Giorgio Bongiovanni
Povero Gramsci, avere i Proci dentro la casa del “suo” giornale
Da qualche giorno televisioni e giornali stanno seguendo con grande attenzione il caso della morte di Giulia Tramontano, la giovane ragazza uccisa mentre era incinta di sette mesi dal fidanzato. Orrore, sconcerto, rabbia e dolore sono solo alcuni dei sentimenti vissuti tanto dai protagonisti, quanto dagli spettatori che seguono da casa.
Una disperazione che ha visto coinvolti soprattutto i familiari della donna, ma anche quelli del killer reo confesso, Alessandro Impagnatiello. Proprio la madre di quest’ultimo, alle telecamere de La Vita in Diretta aveva affermato: “Non oso immaginare i familiari di Giulia. Non lo voglio immaginare… La mamma, Loredana, è una persona fantastica. Alessandro è un mostro, lo so. Io le chiedo perdono, da madre, ma non so cosa fare. Io le chiedo perdono per aver fatto un figlio così, io chiedo perdono a tutta la famiglia”. E poi ancora: “No, come fai a perdonare? Alessandro poi era, quello sì, ma è imperdonabile. Perché l’hai fatto? Non dovevi farlo, non dovevi farlo Alessandro. Hai rovinato la vita di tutti”.
Sul caso in molti hanno commentato. Anche noi, con il nostro giornale, abbiamo voluto ospitare il commento, tratto dai social, del magistrato Sebastiano Ardita.
Considerazioni condivisibili su un sistema penale che “non fa più paura” nella consapevolezza che, al di là del crimine commesso, si potranno avviare percorsi di giustizia riparativa, ottenendo benefici ed attenuanti. Un invito a non dimenticarsi delle vittime, che meritano la certezza della pena.
Quelle parole espresse dal procuratore aggiunto di Catania, però, oggi sono state prese di mira in maniera aspra da una certa stampa (“Il magistrato Ardita come Mara Venier” titola l’Unità) e da certi avvocati e magistrati che le hanno etichettate come “chiacchiere da bar” o da “talk show”.
Poi c’è stato anche chi è andato oltre, come il Presidente dell’Unione Camere Penali, Gian Domenico Caiazza, che ha persino parlato di “populismo penale”, di “agitazione gratuita, pretestuosa e strumentale del sentimento di indignazione, di dolore, di condanna sociale, per condizionare e travolgere ogni regola del giudizio e del processo penale” e di “giustizia intesa come vendetta”.
Niente di più errato, così come sono assolutamente incondivisibili e pretestuose quelle espressioni che vanno ben oltre al diritto di critica o di opinione.
Il diritto alla difesa del reo, anche quando riguarda assassini efferati, è un diritto legittimo, peraltro sancito dalla Costituzione. Su questo non ci sono dubbi.
Il punto che si solleva è ben diverso.
Non siamo di fronte ad un caso dove ci sono prove da verificare, o discutere se qualcuno è innocente o se si possono avere assoluzioni o attenuanti. Parliamo di un reo confesso, feroce e cinico. Forse certi soggetti dovrebbero anche rileggere le dichiarazioni della madre di Impagnatiello.
La realtà, forse, senza essere tacciati di complottismo, è che con la scusa della difesa dei diritti umani si cerchi di giungere a ben altri obiettivi generalizzando, senza effettuare i dovuti distinguo.
Un sistema che viene seguito anche nella logica di smantellamento (come in parte è già avvenuto) di istituti come il 41 bis o l’ergastolo ostativo.
A chi importa se così si rende un favore a quella organizzazione diabolica e criminale che è la mafia?
La certezza della pena è un punto fondamentale tanto quanto il concetto di rieducazione, ma vanno effettuati dei distinguo tra i crimini che vengono commessi.
Perché non mancano, nella storia, casi di criminali efferati che, terminato il carcere, nonostante i percorsi “rieducativi” sono poi tornati a commettere quegli stessi crimini e perversioni.
Il rispetto dei diritti umani è fondamentale, ma certi criminali devono scontare ogni giorno di carcere se davvero si vuole preservare la società.
Guardando all’Unità e alla deriva che ha preso nell’attacco a certi magistrati (appena di una settimana fa l’attacco a Luca Tescaroli e l’incredibile difesa a Silvio Berlusconi, indagato attualmente con Marcello Dell’Utri per essere mandante delle stragi del 1993) ci viene in mente il povero Antonio Gramsci.
Chissà cosa direbbe, oggi, vedendo l’amara fine del “suo giornale”, fondato nel 1924? Forse si sentirebbe come Ulisse quando, tornando ad Itaca, vide Penelope circuita dai Proci, nel tentativo di conquistare il suo Regno.
Perché quello che è tornato in edicola lo scorso 16 aprile non è di certo la sua Unità.
Non è neppure l’Unità che decine di migliaia di iscritti al PCI conoscevano e che veniva comunque seguita da migliaia e migliaia di lettori.
La nuova Unità dell’imprenditore Romeo, diretta da Piero Sansonetti, è davvero caduta in basso.
La speranza è che un giorno, torni un Ulisse che, intellettualmente parlando, possa spazzar via i “nuovi Proci, riportando in auge idee e battaglie di Gramsci.