Manlio Dinucci
Nell’incontro col premier Letta durante il G8, il presidente Obama «ha chiesto una mano all’Italia per risolvere le tensioni in Libia». E Letta, da scolaro modello, ha tirato fuori dalla cartella il compito già fatto: «un piano italiano per la Libia». Il ministro Bonino, fiera di tanto onore, giura: «Ce la metteremo tutta, la Libia e’ un paese che storicamente conosciamo bene».
Non c’è dubbio. L’Italia la occupò nel 1911, soffocando nel sangue la rivolta popolare, usando negli anni ’30 armi chimiche contro le popolazioni che resistevano, internando 100mila persone in campi di concentramento. E, quando dopo trent’anni perse la colonia, sostenne re Idris per mantenere i privilegi coloniali. Caduto Idris, si accordò con Gheddafi per avere accesso alle riserve energetiche della Repubblica libica ma, quando la macchina bellica Usa/Nato si è mossa nel 2011 per demolire lo stato libico, il governo italiano ha stracciato, col consenso bipartisan del parlamento, il Trattato di amicizia firmato tre anni prima con Tripoli, fornendo basi e forze militari per la guerra.
Una storia di cui essere fieri. Che continua con il piano italiano per la «transizione democratica» della Libia, dove – è costretto ad ammettere lo stesso Consiglio di sicurezza dell’Onu – si verificano «continue detenzioni arbitrarie, torture ed esecuzioni extragiudiziarie».
In gioco, spiega la Bonino, c’è «non solo l’interesse dei libici ma il nostro interesse nazionale»: da qui «il fermo impegno del governo italiano per la stabilità del paese nordafricano». Stabilità necessaria all’Eni e alle altre compagnie occidentali per sfruttare, a condizioni molto più vantaggiose di prima, le riserve petrolifere libiche (le maggiori dell’Africa) e quelle di gas naturale (al quarto posto in Africa).
Ma sono proprio i campi petroliferi al centro degli scontri armati tra fazioni e gruppi, la cui rivalità è esplosa una volta demolito lo stato libico. Il capo di stato maggiore libico, Salem al-Gnaidy, ha invitato i gruppi armati a mettersi sotto il comando dell’esercito, disponibile ad accogliere «qualsiasi forza». Ma ciò rischia di far esplodere gli scontri all’interno dell’esercito, ancora in massima parte da costruire.
La Nato ha convocato a Bruxelles il premier Ali Zeidan per stabilire le modalità di addestramento dell’esercito libico, che – ha chiarito il segretario generale Rasmussen – sarà effettuato «fuori dalla Libia». In Libia, a togliere le castagne dal fuoco, saranno inviati militari e funzionari italiani, accompagnati da «operatori umanitari» militarizzati.
Nessuno sa quanto verrà a costare tale operazione, che provocherà un altro salasso di denaro pubblico. Poco importa se aumenterà la spesa militare dell’Italia, già salita a 70 milioni di euro al giorno. L’essenziale è «mettercela tutta» perché la coalizione Usa/Nato possa controllare la Libia, importante non solo per la sua ricchezza energetica, ma per la sua posizione geostrategica nell’area nordafricana e mediorientale.
Lo conferma il fatto – emerso da un’inchiesta del New York Times – che armi degli ex arsenali governativi vengono trasportate con aerei cargo qatariani dalla Libia alla base Al Udeid in Qatar, dove sono dislocate le forze aeree del Comando centrale Usa, e da qui inviate in Turchia per essere fornite ai «ribelli» in Siria. Una foto scattata in un deposito dei «ribelli» mostra casse di munizioni da 106 mm per cannoni Usa senza rinculo M-40 e M-40 A1, con un marchio testificante la provenienza libica.
Col suo piano per la Libia, l’Italia contribuisce così anche alla «transizione democratica» della Siria.
(25 giugno 2013)