di Gianni Barbacetto
Arriva il momento in cui la retorica del Modello Milano si sbriciola e la narrazione di Expo deve fare i conti con la realtà. Il momento è arrivato con gli undici arresti nell’indagine su Cosa nostra penetrata fin dentro l’esposizione universale. È la mafia in Expo: il consorzio Dominus, che ha allestito in subappalto importanti stand e grandi padiglioni stranieri, faceva riferimento a siciliani che portavano i soldi ai boss di Pietraperzia, in provincia di Enna. È Mafia Capitale (morale): con una rincorsa al peggio, tra Milano e Roma. Difficile ripetere oggi quanto detto da Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità anticorruzione, secondo cui Milano è “capitale morale del Paese”, contrapposta a Roma che “non ha gli anticorpi di cui ha bisogno”. Certo non vale la pena di fare la gara a chi è peggio. Ma forse è il caso di smetterla almeno con la retorica, di ripensare lo storytelling di Expo come icona della Milano che decolla, dell’Italia che riparte.
Bisogna tornare, più laicamente, a considerare Milano l’unica metropoli europea in Italia, ma anche una città malata, che è diventata negli ultimi anni più bella, più ricca, ma anche più crudele, più ingiusta, più diseguale, più criminale. Expo ha concorso, in parte, a rilanciarne l’immagine nel mondo, ma a costi altissimi per le finanze pubbliche (oltre 2 miliardi di euro di uscite, a fronte di incassi inferiori agli 800 milioni). Al confronto, le settimane della moda e del design sono infinitamente più produttive e a costi quasi zero per le casse pubbliche. Sulle promesse per i prossimi 15 anni (31,6 miliardi d’indotto, 240 mila occupati) fatte balenare da mirabolanti ricerche bocconiane eseguite su commissione ci permettiamo di avere, sempre laicamente, qualche dubbio.
Più certi gli effetti negativi, come l’enorme concentrazione di investimenti pubblici (oltre 1 miliardo di euro) su un’area che a otto mesi dalla fine di Expo non ha ancora un preciso piano d’uso, ma solo suggestioni (Tecnopolo, ricerca, università…). Su terreni agricoli comprati a peso d’oro da Comune di Milano e Regione Lombardia, che ora si trovano indebitati con le banche per oltre 200 milioni di euro che non si sa dove recuperare.
L’unico effetto certo del Modello Expo è stato politico: chiusa l’esperienza “arancione” di Giuliano Pisapia, sindaco di Milano è diventato, sull’onda dello storytelling Expo, Giuseppe Sala. Ora la nuova inchiesta giudiziaria – l’ennesima – conferma che nell’esposizione universale, oltre alla “cupola” della corruzione, operava anche la mafia. Reazioni? Balbettii. Chi di Expo si è assunto gli onori, fino a essere premiato con la poltrona di sindaco, rifiuta di assumere anche gli oneri, sostenendo che non era compito suo controllare i subappalti. Certo non ha responsabilità penali, fino a prova contraria, ma davvero non c’è alcuna responsabilità manageriale, morale, o almeno preoccupazione per come sono andate le cose?
Invece di accogliere l’allarme lanciato dai magistrati della Procura (Ilda Boccassini: “È un messaggio alle multinazionali, per dire: guardate che con i vostri comportamenti colposi state consentendo infiltrazioni della mafia”), si fa finta di gioire “per i successi di magistratura e forze dell’ordine”. Dopo non aver visto nulla, non aver sentito niente e non aver dato retta a precise segnalazioni (vedi le relazioni del Comitato antimafia presieduto da Nando dalla Chiesa), si brinda ai risultati giudiziari, sostenendo che sono la prova dell’esistenza a Milano degli “anticorpi” a corruzione e infiltrazioni mafiose. Sono invece la prova che l’amministrazione e la politica non sanno fare il loro lavoro, arrivando prima che scattino le manette.
Il Fatto quotidiano, 8 luglio 2016