di Franco Astengo
Matteo Renzi ha reagito alla seconda ondata di “Mafia Capitale” più o meno nella stessa maniera nella quale Bettino Craxi rispose (Febbraio 1992) all’arresto di Mario Chiesa (“un mariuolo”): mele marce da isolare, cui far scontare la pena. Anche la maggioranza delle dichiarazioni che si stanno leggendo e/o ascoltando in queste ore sembrano percorse dallo stesso segno di strumentalizzazione dei fatti, sia nel senso della sottovalutazione, sia in quello dell’esaltazione “pruriginosa”. Da destra si sta tentando un’operazione “scalata” alle istituzioni romane e laziali cercando di far finta di niente e fidando sulla smemoratezza del pubblico stordito dai talk-show e messo nella condizione di dimenticare ciò che è accaduto e che si è realizzato nel corso dei mandati – invero indimenticabili – di Alemanno e Polverini, al comune di Roma e alla Regione Lazio. Del resto i legami della destra e del neofascismo romano, con punte di vera e propria contiguità, con la malavita e il sottobosco romano sono “storici” e del tutto consolidati nel tempo. Da parte del PD prosegue “l’arrampicata sugli specchi” tendente a negare e a portare in campo un presunto rinnovamento: certo che, con i nomi che circolano e gli intrecci di cui si legge negli atti della Procura, considerare le amministrazioni Marino e Zingaretti dei “baluardi” contro la degenerazione morale della vita pubblica diventa sempre più difficile.
Tralasciamo, in quest’occasione, la legittima indignazione che sale osservando su quali materie concrete si esercitava il malaffare: in particolare al riguardo dei migranti, fatti oggetto di sfruttamento e di occasione di lucro indiscriminato in un quadro complessivo di “carità pelosa” e di strumentalizzazione ai fini politico – elettorali di grande portata.
Tralasciamo l’analisi di questo punto, che pure risulta molto importante, per concentrarci sulla “domanda che manca” negli svariati punti di analisi che pure vengono avanzati, al riguardo di questa vicenda, da più parti. Beninteso: le vicende legate alla “questione morale” e alla logica di scambio tra malavita e politica risultano sempre presenti nella storia d’Italia, con corsi e ricorsi che si possono facilmente rintracciare soltanto scorrendo le cronache passate.
Questa volta però il fenomeno pare essere più intenso e più vasto rispetto al passato e, soprattutto, si verifica in un quadro complessivo di forte distacco tra il concreto della società e l’astratto del mondo politico quale mai si era riscontrato in precedenza. Il sistema sembra minato alla base e i rischi di una crescita di incredibilità per la democrazia appaiono evidenti, all’interno di un quadro complessivo di impennata nelle discriminazioni sociali, nelle diseguaglianze, nei processi di impoverimento generale e di regressione culturale.
Una regressione culturale che ha investito pesantemente anche il circuito di costruzione di una classe dirigente posta in grado di proporsi per rappresentare, per quanto possibile, sul piano politico la molteplicità e la complessità delle fratture sociali.
La differenza con il passato risiede proprio in questo punto: nell’assenza di riferimento che, pur tra fortissime contraddizioni, erano risultati essere comunque in grado di proporre un “passaggio di fase”. Invece, dalla gestione dell’infinita fase di mai conclusa transizione da Tangentopoli (e dal trattato di Maastricht) a oggi, non è sortito alcun soggetto in grado di avanzare una proposta credibile.
Oggi, poi, entra ufficialmente in difficoltà l’illusorio “decisionismo” attraverso cui il Partito democratico, permeato dall’”uomo solo al comando” Renzi, aveva tentato di assumere la guida di questo processo cercando di mortificare (“asfaltare”, il termine tecnico) i competitori e proporsi come unico soggetto di ruolo pivotale al centro del sistema attraverso il cosiddetto “Partito della Nazione”. Una difficoltà che nasce non tanto dalla crescita dei vari populismi all’interno dell’arena politica, ma da due fattori ben precisi: la sfiducia crescente dell’opinione pubblica come dimostra la partecipazione al voto e, in relazione a questa, la funzione di supplenza che la Magistratura continua a esercitare sulla vita pubblica italiana. La domanda che manca, a questo punto, riguarda il perché si è giunti a questo stato di cose via via in fase di progressivo peggioramento nel corso degli ultimi 25 anni.
Ci s’interroga sui meccanismi tecnici di funzionamento dell’amministrazione pubblica, sull’assenza di controllo, sulla capacità di gruppi organizzati di impadronirsi di leve di potere, grandi e piccole. Non si è aperta, invece, la discussione di fondo sulla trasformazione di ruolo dei partiti politici e sulla riduzione del sistema a mera macchina di accumulazione del consenso, al fine di realizzare “ipotesi di comando”, che ormai non possono essere più definite come governabilità, stante –da un lato – proprio la supplenza della Magistratura e – dall’altro canto – il ruolo dell’Europa sulle scelte di tipo economico – finanziario – sociale. La finzione dell’alternanza e la trasversalità nei fatti concreti appaiono essere l’esito di questa fase di isterilimento complessivo della nostra vita pubblica e dell’affermazione di un Regime che oggi appare già in difficoltà proprio per l’assenza di basi concrete su cui poggiare, al di là della proposta di riduzione drastica nel rapporto di democrazia tra la sovrastruttura politica e la società. E’ questo l’interrogativo di fondo che dovrebbero porsi gli appartenenti al mondo della politica, della comunicazione, della cultura. Cercare di sfuggirvi e limitarsi al banale rappresentato dai fatti quotidiani potrebbe significare il completamento drammatico della fine di un’epoca.