eco-sviluppo per tutta l’area metropolitana.
L’istituzione della CMM è quindi per melo strumento pubblico, la dimensione ottimale per governare in maniera unitaria ed organica l’area metropolitana milanese, superando visioni ristrette puramente municipalistiche e subordinando gli interessi del regime immobiliare privato agli interessi della collettività. Essa permetterebbe di:
– abolire e sostituire le Province di Milano e Monza-Brianza mantenendo le loro dimensioni territoriali, che potranno ampliarsi col tempo ma non restringersi;
– impostare un programma di eco-sviluppo veramente policentrico ed equilibrato, capace di coinvolgere con una co-pianificazione anche le diversità e le risorse locali marginali;
– competere con altre “aree forti” europee, non solo sul piano economico ma anche e soprattutto, sul piano della qualità sociale ed ambientale dell’habitat umano.
Si potrebbe avere quindi nell’area metropolitana due livelli di governo: la Città Metropolitana e i Comuni che ne fanno parte. Il “Consiglio” la “Giunta” e il “Sindaco” metropolitani sarebbero gli organi istituzionali della CMM; Consiglio e Sindaco dovrebbero essere eletti con elezioni a suffragio universale.
La CMM, oltre ad avere le funzioni amministrative delle Province sopresse dovrà assumerne altre provenienti in parte dalla Regione e in parte dai Comuni, acquisendo anche un certo grado di autonomia finanziaria, almeno pari a quella di un Comune.
La CMM deve avere tutti gli strumenti utili per diventare l’unico soggetto pubblico destinato a governare, programmare e attuare la struttura portante dell’area metropolitana milanese (sistema infrastrutturale della mobilità, sistema ecologico-ambientale, grandi insediamenti), sia pure con la necessaria concertazione e co-pianificazione con gli altri livelli di governo del territorio (Comuni, Regione, Stato) dovuta al ruolo regionale, nazionale, europeo e per certi versi, internazionale, che quest’area ha, pur essendo oggi in crisi.
L’istituzione della CMM comporta lo scioglimento del Comune di Milano e la contemporanea istituzione di nuove municipalità corrispondenti alle attuali zone di decentramento. Essa comporta anche la suddivisione dell’area vasta in “circondari”, con compiti di pianificazione intercomunale (Piani d’Area) non volontari ma obbligatori.
Ai Comuni rimarrebbero tutte le funzioni strettamente inerenti al livello locale: la pianificazione urbanistica di attuazione, la realizzazione, la gestione e l’erogazione dei servizi comunali ai cittadini, etc..
Sono convinto che l’ipotesi di “area vasta” per la CMM sia in grado di superare gli interessi puramente locali di molti comuni dell’hinterland, mentre qualsiasi altra ipotesi, come quella della “Grande Milano”, tesa a incorporare nei confini del capoluogo lombardo i Comuni della prima e seconda cintura, mantenendo inalterata l’attuale municipalità di Milano, sarebbe deleteria per il futuro dell’area metropolitana e incontrerebbe una ferma opposizione soprattutto da parte dei Comuni di media e piccola dimensione demografica.
Ritengo anche che, con l’istituzione di “circondari speciali” rivolti a riconoscere dei gradi in più di autonomia a certi ambiti territoriali dove appare consolidata l’integrazione fra varie realtà comunali, si potrebbero superare o mettere in crisi, le tendenze volte a disgregare l’attuale territorio provinciale.
5. Linee guida per un programma di eco-sviluppo per l’area metropolitana milanese
Uno dei nodi politici che occorre sciogliere per mettere in piedi nell’area metropolitana milanese un vasto movimento di lotta per il lavoro e per la conquista di condizioni sociali ed ambientali di vita più avanzate e civili, è quello della costruzione di un programma di eco-sviluppo per quest’area. Un programma che metta insieme, in un fronte unitario, la classe lavoratrice e tutti quei ceti sociali intermedi calpiti dalla crisi economica ed ambientale.
Un programma di lotta o se volete, un progetto, capace di delineare un’alternativa alla trasformazione territoriale ed urbana privatistica che sta andando avanti, ormai da molti anni, nella indifferenza, purtroppo, della maggioranza della popolazione.
Come si è visto nelle precedenti pagine, la trasformazione dell’area metropolitana milanese è egemonizzata da ristrette oligarchie del capitale finanziario organicamente intrecciato con le grandi società della speculazione immobiliare privata. Società tese ad appropriarsi della rendita fondiaria urbana che si è accumulata sulle aree grazie alle trasformazioni d’uso del suolo con funzioni assai più redditizie rispetto agli usi industriali, agricoli, per la residenza economica-popolare e per i servizi pubblici ed attrezzature collettive.
Per eco-sviluppo intendo, in rapida sintesi, un insieme organico di proposte tese a rimuovere tutti quegli ostacoli che impediscono:
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il pieno conseguimento per tutte le persone dei diritti ad un lavoro stabile, ad un salario equo e dignitoso capace di affrontare i costi della vita senza patemi d’animo e ad uno Stato Sociale garantito e pubblico;
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il superamento di uno sviluppo economico inteso come crescita quantitativa, senza limiti fisici e regole, dello sfruttamento e dello spreco incessante di risorse naturali limitate, compreso il suolo;
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una qualità della vita di buon livello nelle città e sul territorio, in un ambiente sano, pulito e sicuro, ricco di occasioni per lo sviluppo delle relazioni umane e con la natura e dotato di adeguati spazi per i beni comuni.
Tradurre l’eco-sviluppo nella complessa realtà dell’area metropolitana milanese vuol dire coinvolgere necessariamente una pianificazione territoriale di area vasta che dovrebbe essere incentrata sui seguenti obbiettivi di fondo:
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Aumento delle opportunità di un lavoro stabile e sicuro, puntando sullo sviluppo di attività industriali ecologicamente innovative, sia come processi produttivi, sia come prodotti.
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Riqualificare le condizioni sociali ed ambientali di vita in tutto il sistema insediativo metropolitano, con un progressivo processo di “decentramento” anche delle funzioni terziarie da Milano e con una valorizzazione “policentrica” del sistema.
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Interventi mirati sul sistema della mobilità esistente, per diminuire la congestione del traffico veicolare privato e i livelli d’inquinamento da esso prodotti, puntando decisamente sulla “cura del ferro” e sullo sviluppo del trasporto pubblico, soprattutto all’esterno di Milano.
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Un piano metropolitano che affronti “l’emergenza casa” per i ceti sociali e le famiglie a basso reddito, con un rilancio dell’edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata e agevolata, prevedendo anche lo sviluppo di esperienze di auto-costruzione e quote adeguate per persone e famiglie straniere in regola con le leggi italiane.
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Aumentare il livello quantitativo e qualitativo delle “libertà urbane” ovvero della dotazione di spazi e strutture per i “beni comuni” (verde e parchi, istruzione, informazione, cultura, spettacolo e sport, sanità, assistenza, ecc.), comprese le strutture per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti.
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Recuperare, valorizzare e immettere nelle reti turistiche e culturali le identità specifiche del locale, sia artificiali (centri storici, antiche cascine e ville monumentali, antichi nuclei edilizi ed edifici produttivi dismessi di valore ambientale, ecc.) che naturali (verde agricolo e parchi sovraccomunali, fontanili, corsi d’acqua, ecc.).
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Ri-naturalizzare il territorio e le città ricercando un decente equilibrio tra le forme artificiali e le forme naturali, tra la superficie impermeabile e quella permeabile, limitando con precise regole, parametri e indici di sostenibilità, il consumo del suolo ai fini edificatori.
Questi obbiettivi schematici e generali, che non ne escludono altri, andrebbero certamente approfonditi. Io qua, per lasciare spazio ad una necessaria discussione, mi limito a fare alcune considerazioni, altrettanto schematiche, su di esse.
L’area metropolitana negli ultimi 35 anni ha subito un vasto processo di de-industrializzazione che è ancora in atto, come sperimentano giornalmente sulla propria pelle lavoratori e lavoratrici. Questo processo, che ha colpito in profondità la struttura occupazionale di Milano, non ha risparmiato e non risparmia nemmeno altri comuni, in particolare, quelli di più antica industrializzazione collocati prevalentemente nell’arco est-nord-ovest del territorio provinciale.
Naturalmente queste aree ed altre in corso di dismissione, costituiscono oggi il “piatto forte” intorno al quale ruotano gli appetiti speculativi di imprese e società immobiliari anche straniere del capitale finanziario che le hanno acquisite. Come sempre l’iniziativa privata fa il suo mestiere, cercando di sfruttare a suo esclusivo vantaggio la posizione privilegiata di queste aree, per lo più centrale, all’interno dell’area metropolitana, dove si è accumulata una grande quantità di rendita differenziale, solo in parte già rastrellata con interventi edilizi realizzati.
Le aree non ancora riconvertite dovrebbero quindi essere riutilizzate per superare lo squilibrio tra attività manifatturiere ed attività terziarie, per ri-naturalizzare il territorio fortemente cementificato, per affrontare “l’emergenza casa” e per incrementare quelle che ho chiamato “libertà urbane”.
Per quel che riguarda l’obbiettivo 1, il rilancio della produzione industriale è urgente in quanto le attività terziarie, nettamente maggioritarie come numero di posti lavoro, non sono in grado, in tempi medio-lunghi, di assicurare una stabilità del lavoro e di assorbire tutti i posti persi nel settore secondario e nel settore primario. Dal confronto fra i dati del censimento Istat del 1991 e quello del 2011, sull’industria e commercio, risulta che in questo periodo, nonostante la crescita dei posti di lavoro nel terziario, il numero dei posti complessivi esistenti in tutta la provincia (industria + terziario + agricoltura) sono diminuiti. Il recupero registrato nel periodo 2001-2005 è dovuto, per la maggior parte, alla emersione e regolarizzazione del lavoro degli stranieri che già lavoravano in maniera sommersa.
Del resto oggi anche le attività terziarie mostrano preoccupanti segnali di stagnazione e crisi e mi è difficile pensare che l’area metropolitana milanese possa riacquistare un ruolo trainante nello sviluppo sostenibile del nostro paese, come “area forte” europea, senza un riequilibrio tra il settore secondario e quello terziario. Il rilancio industriale comunque, oltre ad essere impostato sulla trasformazione qualitativa di “sistema” e di “prodotto” dei settori occupazionali tradizionali, dovrebbe essere incentrato sulla ricerca e innovazione ecologica, sulla formazione e qualificazione del lavoro, sull’informazione e commercializzazione dei prodotti, in grado di sviluppare attività manifatturiere capaci di aumentare :
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gli impianti tecnologici per la fornitura di energia da fonti rinnovabili (sole, vento, biomasse, idrogeno, ecc.);
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il recupero e il riciclo di acque già utilizzate, da riutilizzare per usi non potabili (doppio impianto delle acque nelle abitazioni, nelle attività agricole di irrigazione, ecc.);
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la realizzazione di oggetti e beni materiali ricavabili dalla trasformazione di biomasse (frumento, mais, colza, ecc.), compresi i biocarburanti;
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il recupero e il riciclo dei rifiuti con impianti che producono materiali da utilizzare in varie attività, consentendo con la loro vendita di ridurre progressivamente la “tassa sui rifiuti”, riducendo nello stesso tempo, con la loro tecnica avanzata, le emissioni di possibili sostanze inquinanti nell’atmosfera e la formazione di residui;
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la riconversione ecologica dei mezzi del trasporto pubblico su gomma e di quelli privati per le merci, iniziando dai mezzi pubblici;
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la produzione di nuovi materiali biodegradabili, per il risparmio energetico, per tipi edilizi standardizzati e per sistemi di climatizzazione naturale: materiali e sistemi inerenti allo sviluppo della bioarchitettura.
La pianificazione urbanistica di “area vasta” dovrebbe prevedere l’attuazione di eco-distretti industriali, raggruppando imprese ed attività economiche in determinati punti del territorio metropolitano in modo tale che ognuna di esse possa utilizzare, per la propria produzione, merci e prodotti di scarto delle altre, fonti energetiche rinnovabili comuni, acque di scarico depurate e riciclate in impianti comuni con l’ausilio di microrganismi, magari con la formazione di fanghi che si possono usare come fertilizzanti in agricoltura. In questi eco-distretti si può pensare anche alla dotazione di sistemi tecnologici comuni per l’eliminazione di emissioni nocive nell’atmosfera e per il recupero di sostanze in sospensione; si può pensare di utilizzare le fonti energetiche per l’industria anche per la produzione di acqua calda ed il riscaldamento ad uso civile.
Le aree della ex Alfa Romeo di Arese, Garbagnate, Lainate, Rho, dovrebbero diventare un caposaldo di riferimento per questi eco-distretti industriali su tutta l’asta del Sempione.
In questo quadro sintetico di rilancio della produzione di beni materiali non si può dimenticare la necessità di far crescere l’agricoltura biologica, che oggi coinvolge solamente l’1,2 % della superficie coltivata nella Provincia.
Solo con una prospettiva di innovazione di queste genere, si può sperare che la competitività qualitativa dell’apparato produttivo dell’area milanese aumenti, incrementando anche le occasioni di un lavoro stabile.
Per gli obbiettivi 2 e 3, abbiamo visto che in Milano, sono concentrati circa il 50% dei posti lavoroesistenti in tutta la Provincia; percentuale che diventa superiore al 51%, considerando solo le attività terziarie (commercio, direzionale pubblico e privato, servizi alle imprese, trasporti e comunicazioni, informazione e cultura, istruzione, università e ricerca, ecc.). Vista l’assoluta preminenza delle attività terziarie sulle attività industriali nel territorio provinciale, la concentrazione di più della metà delle prime in Milano riduce gli altri Comuni in uno stato di dipendenza occupazionale dal capoluogo, con effetti disastrosi anche sul fronte della mobilità. Anzi, questa concentrazione, in un’area così ristretta, è la prima causa strutturale dell’intensa mobilità pendolare delle persone e della congestione del traffico sulle principali strade radiali metropolitane che conducono a Milano.
Su quasi 1 milione di non residenti che dai Comuni esterni entrano ogni giorno a Milano, quasi il 70 % entra su mezzo privato, mentre purtroppo i pendolari che usano il mezzo pubblico sono in riduzione.
Diminuire questa enorme concentrazione decentrando all’esterno, sia in poli regionali che in altri poli metropolitani, una parte delle funzioni terziarie del capoluogo è quindi una necessità per decongestionare Milano.
Il decentramento è anche un utile strumento per riorganizzare, in maniera “policentrica”, il territorio metropolitano, riqualificando periferie degradate e Comuni dormitorio, riducendo, nello stesso tempo, il numero degli spostamenti pendolari.
La riorganizzazione “policentrica” del sistema degli insediamenti metropolitani va comunque sostenuta con la rottura della tradizionale ed inefficiente “struttura radiocentrica” del sistema della mobilità, tutta incentrata su Milano e rendendo competitivo, sia come costo che come qualità del servizio, il trasporto pubblico rispetto al trasporto privato con una intensa “cura del ferro”.
Infatti, lo sviluppo “Milano-dipendente” di tutta l’area metropolitana ha concentrato nel solo capoluogo lombardo tutte le linee del metrò, salvo qualche propaggine versol’esterno. Quasi tutti gli investimenti sul trasporto pubblico sono stati assorbiti dal Comune di Milano lasciando ai Comuni esterni solo le briciole. Nonostante ciò, la dotazione di linee su ferro suburbane di Milano appare lontanissima dalle città europee: 180 Km contro i 3000 Km di rete a Berlino, i 1.500 Km di Francoforte e i 1.400 di Parigi.
Occorre quindi incrementare il trasporto pubblico soprattutto all’esterno di Milano, aumentando anche i collegamenti trasversali, viari e su ferro, fra i Comuni.
A mio parere le priorità dovrebbero essere queste:
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potenziare le linee ferroviarie esistenti separando quelle nazionali da quelle regionali e locali, trasformando queste ultime in un “servizio metropolitano” cadenzato, memorizzabile, frequente, diffuso e affidabile, esteso a tutto l’arco della giornata;
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promuovere la realizzazione di “poli d’interscambio” gomma/ferro, sia per le persone che per le merci (per queste ultime esclusivamente ai margini dell’area metropolitana), collegati a nuove stazioni ferroviarie, nei punti strategici dove si incrociano le linee del servizio ferroviario regionale con le principali strade extraurbane e dove si possono servire più Comuni;
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promuovere l’attuazione di linee metropolitane extraurbane, anche leggere (metro-tranvie), per quei gruppi di comuni che non possono essere serviti dalla ferrovia; linee collegate con stazioni del ferro ed eventuali linee della MM;
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integrare in maniera organica le linee del trasporto pubblico su gomma con quelle su ferro realizzando sedi protette, anche a costo di un drastica riduzione della superficie carreggiabile per i veicoli privati;
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promuovere interventi sulla rete stradale attuale, tesi a separare il traffico locale da quello a più lunga gittata in prossimità delle città e a potenziare i collegamenti trasversali (non convergenti su Milano) fra i comuni, sfruttando, fin dove è possibile, strade già esistenti;
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realizzare un collegamento ferroviario tra l’aeroporto di Malpensa e il “Passante”, abbandonando definitivamente la costruzione della nuova MM4 per l’aeroporto di Linate, che potrebbe essere raggiunto agevolmente col potenziamento di una linea tranviaria esistente;
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realizzare un sistema di percorsi ciclabili capaci di mettere in rete i maggiori servizi pubblici, i luoghi di lavoro e il sistema del verde e ricercare una maggiore integrazione tra la bici e i mezzi di trasporto pubblici,
Per “l’emergenza casa” (obbiettivo 4), il nostro paese, secondo dati desunti dagli “Annuari Eurostat”, spende per l’edilizia residenziale sociale solo lo 0,2% della spesa totale, rispetto al 3,8% della media europea, nonostante che la popolazione residente italiana che abita in alloggi sovraffollati sia pari circa il 32% dei residenti totali mentre la media europea è di circa il 19%.
L’emergenza investe principalmente le famiglie a basso reddito che vivono in condizioni di coabitazione e sovraffollamento, gli sfrattati e i senza casa che non sanno dove andare, le nuove famiglie della giovane classe lavoratrice e le convivenze non tradizionali.
Alla “emergenza casa” appartiene a tutti gli effetti anche la domanda di abitazioni che proviene dagli immigrati stranieri regolari a cui è dovuta una risposta che una città civile non può ignorare. Un’altra componente importante del fabbisogno abitativo, che richiede una risposta urgente, è costituita dalla popolazione universitaria fuori sede ( circa 40.000 persone).
Per soddisfare il notevole fabbisogno di Edilizia Residenziale Popolare (ERP) occorre elaborare un “Piano Casa”, di livello metropolitano coinvolgendo tutti i Comuni dell’area metropolitana in quanto Milano non è nemmeno in grado di far fronte integralmente al proprio fabbisogno.
Questo piano dovrebbe rispettare alcuni criteri di sostenibilità idonei ad accogliere nei Comuni l’ERP senza traumi urbanistici.
Il primo criterio è quello della sua coerenza con le scelte urbanistiche generali contenute in tutti gli obbiettivi di eco-sviluppo che ho citato.
Il secondo criterio è quello della presenza, nei Comuni da scegliere, di linee del trasporto pubblico in grado di assicurare spostamenti verso i luoghi di lavoro, di studio e dei grandi servizi, in particolare, verso Milano con tempi non superiori ai 30-35 minuti.
Il terzo criterio è quello della presenza, nei comuni scelti, di una densità abitativa media non superiore ai 3000 ab./Kmq, tenendo presente che tale densità a Milano è pari a 7000 ab./Kmq, e che la densità media provinciale è di 1900 Km2.
Il quarto criterio riguarda invece la possibilità di realizzare case popolari all’interno di un mix di funzioni, utilizzando ambiti territoriali già urbanizzati, per evitare ghetti monofunzionali per cittadini e cittadine di serie B.
Gli indirizzi di fondo delle pubbliche istituzioni chiamate a dare una risposta sistematica all’emergenza casa, dovrebbero essere i seguenti:
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rilanciare la realizzazione di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata da dare in affitto con canoni sociali commisurati alla loro incidenza sul potere d’acquisto di salari e redditi, la sola che può rispondere alle esigenze delle famiglie povere o vicine alla soglia di povertà;
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evitare la vendita degli immobili residenziali pubblici, promuovendo invece interventi di manutenzione, di ristrutturazione e di ammodernamento sugli edifici in stato di degrado e controllare le attuali condizioni famigliari degli inquilini, per valutare se essi hanno ancora i requisiti di legge per occupare un alloggio pubblico;
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acquisire al patrimonio pubblico e ristrutturare vecchi edifici degradati, ubicati anche in zone centrali, da dare in affitto a rotazione, a famiglie sfrattate in attesa di una sistemazione definitiva o in difficoltà economiche;
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stimolare la formazione di cooperative edilizie a proprietà indivisa, per la costruzione di alloggi in affitto, con sgravi fiscali, finanziamenti agevolati, oneri di urbanizzazione ulteriormente ridotti rispetto agli attuali, dando a loro una priorità assoluta nella concessione di aree relative ai piani per l’ERP;
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prevedere nei bandi di assegnazione delle aree ERP alle cooperative a proprietà divisa e a imprese edilizie private, una quota minima di alloggi in affitto non inferiore al 30% del totale, da assegnare a famiglie indicate dalle istituzioni pubbliche scelte fra quelle aventi tutti i requisiti per l’assegnazione di un alloggio pubblico, con possibilità di riscatto dopo sei anni;;
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sfruttare tutte le possibilità di convenzionare affitti e prezzi di vendita da parte dei Comuni negli interventi di edilizia residenziale privata; possibilità previste nelle leggi n. 10/1977 e n. 457/1978 e quasi sempre trascurate;
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incrementare gli interventi di autocostruzione prevedendo apposite aree e tipologie edilizie facilmente realizzabili nel piano casa decennale;
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assicurare punteggi elevati nei bandi di assegnazione delle aree ERP, agli interventi edilizi di bioarchitettura e agli operatori che utilizzano fonti energetiche rinnovabili e sistemi edilizi innovativi di risparmio energetico;
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prevedere negli interventi di recupero, risanamento e ristrutturazione del patrimonio residenziale degradato nei centri storici l’obbligo di una convenzione tra pubblici poteri e proprietà privata che dia serie garanzie per la tutela e la salvaguardia sociale degli inquilini che vi abitano in affitto, impedendo che questi interventi continuino ad essere un facile strumento per sfrattare ed espellere intere famiglie dalle aree centrali delle città;
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prevedere esplicitamente una quota adeguata di ERP commisurata ai fabbisogni abitativi di persone e famiglie straniere in regola con le leggi italiane.
Sull’obbiettivo 5 ho poco da aggiungere: si tratta di assicurare una adeguata dotazione quantitativa e qualitativa di spazi e strutture per servizi pubblici e beni comuni a tutte le parti dell’area metropolitana milanese dando ai cittadini e alle cittadine, indipendentemente dal luogo dove abitano, le stesse possibilità di fruizione. Questi spazi e strutture, che amo definire “libertà urbane”, perchè costituiscono, con una loro adeguata presenza, il “sale” di un vero vivere civile, sono oggi carenti e mal distribuiti sul territorio, sottoposti anch’essi ad una intensa privatizzazione.
La insufficiente dotazione e gli squilibri distributivi riguardano principalmente: asili nido e scuole materne; scuola media superiore e istituti professionali; strutture per la prevenzione sanitaria delle malattie, per la cultura, lo spettacolo, lo sport di massa e il gioco; spazi e strutture per l’aggregazione giovanile, l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri; verde pubblico e parchi urbani.
Purtroppo l’incredibile legge regionale n. 12/2005, sul governo del territorio, ha tagliato drasticamente la quantità minima complessiva, che i Comuni sono obbligati a rispettare nei propri piani urbanistici, per l’insieme di questi spazi (standard urbanistici), portandola dai precedenti 26,50 mq/ab. della ex legge regionale n. 51/1975 agli attuali 18 mq/abitante, con grande gaudio del regime immobiliare privato. Lo standard citato è comunque un minimo da assicurare alla popolazione; nulla vieta alla politica urbanistica del governo pubblico del territorio di perseguire standard più elevati, in grado di riequilibrare l’attuale squilibrio esistente tra le funzioni pubbliche e quelle private.
A questo proposito non posso dimenticare la questione del verde pubblico a Milano. Il gap verde del capoluogo lombardo nei confronti di altre città europee, che ho già citato, potrebbe essere superato applicando i seguenti indirizzi:
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utilizzare, per la realizzazione del verde pubblico, aree già di proprietà del Comune e di altri enti pubblici; ciò avrebbe una incidenza economica fortemente ridotta per l’assenza dei costi di acquisizione delle aree;
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realizzare aree verdi, col concorso dei privati, in tutti quelle grandi aree di trasformazione urbanistica, assoggettate a piani di attuazione, non ancora progettate o trasformate, stabilendo nelle relative convenzioni o accordi di programma la regola della concentrazione dei volumi edificabili sul 50% delle aree, utilizzando il restante 50%, da cedere gratuitamente al Comune, per la realizzazione di servizi pubblici, verde compreso;
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utilizzare i meccanismi di compensazione della l.r. n. 12/2005 alle rispettive proprietà private che prevedono la possibilità, da parte dei Comuni, di aree in permuta o diritti edificatori sulle aree verdi, da trasferire su altre aree edificabili, in cambio di una loro cessione gratuita al comune;
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vincolo a verde pubblico e successiva realizzazione, su aree ancora libere e strategiche situate nell’arco ovest sud-est di Milano, ai fini della costruzione di una “cintura verde”;
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recupero del verde in aree più centrali del capoluogo mediante operazioni di ristrutturazione urbanistica rivolte a decongestionare il centro e a riportare alla luce i navigli.
Gli obbiettivi 6 e 7 vanno considerati insieme: la valorizzazione delle identità specifiche del locale, sia artificiali che naturali, è organicamente interrelata alla costruzione di“una rete ecologica metropolitana del verde”e allari-naturalizzazione del territorio e delle sue parti urbanizzate.
Perrete ecologica metropolitana del verde, intendo un insieme di quadri paesaggistici, individuati dal piano metropolitano, dove tutti i vari tipi di verde (verde agricolo, aree protette e oasi naturalistiche, parchi extraurbani ed urbani, boschi, fontanili, corsi d’acqua,ecc.) siano interconnessi fra di loro e con centri storici, nuclei edilizi (antiche cascine e vecchi mulini, ville monumentali della campagna, antiche fornaci, ecc.), di valore architettonico, culturale ed ambientale, mediante “corridoi ecologici”.
La costruzione di questa rete ecologica è importante perché permette di superare il semplice vincolo della salvaguardia delle aree verdi, rendendo il loro patrimonio naturale e storico-ambientale, con interventi di recupero a scopi ricreativi, culturali e turistici, fruibile ai cittadini proprio attraverso i corridoi ecologici.
Questi corridoi sono costituiti da strade interpoderali, tratturi di campagna, alzaie lungo canali, coste dei fiumi o corsi d’acqua, trasformati in percorsi ciclabili e pedonali immersi in fasce verdi di varia larghezza che possono arrivare fin dentro la città ed essere utilizzati anche da varie specie di animali.
Ciò non può essere disgiunto da un vasto programma di ri-naturalizzazione del territorio metropolitano, per ristabilire un equilibrio accettabile tra le sue forme artificiali e le sue forme naturali. A tal fine ritengo che sia indispensabile:
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un aumento quantitativo e qualitativo, nelle zone più densamente cementificate, della superficie permeabile e della dotazione di biomasse vegetali, in grado di assicurare appropriate funzioni ecologiche (mitigazione del clima; maggiore ricambio d’ossigeno; assorbimento del rumore e delle polveri fini; meno “ruscellamento” delle acque piovane, ecc.);
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la formazione di nuovi parchi consortili, ( per esempio, il parco dell’Olona fra i comuni di Rho, Pregnana Milanese, Vanzago e Pogliano Milanese), per valorizzare il patrimonio ambientale e naturale esistente nelle aree verdi intercluse fra le zone edificate di più Comuni, che rischiano di ridursi ulteriormente sotto la pressione speculativa degli operatori immobiliari;
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la sistemazione fisica-idrogeologica del territorio, attraverso l’incremento degli interventi di manutenzione, ripristino, bonifica, consolidamento e rimboschimento di suoli fragili e il disinquinamento dei maggiori corsi d’acqua (Seveso, Lambro e Olona, per esempio), con appositi “piani di bacino idrografico” e tecniche naturali (camere di compensazione delle esondazioni, fitodepurazione, ecc.).
Ci sarebbero infine molte altre questioni da esaminare fra le quali spiccano, la crisi della democrazia rappresentativa borghese e la necessità di costruire nuovi strumenti di democrazia sostanziale e di potere popolare da contrapporre alle lobby del capitalismo finanziario e ai loro rappresentanti politici e sindacali. Ma sulla questione del potere mi impegnerò un’altra volta.