di Gianni Barbacetto
È il “paradosso Milano”: Expo è la narrazione di un successo planetario che è valso al suo comandante in capo il premio di diventare sindaco della città; ma Expo è anche, nello stesso tempo, il crocevia delle approssimazioni manageriali, delle corruzioni politiche, delle infiltrazioni mafiose. Siamo condannati a convivere a lungo con queste due facce dello stesso evento. Ora l’indagine di Ilda Boccassini, Paolo Storari e Sara Ombra ha scoperto che il consorzio che ha allestito i padiglioni di Francia, Quatar e Guinea, oltre al Palazzo Congressi, l’Auditorium e lo stand della Birra Poretti, cioè la Dominus scarl, faceva riferimento alla famiglia di Cosa nostra di Pietraperzia, in provincia di Enna, che riceveva da Milano pacchi di contanti – altro che raffinate manovre finanziarie della supposta imprendibile “mafia in Borsa” – infilati dentro buste di plastica o nella custodia di cartone di una piscina gonfiabile per bambini.
A dirla piatta, è la mafia in Expo. Nessuno si è accorto che aveva a che fare con siciliani che lavoravano a Milano e portavano i soldi in Sicilia. Non si è accorto il comandante in capo Giuseppe Sala, commissario di Expo, che aveva affidato i lavori d’allestimento a Nolostand spa, società controllata da Fiera Milano spa. Non si sono accorti gli amministratori delegati di Fiera, prima Enrico Pazzali e poi Corrado Peraboni. Non hanno fatto una piega i dirigenti di Nolostand, come il direttore tecnico Enrico Mantica. Anzi, quando il 16 marzo arriva in Fiera una lettera anonima che avverte: “State lavorando con i mafiosi”, Mantica, invece di correre in Procura, avvisa l’uomo del consorzio Dominus, Giuseppe Nastasi: “È arrivata una lettera che poi quando passa gliela faccio vedere…”. Paura a parlarne apertamente: “No, eh, ci sono altre cose che poi meglio che ne parliamo di… quando può… meglio evitare di parlarne al telefono, dai!”. Poi Nastasi e Mantica s’incontrano di persona: “Mi ha detto stia sereno… e mi è apparso serenissimo, tranquillo”.
Va bene così, dunque: “Per nulla scalfiti dal contenuto della lettera”, chiosano i giudici, “i rapporti tra Giuseppe Nastasi e i vertici operativi di Fiera Milano-Nolostand divengono sempre più fitti, al fine di ottenere la proroga del contratto di servizi per il triennio 2016-2018”. I manager pubblici milanesi trattavano senza problemi con tipi come Nastasi e Liborio Pace, due degli undici arrestati di ieri, che erano amministratori di fatto, ma non di diritto, del consorzio Dominus. Pace in passato è stato processato (e assolto) per associazione mafiosa, è sposato con la figlia di un condannato per mafia, ha una cognata che è moglie di un altro condannato per mafia. La zia della moglie di Nastasi, invece, è sposata con un condannato per ’ndrangheta, fratello del capo (condannato) della “locale” di Pioltello. Di cos’altro avevano bisogno, quei manager, per farsi venire qualche dubbio?
È la politica che impedisce controlli più stringenti, sembrano dire Boccassini e Storari, visto che Fiera Milano e Nolostand sono società controllate dagli enti pubblici, ma sono di diritto privato, dunque possono affidare incarichi senza gara. Non è stata di grande aiuto neppure l’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone, che aveva parlato di Milano come “capitale morale del Paese”, contrapposta a Roma che invece “non ha gli anticorpi di cui ha bisogno”. Avevano schierato in campo perfino Mario Mori, ex generale dei carabinieri ed ex direttore del servizio segreto civile (nonché imputato nei processi sulla trattativa Stato-mafia), come presidente di un comitato regionale per la legalità voluto da Roberto Formigoni che non ha certo brillato per i risultati ottenuti.
Eppure c’è chi aveva lanciato l’avvertimento per tempo, anche a Sala. Basta leggere la sesta relazione del Comitato antimafia presieduto da Nando dalla Chiesa, consegnata nell’aprile 2015 e pubblicata a disposizione di tutti nel sito del Comune di Milano: “Risulta al Comitato che operazioni investigative abbiano consentito di individuare ulteriori imprese sospette impegnate nel movimento terra in lavori Expo. E risulta parimenti al Comitato che altre operazioni siano già pervenute a individuare consistenti, inquietanti e concreti rischi di infiltrazione mafiosa in struttura di Paese ospite di primario rilievo economico”. Era la Francia, per chi voleva capire. Ma nessuno ha fatto una piega, il segnale mandato non ha avuto alcun risultato (come quello sul movimento terra: sarà la prossima puntata della saga sul “paradosso Expo”?).
Di fronte a questo, Sala, ormai sindaco, ha confezionato (da Londra: come l’Ignazio Marino dei tempi d’oro) un comunicato che ha del surreale, da leggere per intero e che converrebbe far studiare nei corsi di giornalismo e di pubbliche relazioni: “La battaglia per la legalità non deve fermarsi mai, a tutela dei cittadini e delle istituzioni e sosteniamo ogni azione degli organi dello Stato in tal senso. Abbiamo lavorato e stiamo lavorando per proteggere Milano dalle infiltrazioni malavitose e dai rischi di corruzione. Risultati importanti sono stati ottenuti, ma la forza delle organizzazioni criminali non può essere sottovalutata nemmeno per un momento. È quindi un bene proseguire su questa strada e dimostrare così la capacità del sistema Italia di contrastare il malaffare”.
In attesa delle “capacità del sistema Italia” (?) non resta che prendere atto della realtà del sistema mafioso, arrivato a issare la sua bandiera insieme, e forse più in alto, di quelle dei Paesi del mondo che hanno partecipato a Expo.
Il Fatto quotidiano, 7 luglio 2016