di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari
Dichiarazioni dirompenti che, qualora trovassero riscontro negli accertamenti delle competenti procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, potrebbero dare una spinta importante, se non decisiva, nella ricerca della verità sui mandanti esterni delle stragi del 1992 e del 1993. E’ la testimonianza dell’ex agente di polizia penitenziaria Pietro Riggio, che dal 2018 sta rilasciando una serie di dichiarazioni su quanto avvenuto in quel tragico biennio e sulle sue conoscenze con esponenti deviati dei servizi di sicurezza, sentito ieri mattina al processo sulla trattativa Stato-Mafia in corso davanti alla Corte d’Assise d’Appello presieduta da Angelo Pellino (a latere Vittorio Anania).
Solo nei giorni scorsi le Procure di Caltanissetta e Firenze hanno dato l’ok per l’utilizzo dei primi verbali del collaboratore di giustizia.
Quattro ore di udienza in cui sono stati affrontati molteplici argomenti: il ruolo di Marcello Dell’Utri come colui che “suggerisce la creazione del nuovo partito e indica quelli che erano i luoghi delle stragi in Continente”; la creazione di una squadretta per arrivare all’arresto di Bernardo Provenzano; il progetto di attentato al giudice Guarnotta; la morte di Luigi Ilardo; le confidenze raccolte sulla strage di Capaci.
Il “professore” Dell’Utri e quelle confidenze di Vincenzo Ferrara
Rispondendo alle domande dei sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, Riggio ha raccontato le vicissitudini che lo hanno portato ad entrare in relazione con il mondo criminale di Cosa nostra (era cugino di Carmelo Barbieri, uomo di fiducia di Piddu Madonia a Caltanissetta e considerato tra coloro che smistavano le lettere di Bernardo Provenzano) dentro e fuori le carceri.
Alcuni mafiosi, come Ciro Vara, li aveva conosciuti tra il 1984 ed il 1989, quando militava nella squadra di calcio di Vallelunga. Poi divenne agente di polizia penitenziaria, partecipando anche al trasferimento dei boss detenuti, nel luglio 1992, nelle carceri di Pianosa e l’Asinara.
Quindi, nel 1994 ebbe modo di raccogliere delle confidenze di Vincenzo Ferrara, cognato di Piddu Madonia e detenuto nel carcere di Villalba: “Con lui si instaurò un rapporto di amicizia dopo che tentò un suicidio. Mi raccontò il perché era finito nel carcere di Villalba, mi raccontò che si era attivato con il Ros, con un capitano in servizio a Palermo (nome in codice ‘Oscar’), per la cattura di Spatuzza. Ed inizia a commentare tutte le dinamiche che stavano accadendo in quel momento. Mi raccontò che subito dopo la cattura di Madonia, che se non erro avviene alla fine del 1992, ebbe modo di partecipare a delle riunioni a Bagheria. Riunioni in cui si decide la strategia di Cosa nostra, dove veniva comunicato cosa si doveva fare. Lui si lamentava moltissimo perché Madonia non era totalmente d’accordo per la tipologia di stragi”.
E’ a quel punto che avrebbe ricevuto anche le confidenze sull’ex senatore di Forza Italia: “A parere suo era la cagione di tutti i mali. E’ quello che in quel momento stava succedendo quella che doveva essere la politica di Cosa nostra. Tutto lo faceva riferire alla creazione del nuovo partito e alle indicazioni di quelli che erano i punti delle stragi in Continente (Roma, Firenze e Milano, ndr). E infatti mi dice: ‘Tu ti immagini Totò Riina che dice via Palestro a Milano e via dei Georgofili? Ma che ne sa Riina di queste cose? Lui era un ignorante. E’ il professore, lui lo chiama così (Dell’Utri), che suggerisce tutte queste cose per creare una destabilizzazione. ‘Era in atto un golpe bianco e la gente – mi dice – non si rende conto di quello che sta succedendo. Vedrai dove andremo a finire’”. Ferrara gli avrebbe anche parlato di altri soggetti: “Mi parlò di Schifani e La Loggia. Di La Loggia mi disse che il padre era un appartenente alla famiglia mafiosa e poi aggiunse: ‘quelli sono stati sempre avvocati dei mafiosi. Schifani per una vita è stato avvocato dei Graviano e ora all’improvviso sono diventati tutti paladini politici di riferimento, ma noi queste cose le pagheremo”.
Il voto a Forza Italia
Riggio, che per la prima volta venne arrestato nel 1998 nell’operazione “Grande Oriente”, intervenuto in videoconferenza, ha anche riferito che Ferrara gli parlò di un “accordo politico”: “Forza Italia era già nata ed aveva vinto le elezioni. Questa cosa la posso confermare anche per un’altra vicenda riferita da Ciro Vara. Io dissi a lui che appartenevo all’area di centro, del Cdu, ma lui mi dice che noi dovevamo votare Forza Italia, perché questo era il nuovo partito che ci poteva aiutare. Anche da lui, dunque, ricevetti l’input che Forza Italia era considerata all’interno di Cosa nostra”.
Secondo l’ex agente penitenziario il “patto” che si istaurò era per “dare apporto a questa forza politica che di contro avrebbe dato a Cosa nostra l’accoglimento di richieste particolari. L’alleggerimento del 41 bis, le chiusure di Pianosa e l’Asinara, il cambiamento della legge sui collaboratori di giustizia, sono tutti fatti che mi hanno dato prova che quel che disse Ferrara poi, nel tempo, si verificò. Oppure togliere l’ergastolo, o far uscire dal carcere gli ultra Settantenni, impugnare la legge Rognoni-La Torre. Cosa nostra avrebbe fatto carte false pur di ottenere un minimo di queste rivendicazioni. La forza politica scelta fu Forza Italia con il suo trait-d’union, nella persona di Marcello Dell’Utri, ma non solo. La riforma del maxi processo? Ferrara mi disse che l’urgenza era la questione delle carceri. Soprattutto la chiusura di Pianosa e l’Asinara”.
L’incontro con Di Maggio
Proprio rispetto alla chiusura delle carceri delle due isole l’ex agente penitenziario ha riferito di un dialogo, avuto quando era membro del sindacato, con l’ex vice capo del Dap Francesco Di Maggio. Quest’ultimo gli avrebbe dato degli input per fare una rimostranza sindacale ed evidenziare le condizioni pessime in cui si trovavano a svolgere il proprio lavoro gli agenti della penitenziaria proprio nelle carceri di Pianosa e l’Asinara. “Mi venne a trovare e mi disse ‘voi vedete come stanno i vostri colleghi a Pianosa, senza diritti. Perché non andate sull’isola che è invivibile? Dobbiamo riuscire a farla togliere. E quando fate il documento lo mandate anche alla amministrazione e cerchiamo di dare una mano’. E ciò avvenne, ci fu un sopralluogo nell’isola con il nostro segretario generale Capece, e con il leghista Borghezio. E da lì a qualche mese le carceri furono chiuse. Poi ho capito il reale motivo, con la parte politica che aveva dato il contentino alla parte mafiosa”.
Il confronto con il cugino di Ilardo
Nel corso dell’esame il pg Fici ha voluto approfondire un riferimento che compare nel verbale d’interrogatorio del 7 giugno 2018, in cui Riggio afferma di aver parlato degli stessi argomenti sviluppati con Ferrara anche con Angelo Ilardo, cugino dell’infiltrato ucciso nell’aprile 1996. “Io volevo capire se effettivamente vi fosse stata una partecipazione attiva di Cosa nostra a favorire Forza Italia e l’Ilardo mi disse cose ancora più dure da digerire, dicendo che le cose di cui io ero venuto a conoscenza le stava riferendo anche il cugino e che per queste cose fu ucciso”. Quindi, prima di fermarsi facendo riferimento a possibili indagini in corso, ha aggiunto: “Mi disse: ‘Se i mafiosi lo hanno ucciso, lo hanno ucciso per conto dello Stato’, perché Ilardo voleva parlare di quelli che erano gli interessi e gli intrecci che in quel periodo erano intercorsi tra lo Stato e la mafia e di tutti i fatti di cui si erano resi protagonisti i mafiosi per conto della politica. E fu in quella occasione che lui mi disse chi lo aveva venduto per conto dello Stato”.
Rispetto a certi argomenti parlò anche con due marescialli dei carabinieri, Vincenzo Parrella e Pino Del Vecchio, conosciuti nel 1998 nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, che tra il 1993 ed il 1996 si trovavano in Sicilia come membri della squadra del colonnello Riccio. “In particolare con Del Vecchio mi soffermai sulla vicenda di Mezzojuso e la mancata cattura di Provenzano. E lui mi dice che i carabinieri erano stati ostacolati a prendere Bernardo Provenzano e fu dato l’ordine solo di scattare delle foto. Io ricordo che mi arrivavano dei giornali e in uno di questi, se non ricordo male di ANTIMAFIADuemila che era cartaceo, c’era proprio la foto in cui venivano ritratte diverse persone al bivio di Mezzojuso. E lui mi dice che si ricordava della foto. Con Pino Del Vecchio ho avuto la conferma che effettivamente su Provenzano ci fu una volontà espressa di non volerlo catturare. Chi diede l’ordine di non prenderlo? Me lo disse Del Vecchio e il riferimento era a Mori”.
Quei rapporti di “amorosi sensi” tra mafia-carabinieri
Nel corso della sua deposizione Riggio ha anche raccontato un episodio avvenuto nel corso della perquisizione che subì in casa nel novembre 1998, quando i carabinieri del Ros cercavano una lettera che quattro anni prima avrebbe recuperato e ricomposto dalla cella dello stesso Ferrara: “In quella missiva si faceva riferimento a Ferrara con toni minacciosi. Veniva chiamato ‘fradiciume’. Io non ne feci menzione con i superiori, ma a un mio collega. Preferimmo non dire nulla. Io conservai la lettera, finché i carabinieri, durante la perquisizione in casa non la trovarono in un cassetto e fu sequestrata. Parlai di queste cose nel 2018 e so che è stata anche ritrovata”. Sul perché i carabinieri fossero proprio interessati a quella missiva, Riggio ha detto di essersi fatto un’idea non nell’immediatezza ma per quel che ebbe modo di comprendere poi, anche dopo esser entrato in Cosa nostra: “I carabinieri parlavano direttamente con i mafiosi, avevano i punti di riferimento con cui interloquivano. Ed i mafiosi parlavano con i carabinieri. C’era un rapporto di ‘amorosi sensi’ avrebbe detto Foscolo. Era così. Si parlavano liberamente”.
Colloqui investigativi in carcere
La lunga deposizione di Riggio è poi proseguita sul tema della detenzione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e dodici colloqui investigativi che lo videro coinvolto. “Man mano che si svolgevano – ha detto il teste – le persone che mi venivano a trovare non avevano interesse a conoscere delle cose in particolare, ma capire se io avessi l’intenzione di collaborare o meno. Questo fatto mi allarmò e feci richiesta per visionare il fascicolo e vidi che risultavano solo due colloqui investigativi mentre degli altri dieci non vi era traccia. I due che risultavano erano quelli fatti con il Ros dei carabinieri ed il tenente Palmisano. Degli altri non c’era traccia. Loro si presentavano come forze dell’ordine, sempre in borghese. E solo una volta capitò che la stessa persona venuta all’ultimo si presentava al successivo. Le altre volte sempre diverse”. Questi colloqui investigativi sono anteriori alla formale collaborazione iniziata nel 2008. Un riferimento che riporta al cosiddetto “protocollo farfalla”, accordo tra il Dap ed i Servizi per cui era possibile non avvisare l’autorità giudiziaria di eventuali colloqui tra 007 e detenuti.
Task force per la cattura di Provenzano
Nel corso del suo flusso di coscienza il collaboratore di giustizia, oltre a riferire in merito al ruolo avuto all’interno della famiglia mafiosa criminale dei Madonia a Caltanissetta, ha raccontato un episodio avvenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere ed i contatti avuti con alcuni soggetti come Giovanni Peluso e Peppe Porto che gli proposero di entrare in una “task force” per catturare il boss corleonese Bernardo Provenzano, al tempo sempre latitante. “Mi promisero che sarei rientrato in servizio e che mi avrebbero fatto derubricare l’accusa che al tempo c’era nei miei confronti di concorso esterno, e poi c’era una taglia altissima – ha aggiunto – Peluso mi disse che non c’erano problemi perché era in contatto con il Procuratore di Caltanissetta Tinebra, dicendomi che lui era un suo braccio destro. Io in primo grado fui condannato a quattro anni e sei mesi. In secondo grado il reato fu derubricato senza alcun articolo 7 (l’aggravante mafiosa, ndr) e la pena ridotta a due anni e sei mesi”. Rispetto alla creazione della task force il pentito ha raccontato di un incontro avuto all’interno degli uffici della Dia a Roma. “Ricevetti un telegramma con linguaggio criptico dove mi anticiparono che sarei stato portato a Roma per definire la creazione di questa squadra. A Roma arrivai nella mattinata e mi incontrai con l’allora capo centro Dia, Angelo Pellegrini ed il famoso zio Tony, che poi seppi si chiamava Miceli Antonio. Quest’ultimo partecipò alla nostra conversazione ed ebbi la sensazione che era paritario con Pellegrini. Ma se da un lato sapevo che uno era dei carabinieri l’altro non sapevo di cosa facesse parte”.
Successivamente ebbe modo di apprendere che lo “zio Tony” fosse il “deus ex machina” dell’operazione e che lo stesso sarebbe un agente della Cia in Italia.
All’interno del gruppo creato apposta per arrestare il boss corleonese, tempo dopo, sarebbe avvenuta una scissione: “Il Porto non si fidava più di Peluso, lo riteneva pericolosissimo assieme alla moglie, Castro Marianna. E non si fidava neanche di Pellegrino. Così andammo a Bologna ad incontrare il colonnello Tricarico. Lui era molto interessato della situazione che stavamo portando avanti e decidemmo di incontrarci nuovamente a Caltanissetta. A Tricarico dissi i personaggi su cui potevo lavorare per arrivare a Provenzano: Carmelo Barbieri, Giancarlo Giugno, Domenico Vaccaro. Gli elementi di cui si serviva l’associazione per avere contatti. E lui, dopo una verifica, disse che ci si poteva lavorare con una copertura per muoverci. Pochi giorni dopo però, presso la Dia di Caltanissetta fui convocato per notificarmi un atto e lì trovai il colonnello Angelo Pellegrini che si dimostrò a conoscenza del discorso con Tricarico e disse ‘deve farsi i cazzi suoi, lui in queste cose non c’entra nulla, io adesso sono a Palermo e mettiamo in pratica quello che abbiamo iniziato a Roma’. E mi presenta il maggiore Roberto Tersigni”.
Riggio ha quindi riferito le modalità con cui si era “infiltrato” all’interno della famiglia criminale nissena, fino ad essere un “ectoplasma” e capire quelle che erano le dinamiche mafiose che si stavano evolvendo.
L’incontro con Faccia da Mostro
La collaborazione con Pellegrini, ha raccontato il pentito, sarebbe durata fino al giugno 2002, quando lo stesso Capo della Dia sarà trasferito. Tuttavia Riggio avrebbe continuato questo suo ruolo di infiltrato. “Io credevo in quello che facevo. Diedi indicazioni per far individuare la talpa all’interno del tribunale di Caltanissetta che passava le informazioni dall’interno dell’ufficio Gip di Ottavio Sferlazza, e poi altre dinamiche mafiose”. Tutto ciò avvenne, a detta del teste, almeno fino alla fine del 2003 quando avvenne un incontro con Peluso e un altro soggetto con il volto deturpato: “In un primo momento non lo avevo identificato, poi lo riconobbi in Giovanni Aiello, faccia di mostro. Fu proprio Angelo Schillaci (capo provinciale di Cosa nostra) a sollecitarmi per andare all’incontro. Mi disse che già conoscevo le persone. Poi fui contattato da Peluso. Ci incontrammo a Resuttano. Ricordo che venne a bordo di una Bmw, accompagnato da un’altra persona con il volto deturpato, come una sorta di sfregio, ed una donna. Questa scese dalla macchina per un attimo. Aveva i capelli lunghi, la carnagione olivastra ed i pantaloni mimetici. Le prime parole furono di Peluso che disse: ‘La vuoi finire? Non lo sai che i carabinieri riferiscono tutto? Non hai capito qual è il gioco?’ E l’uomo, che si presentò con il nome Filippo aggiunse che se non era per Peluso che mi voleva bene in quel momento già non c’ero più”.
Così come aveva fatto al processo d’appello “Capaci bis” Riggio ha raccontato del progetto di attentato nei confronti del giudice Leonardo Guarnotta (“Peluso venne da me e mi disse che c’era da fare qualcosa di importante, riconducibile a un favore politico”); delle confidenze di Peluso sulla strage di Capaci in riferimento a persone esterne a Cosa nostra coinvolte nell’attentato (“Mi fece la battuta ‘ancora Brusca è coinvolto che il telecomando l’ha schiacciato lui’”), il ruolo dello stesso nel Sismi e la sua vicinanza all’ex questore Arnaldo La Barbera (“Il giorno che morì era in lacrime e mi disse che se ne era andata una persona importante”), i rapporti di Peluso e della moglie con i servizi libici, un successivo incontro con “Filippo”, in carcere.
Proprio in merito a quest’ultimo fatto Riggio ha fatto una denuncia precisa: “Avevo anche le foto, ma mi sono state portate via in una perquisizione nel maggio 2018 a casa della mia compagna, dal tribunale di Monza. Andrò anche al Csm perché si sono presi due fascicoli che non erano pertinenti alle loro indagini uno su Contrada ed uno su Montante. Gli stessi non sono stati menzionati nel verbale di perquisizione, né è stata fatta menzione di nulla”. Sarebbe questo uno dei molteplici problemi che da qualche anno lo stesso collaboratore di giustizia avrebbe avuto, tra pressioni ed inviti a desistere. “Hanno fatto di tutto, anche sotto protezione, per chiudermi la bocca – ha aggiunto rispondendo alla domanda sul motivo per cui solo ora si è deciso a parlare di fatti così eclatanti – Io non so se morirò o vivrò, poco importa. Spero che siano stati trovati tutti i riscontri. Ho fatto trovare le foto, le epistole. E sono stato minacciato velatamente da appartenenti dello Stato. Non dalla mafia. La mafia non mi ha mai cercato, in un qualche senso mi ha lasciato perdere. Fino ad oggi io non sono uscito mai dal carcere e non ho avuto neanche un permesso premio. E chi mi rigetta i benefici, pur avendo tutti i pareri favorevoli, sono i giudici di Roma che nel contesto invece hanno concesso a Dell’Utri la detenzione domiciliare per motivi di salute. Gli stessi giudici di Dell’Utri sono quelli che giudicano i collaboratori. Questo non deve succedere. Per me non è un problema farmi la galera. Per me la decisione è portare alla luce tutte le cose che so. Ancora ho detto poco perché Caltanissetta non è riuscita ad approfondirmi su altre cose che voi state trattando: sul telefono di Riina, sull’omicidio di Gioé (dato particolare tenuto conto che le inchieste ufficiali parlano di suicidio, nonostante i dubbi ndr), e tante altre cose che ancora non ho potuto parlare. Sono testimone diretto con personaggi, fatti e luoghi. Non de relato, ma diretto”. A quel punto i magistrati hanno chiesto se vi fossero indagini in corso con le Procure di Caltanissetta e Firenze, ma il teste ha ribadito che certe cose sono state solo accennate e non sviluppate. Se così fosse è possibile immaginare che alla prossima udienza, il 26 ottobre, quando si terrà il controesame, ci sarnno nuovi approfondimenti.