Foto: L’agente Iozzino, prima che il cadavere venisse coperto
Ci piacerebbe sapere, a fronte di queste straordinarie rivelazioni, cosa avranno da dire tutti coloro i quali, in tutti questi anni, hanno sostenuto le tesi che i brigatisti erano “compagni che sbagliano“…
Si concretizza, ancora una volta, quanto sostenuto dai compagni del PCI che venivano bollati allora come “dietrologi” i quali sostenevano che le BR fossero, in realtà, “agenti” al servizio dell’imperialismo…
Vorremmo conoscere quali altre “panzanate” tireranno fuori i sostenitori dei brigatisti dopo l’ennesima prova della contiguità con il potere che sostenevano di combattere.
Una cosa è chiarissima. Tutti quelli che hanno sostenuto direttamente o meno le tesi dei “compagni che sbagliano” hanno trovato un posto comodo nel potere.
Alla faccia dei compagni! Ovviamente.
MOWA
di Claudio Visani
Una foto, a volte, può dire tante cose. Può smentire verità di comodo, mostrare ciò che è sfuggito o non si è voluto vedere, svelare misteri. La deve pensare così Carlo D’Adamo, 65 anni, livornese di origine ed Emiliano d’adozione, insegnante in pensione con la passione per la storia e l’arte, ricercatore e scrittore di libri sugli Etruschi, i “sardi nella guerra di Troia” e le “tavole eugubine” dell’antica civiltà e lingua umbre, da ultimo studioso di stragi, trame e depistaggi di Stato: da Portella delle Ginestre al caso Moro. Sul rapimento del presidente della Dc, che avvenne la mattina del 16 marzo 1978 a Roma, D’Adamo ha appena pubblicato con le Edizioni Pendragon il libro “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino? Lo Stato in via Fani”. Il volume verrà presentato domenica 14 dicembre alle ore 17 a San Giovanni in Persiceto, nell’Atelier di via Tassinara 36/A.
Le foto che parlano
L’idea di occuparsi della vicenda che ha cambiato i destini della politica italiana, a D’Adamo è venuta quando stava lavorando, assieme al segretario della delegazione Anpi di San Giovanni in Persiceto, William Pedrini, alla stesura di “un passato che non passa”, il documentario fotografico su partigiani e antifascisti morti ammazzati dalle “brigate nere” nel bolognese dopo l’8 settembre 1943. Per le autorità, che finita la guerra e passata la buriana hanno deciso di lasciare al loro posto i vecchi apparati dello Stato, quelle vittime sono cadute in “semplici” azioni militari o conflitti a fuoco e non nascondevano storie “scomode”. Ma le foto scattate clandestinamente all’obitorio da Filippo D’Aiutolo e Riccardo Parisi, entrambi membri di Giustizia e Libertà, raccontano un’altra verità: le immagini shock mostrano corpi martoriati, segni evidenti di percosse e torture, cadaveri barbaramente giustiziati nelle caserme fasciste e fatti ritrovare per strada.
Tre auto collegate ai Servizi deviati in via Fani
Così D’Adamo è andato a scartabellare anche negli archivi e in particolare nelle foto del “caso Moro”. E ha scoperto che nella scena fotografica della strage e del rapimento del presidente Dc, che avrebbe cambiato il destino politico dell’Italia allontanando il “compromesso storico” e l’ingresso del Pci al governo, quella tragica mattina di 35 anni fa, c’erano ben tre auto riconducibili a vario titolo ai Servizi, “deviati” e non, incredibilmente “dimenticate” dalle varie inchieste. D’Adamo ha cercato i dati di quelle auto nel Pubblico registro automobilistico (Pra), li ha incrociati con quelli catastali e delle Camere di commercio, li ha raffrontati con i resoconti delle commissioni parlamentari d’inchiesta e con le sentenze della magistratura, ha fatto sopralluoghi, è andato a controllare i campanelli per ricostruire chi abitava nel luogo dell’agguato, ha intervistato i testimoni ancora in vita e disponibili a parlare e ha ricostruito così, con pazienza, la presenza dello Stato in via Fani.
Chi ha ammazzato l’agente Iozzino?
Un’inchiesta certosina che, alla fine, è sfociata nella domanda che dà il titolo al libro: “Chi ha ammazzato l’agente Iozzino?”. Raffaele Iozzino, 23 anni appena, era seduto nel sedile posteriore dell’Alfetta bianca di scorta ad Aldo Moro. Fu l’unico che riuscì a saltare fuori dall’auto con la pistola in pugno e a sparare contro i brigatisti prima di essere abbattuto, probabilmente dai colpi esplosi da due membri del commando nascosti dietro una Mini Cooper, rimasti poi senza nome.
Secondo D’Adamo erano “tiratori di precisione collegati ai Servizi”, che avrebbero aiutato i brigatisti Valerio Morucci, Franco Bonisoli, Raffaele Fiore, Alvaro Lojacono, Prospero Gallinari, Mario Moretti, Rita Algranati, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Germano Maccari e Alessio Casimirri a portare a termine con successo il loro temerario attacco, in cui morirono il capo scorta maresciallo Oreste Leonardi, l’autista di Moro, Domenico Ricci, e gli agenti Giulio Rivera, Francesco Zizzi e, per l’appunto, Raffaele Iozzino.
L’Austin Morris che impedì all’auto di Moro di sfuggire all’agguato
Di una di quelle tre auto, l’Austin Morris blu targata Roma T50354, ben visibile in molte delle foto di repertorio sulla strage di via Fani, ha scritto recentemente la giornalista Stefania Limiti nel suo libro “Doppio Livello”, anticipando in parte le ricerche condotte sul tema proprio da D’Adamo. L’Austin Morris era parcheggiata sul lato destro della strada, scostata dal marciapiede, in prossimità dell’incrocio con Via Stresa, quasi all’altezza dello stop dove il corteo dello statista era stato fermato dalla Fiat 128 con targa del corpo diplomatico dei brigatisti. Una posizione strategica, che impedì all’autista di Moro di manovrare per togliersi dall’imbottigliamento e favorì il “tiro a segno” del commando appostato dietro la siepe di pitosforo del Bar Olivetti, ma anche dietro a quell’auto, secondo D’Adamo parcheggiata appositamente per offrire riparo ai killer.
L’autore del libro, incuriosito dal fatto che di quella Austin Morris blu non c’era traccia nelle carte processuali e nei resoconti giornalistici, è andato al Pra e ha scoperto che l’auto era stata acquistata il 2 febbraio 1978, quindi un mese e mezzo prima dell’agguato, dalla società immobiliare “Poggio delle Rose”, costituita 7 anni prima da un ex funzionario del Viminale, che risultava essere all’epoca una società di copertura dei Servizi e aveva sede in Piazza della Libertà 10, nello stesso stabile in cui si trovava anche l’Immobiliare Gradoli Spa riconducibile a fiduciari del Sisde.
Morucci e la “presenza casuale” dell’auto dei servizi
Di quell’auto il capo brigatista Valerio Morucci parlò in questi termini: “La presenza casuale di una Mini Minor”, in realtà l’Austin Morris, “all’angolo di via Fani, proprio all’altezza dell’incrocio con via Stresa, può avere in parte contribuito a impedire la manovra di svincolo della 130”, ovvero della Fiat in cui si trovava Moro. “La parola ‘proprio’ – annota l’autore – è stata aggiunta da Morucci in un secondo tempo, in fase di rilettura e correzione della prima stesura”. Una sottolineatura per sostenere che quell’auto non è ‘proprio’ lì per caso. “Per permetterle di occupare esattamente quello spazio dove ogni mattina il fiorario ambulante Antonio Spiriticchio parcheggia il suo Ford Transit, durante la notte due brigatisti, Bruno Seghetti e Raffaele Fiore, hanno tranciato tutte e quattro le gomme del furgone”, scrive D’Adamo. E conclude: “L’Austin Morris è lì proprio perché i suoi padroni partecipano all’agguato e alla strage, assieme ad altri fedeli servitori dello Stato”.
La Mini Cooper verde del “gladiatore”
}Ma quella dell’Austin Morris non è l’unica presenza anomala nel teatro della strage di via Fani. Dall’altra parte della strada, infatti, è parcheggiata anche una Mini Cooper di colore verde con il tettuccio nero, targata Roma T32330. “L’auto – scrive D’Adamo – offre riparo ad altri due uomini del commando, vestiti da avieri, che sparano da sinistra all’Alfetta bianca della scorta di Moro. Di quella macchina non parla Morucci, che pure spara da quel lato della strada contro la scorta del presidente Dc”.
Anche in questo caso, D’Adamo, partendo dalle foto, risale al proprietario dell’utilitaria. E scopre che un anno prima, esattamente il 17 marzo 2007, la Mini è stata immatricolata da Tullio Moscardi che, guarda il caso, è un ex ufficiale della Decima Mas di Junio Valerio Borghese (il “principe nero” del tentato golpe del 1970), noto come “reclutatore di sabotatori” per il gruppo Vega, una unità speciale di Stay Behind. In altre parole, un “gladiatore”. Moscardi abita, casualmente, proprio in via Fani 109, sopra la scena del crimine. “Agli inquirenti – scrive D’Adamo – dirà di essersi affacciato al balcone dopo aver sentito gli spari, e di essere sceso giù a sparatoria finita”.
Gli uomini senza nome del commando che spararono a Iozzino
Sta di fatto che la posizione della Mini Cooper, così come quella dell’Austin Morris, “è determinante, come risulta in modo inequivocabile dalle foto pubblicate sui giornali”, scrive ancora D’Adamo. E aggiunge un altro particolare inquietante: “Probabilmente sono stati proprio quei due uomini del commando travestiti da avieri appostati dietro la Mini, che poi dopo la strage si sono dileguati e non sono mai stati individuati, ad ammazzare l’agente Raffaele Iozzino, uscito dall’Alfetta di scorta con la pistola in pugno”.
E aggiunge: “Alessandro Marini, il più importante dei testimoni oculari della strage, non vede dalla sua posizione l’auto di Moscardi ma vede due killer che spuntano oltre i brigatisti del commando e li disegna nella piantina che allega alla sua deposizione”.
L’Alfasud dell’Ucigos che “copre” i reperti
In via Fani, pochi secondi dopo l’agguato, arriva poi un’altra auto sempre riconducibile ai Servizi: una Alfasud beige targata Roma S88162 dell’Ucigos (Ministero degli Interni) con a bordo agenti in borghese. Secondo D’Adamo, è la stessa auto di cui parlerà poi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa davanti alla commissione parlamentare, rivelando che un’Alfasud è vista a più riprese in via Moltalcini dove abitava la brigatista Anna Laura Braghetti. Nell’estate del 1978, dopo che Moro era stato ucciso, un giorno da quell’auto furono visti scendere due agenti in borghese che interrogarono i vicini di casa della Braghetti ma si guardarono bene dal fare irruzione nell’appartamento della brigatista, che viveva ancora lì indisturbata e che, capita l’antifona, da lì a poco avrebbe poi traslocato in tutta calma.
“Nelle foto scattate subito dopo la strage – annota D’Adamo – si vede quell’Alfasud parcheggiata di traverso sul marciapiede sinistro, contromano, con la ruota posteriore destra sul bordo e la sinistra più avanzata”. L’Alfasud arrivata prima di tutti sulla scena del crimine, dopo i primi rilievi, a un certo punto viene spostata e si ferma proprio sopra alcuni dei cerchi tracciati col gesso intorno ad alcuni bossoli, come se volesse coprire e nascondere alcuni reperti, forse quelli delle armi dei membri non identificati del commando che uccisero l’agente Iozzino. Ma della presenza di quell’auto non c’è traccia nei verbali delle commissioni d’inchiesta.
Fantacronaca? Dietrologie? Mica tanto, se si pensa che la responsabilità della protezione di Aldo Moro faceva capo allora al generale piduista Pietro Musumeci, che tra i primi ad accorrere sul luogo dell’agguato furono alcuni uomini di Gladio (Moscardi, ma anche Bruno Barbaro e il colonnello Camillo Guglielmi), e che i proiettili nei corpi delle vittime della strage non sono mai stati consegnati ai periti e quindi non si sa da quali armi sono partiti. “Quell’Alfasud – scrive D’Adamo – collega direttamente la scena del crimine con le stanze del potere oscuro, in cui l’ex presidente Cossiga e i suoi amici avevano accentrato tutta la gestione del caso Moro, e per questo viene cancellata subito dalle indagini”.
Biografia di Carlo D’Adamo
Carlo D’Adamo è nato a Collesalvetti (Li) nel 1949; si è laureato con Anceschi a Bologna nel 1971; ha insegnato italiano e storia negli istituti superiori di istruzione secondaria in provincia di Modena e di Bologna. Sue pubblicazioni sono Il dio Grabo, il divino Augusto e le Tavole Iguvine riprodotte, traslitterate, tradotte e commentate (2004); Tutti zitti. Una rimozione collettiva (2009); per Pendragon: Disavventure dell’archeologia. I comunisti delle terremare (2011), Sardi, Etruschi e Italici nella guerra di Troia (2011), Chi ha ammazzato l’agente Iozzino? (2014). Insieme a William Pedrini ha scritto Un passato che non passa (Pendragon 2012) e I 34 scheletri del Poggio (Maglio editore, 2012). Per acquisto del libro Edizioni Pendragon