Tra “zone d’ombra” e mandanti esterni
di Giorgio Bongiovanni e Luca Grossi
Il Procuratore aggiunto di Firenze intervenuto al festival Legalitria per presentare il libro “Obiettivo Falcone”
L’ascesa di Cosa nostra, l’attacco allo Stato, le stragi, i delitti eccellenti, i processi, la ricerca dei mandanti e concorrenti esterni, il rischio che si abbassi la guardia nella lotta alla mafia. Sono questi alcuni degli argomenti affrontati ieri mattina da Luca Tescaroli, procuratore aggiunto di Firenze, intervenuto via web al festival LegalItria, ideato, diretto e organizzato dalla Società Cooperativa Radici Future Produzioni, con la direzione artistica di Leonardo Palmisano, andato in scena on line dal 9 al 14 novembre.
Presentando il libro “Obiettivo Falcone”, edito dalla casa editrice Rubettino, il magistrato che nel corso della sua carriera si è occupato proprio di indagini e processi sulle strage di Capaci, sui mandanti occulti, il fallito attentato all’Addaura o ancora l’omicidio del banchiere Roberto Calvi, offrendo una panoramica generale del periodo stragista, ha evidenziato come possa individuarsi nel fallito attentato a Giovanni Falcone, nel 1989, un momento chiave: “L’attentato all’Addaura è l’inizio della fine dei Corleonesi. Riina e compagni, che hanno voluto queste stragi, paradossalmente iniziano proprio con quel fallito attentato. C’è un filo conduttore che parte da lì e poi attraversa tutta la stagione stragista che va dal ’92 fino al ’94”.
Rispondendo dapprima alle domande del giornalista Mario Pagano, e poi a quelle dei giovani studenti intervenuti, ha sottolineato come nel nostro Paese, spesso, c’è una tendenza a “polarizzare l’attenzione su ciò che non è stato fatto dimenticando quello che si è riusciti a raggiungere”. Eppure rispetto agli anni delle stragi è stato compiuto un lavoro immane con “risultati davvero straordinari”.
Così sono state ricordate le 37 condanne definitive e 24 ergastoli (“Forse il risultato più significativo al contrasto del crimine mafioso dal maxi processo in poi”) in merito alla strage di Capaci con l’individuazione degli appartenenti alla commissione provinciale e regionale di Cosa Nostra, gli organismi così detti di vertice dell’organizzazione mafiosa: da Totò Riina a Benedetto Santapaola, passando per Giuseppe Madonia e Mariano Agate, per citarne alcuni. Un risultato non di poco conto se, come ricordato dal magistrato della Procura di Firenze, si pensa che “in un Paese come il nostro, dove le stragi molto spesso rimangono impunite, qui le stragi hanno dei colpevoli e soprattutto sono stati accertati anche dei perché”. Al contempo “è vero che ci sono delle zone d’ombra, in relazione alle quali occorre necessariamente continuare a lavorare, a indagare e investigare nonostante le difficolta derivate dal decorso del tempo”.
Nel corso del suo intervento Tescaroli ha cercato di dare una risposta a due dei quesiti principali che ruotano attorno alla stagione delle stragi: il motivo per cui c’è stata un’accelerazione dopo la strage di Capaci che ha portato Cosa Nostra a uccidere solo dopo 57 giorni il giudice Paolo Borsellino in via D’Amelio e perché, in un dato momento storico, quello del 1994, si è interrotto il progetto stragista.
Dopo l’attentato del 23 maggio 1992, in cui morirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta “il fattore che ci spinge a interrogarci su quanto avvenuto è una frase detta dal collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi: ‘Riina venne accompagnato per la manina a fare le stragi’, sia dal punto di vista operativo, sia dal punto di vista dei tempi. A quel punto ci domandammo il perché Borsellino doveva essere ucciso con così tanta celerità”. La risposta è arrivata con le varie indagini ed i processi che ci sono stati nel corso del tempo. Tescaroli ha ricordato le sentenze, alcune anche passate in giudicato “che riconoscono come ci siano stati dei contatti e delle trattative tra i vertici dell’organizzazione, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano ed esponenti delle istituzioni, appartenenti delle forze dell’ordine che hanno cercato di interagire con i mafiosi cercando di capire cosa volevano per smettere a continuare a eseguire le stragi”.
Sul punto si può ricordare anche la sentenza di primo grado del processo di Palermo sulla trattativa Stato-Mafia che il 20 aprile 2018 ha portato alla condanna del boss corleonese Leoluca Bagarella insieme al medico di fiducia di Totò Riina, Antonino Cinà, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, l’ex senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri per attentato a corpo politico dello Stato.
Nel quadro stragista ha poi puntualizzato Tescaroli c’è stata: “Una iniziativa che ha visto richieste da parte dell’organizzazione (Cosa Nostra n.d.r) in termini di: ammorbidimento o di revoca del regime del carcere duro, del 41 bis, cancellazione dell’ergastolo, intervento sui provvedimenti che prevedono le confisca dei beni mafiosi e il fatto stesso di interagire senza l’assenso dell’autorità giudiziaria e certamente al di là del rilievo penale che queste condotte possono avere è comunque un segnale di debolezza dello stato, perché anziché contrastare l’avversario decide in qualche modo di discutere con lo stesso”. E’ in questo modo che lo Stato ha commesso il primo errore, riconoscendo, di fatto, in Cosa Nostra un suo pari.
Gli alti ufficiali che avviarono quel dialogo con Vito Ciancimino (ex sindaco mafioso di Palermo) si sono sempre giustificati affermando che la trattativa aveva lo scopo di fermare le stragi e salvare vite umane, ma accadde tutto il contrario con Cosa nostra che recepì il messaggio che in qualche maniera le bombe pagassero. “Nei rapporti con la mafia – ha proseguito Tescaroli – con cosa nostra in particolare ed i Corleonesi, non può esserci alcuna convivenza, non può esserci alcuna forma di rapporti perché in questo modo si fa il gioco dell’avversario. La logica della convivenza non può permeare il contrasto, deve esserci un contrasto a spada tratta, continuo, imperterrito”.
L’attentato all’Olimpico, ultimo atto?
Successivamente Tescaroli ha ricordato come Cosa Nostra avesse pianificato “il colpo di grazia” quando, sul finire del mese di Gennaio del 1994, era stato pianificato un ulteriore attentato, questa volta allo stadio Olimpico di Roma con lo scopo preciso di uccidere il più alto numero di carabinieri possibile. L’attentato fallì a causa di un guasto tecnico al detonatore e non venne più riproposto. “Perché quell’attentato non venne più riproposto? – si è chiesto il procuratore aggiunto – Il 16 Marzo del 1994 ci sono state le elezioni, è mutato il quadro politico istituzionale e lo stragismo si è arenato. E allora bisogna capire se questo mutamento istituzionale si colloca dentro, in qualche misura, con la decisone di non riproporre l’attentato, o se invece questa cessazione dell’agire sia ricollegato a motivi di tipo diverso. Motivi interni all’organizzazione, al fatto che c’è stato qualche giorno dopo, il 27 gennaio, l’arresto dei fratelli Graviano. Un arresto che ha in qualche misura scompaginato, i programmi, i progetti. Anche se teniamo presente che rimaneva sempre libero Matteo Messina Denaro, soggetto che continua a essere latitante da allora”.
Per dare una risposta a questi quesiti stanno lavorando attualmente più Procure (Firenze, Reggio Calabria, Caltanissetta e Palermo) con il coordinamento della Procura nazionale antimafia. Indagini volte anche a comprendere quale sia stato il coinvolgimento di soggetti esterni a Cosa nostra non solo sul piano deliberativo, ma anche esecutivo delle stragi.
E diversi sono stati gli spunti investigativi sul ruolo dei servizi di sicurezza nei vari attentati. Rispondendo ad una domanda sul punto Tescaroli, che a Firenze si occupa proprio delle stragi del 1993, ha ricordato come “nella strage di Capaci l’ipotesi che venne formulata fu proprio quella, della dislocazione a Roma e Palermo in più punti della città. L’ipotesi che vi fosse una persona dislocata a Roma, con le sentenze celebrate, non ha trovato nessuna conferma perché l’imputato che si riteneva essere nella Capitale è stato poi assolto. E quindi non c’era la prova che lo stesso abbia effettivamente dato l’impulso, come dichiarò lo stesso Salvatore Cancemi che si è autoaccusato della strage. Va comunque detto che ci sono una serie di indizi che inducono a pensare che ci possa essere stato questo coinvolgimento (dei Servizi), ma non c’è una sentenza che lo attesti, che lo dimostri. Quindi – ha spiegato – rimane una ipotesi di lavoro e non posso dare indicazioni ulteriori al riguardo”.
Rispetto al rischio che oggi si sottovaluti il fenomeno mafia e la possibilità di nuovi attentati Tescaroli ha ricordato come sia “innegabile che la popolazione, la gente, ma anche la sensibilità istituzionale vengono fortemente condizionate dai fatti di sangue. Dopo il ’94 è un dato di fatto che non sono più stati eseguiti delitti di attentato che hanno colpito al cuore dello Stato e conseguentemente la spinta emotiva e la sensibilità al problema sono venute meno”. Anche perché “quella stessa organizzazione che ha ideato ed eseguito gli attentati, Cosa nostra, è l’unica associazione nel nostro Paese che abbia compiuto attentati di questo tipo e ha adottato una tecnica di inabissamento per ritornare al passato basato sulla connivenza. Anche altre organizzazioni, come ad esempio la ‘Ndrangheta che aveva partecipato alla strategia stragista, adottano analoga metodologia operativa perché sanno che solo quando scorre il sangue si accorge che esiste la criminalità mafiosa”. Tuttavia, secondo il magistrato non va dimenticato che in questi anni “si è pensato di eseguire attentati nei confronti dei membri delle forze dell’ordine o magistrati. Ad esempio penso al progetto di attentato nei confronti del dott. Antonino Di Matteo e quindi rimane una pericolosità ancora significativa”.
Secondo Tescaroli è necessario sempre prestare attenzione ai momenti che il Paese può attraversare nei vari momenti della storia (“Le condizioni di instabilità politico istituzionale, le condizioni di incertezza sono terreni ideali per chi come l’organizzazione mafiosa Cosa Nostra ha cercato di portare avanti una strategia ben precisa. Ogni volta che vi è debolezza da parte dello Stato vi è una possibilità di intervenire anche per indirizzare il percorso politico istituzionale. E’ sempre auspicabile che vi siano governi che per il periodo previsto dalla legge possano esercitare il loro potere e dimostrare autorevolezza”). Inoltre si deve avere la consapevolezza che allo stato la lotta contro la mafia “non è vinta”. “I risultati sono straordinari – ha ribadito – ma bisogna continuare in maniera incessante. Perché solo in questo modo si può giungere al risultato della sconfitta, basta volerlo, basta essere uniti e che ci sia determinazione da parte di tutti e non solo dalla parte repressiva”.
14 Novembre 2020