Il collaboratore di giustizia, Gioacchino Pennino, già teste-chiave nel processo Andreotti, spiega tutte le relazioni storiche ai magistrati della Dda di Reggio Calabria
‘Ndrangheta, Cosa Nostra e massoneria. Ci sono anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia palermitano Gioacchino Pennino – già teste “chiave” nel processo per associazione mafiosa a Giulio Andreotti, conclusosi con la dichiarazione di commissione del reato sino al 1980 e quindi con la prescrizione – a delineare nell’inchiesta “Mammasantissima” della Dda di Reggio Calabria, dal versante siciliano, i legami fra le due organizzazioni criminali e la massoneria.
Al riguardo, il collaboratore di giustizia Pennino, già con un ruolo di spicco nella Democrazia Cristiana siciliana negli anni ’70, ’80 e ’90, nonché esponente di vertice di Cosa Nostra ed appartenente alla massoneria, ha riferito ai magistrati in ordine a tali correlazioni. Sentito in data 25 febbraio 2014, Pennino ha reso dichiarazioni che ad avviso degli inquirenti si rivelano di indubbia attendibilità e chiariscono in maniera più netta le cointeressenze fra mafia siciliana – ‘ndrangheta – servizi segreti deviati andandosi a profilare quale ulteriore step dell’agire “riservato” delle organizzazioni mafiose, e, in particolare, di quella calabrese.
Il profilo di Gioacchino Pennino. Classe 1938, laureato a 23 anni, Pennino (in foto a sinistra) vince un concorso nazionale per funzionario dell’Inam (Istituto nazionale assicurazioni malattie) e viene eletto segretario provinciale di Palermo, e poi regionale in Sicilia, del sindacato dei medici aderente alla Cisl. Intanto apre un laboratorio di analisi chimiche a Palermo. Alla fine degli anni Settanta gli dicono che è stato affiliato a Cosa Nostra, anziché col rito della “pungitura”, in modo riservato. Il tutto al fine di consentirgli di entrare a far parte della loggia P2 di Licio Gelli. Nel 1978 Gioacchino Pennino diventa segretario della circoscrizione Democrazia Cristiana di Ciaculli, e da allora riceve diversi incarichi dal partito, spesso col compito di scegliere i rappresentanti politici delle istituzioni. Ex consigliere comunale di Palermo con la Dc, quando scoppia la seconda guerra di mafia, per non rimetterci la pelle lui e la sua famiglia, si mette a disposizione dei corleonesi di Totò Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano, ma solo da un punto di vista professionale, facendo da sponda fra politica e massoneria.
Dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio si trasferisce con la famiglia in Croazia ma, accusato dal pentito Giovanni Drago, il 9 marzo del 1994 viene arrestato. Estradato dalla Croazia solo per associazione a delinquere (non essendo prevista in quello Stato l’associazione mafiosa), Pennino rinuncia ai ricorsi dei difensori e decide di collaborare, accettando l’estradizione per associazione mafiosa. È il primo pentito a parlare, per esperienza diretta, delle collusioni tra Stato e Cosa Nostra. Agli atti degli inquirenti risulta aver fornito “con le sue dichiarazioni un quadro più grave di ogni pur logica previsione in ordine al potere di controllo pressoché globale esercitato per decenni da Cosa Nostra sul mondo politico palermitano, anche nelle sue proiezioni nazionali”, tanto da raccontare pure delle collusioni di Giulio Andreotti e della sua corrente politica in Sicilia con la mafia.
Pennino, la ‘ndrangheta e la massoneria. In particolare, Pennino racconta di aver personalmente conosciuto in Calabria negli anni ’80 Rocco e Domenico “Mimmo” Musolino. Da appassionato di tiro al volo, Pennino racconta di aver frequentato lo “stand” di Gambarie, frazione di Santo Stefano d’Aspromonte gestito da un fratello di Rocco Musolino, quest’ultimo noto come il “Re della montagna” e già sindaco di Santo Stefano d’Aspromonte. Ad avviso dl collaboratore, Rocco Musolino sarebbe stata una persona circondata “da una vera e propria venerazione, un rispetto enorme, non solo da parte del fratello e dei familiari ma anche da parte di tutti coloro che frequentavano Gambarie”. Da questi comportamenti, Gioacchino Pennino avrebbe capito che Rocco Musolino era affiliato alla ‘ndrangheta calabrese.
Rocco Musolino
“Ho poi avuto modo di frequentare Rocco Musolino – racconta il collaboratore – in quanto insieme al fratello e ad un mio amico ex funzionario regionale a Palermo nonché massone, abbiamo fatto anche, sul finire degli anni ‘80 un viaggio negli Usa, andando a New York e Las Vegas. Si trattava di un viaggio di piacere”. Gioacchino Pennino non esclude quindi l’appartenenza di Rocco Musolino – ritenuto dagli inquirenti legato ai Serraino di Cardeto ma con il ruolo di capo-società a Santo Stefano d’Aspromonte ed a Gambarie– alla massoneria, spiegando di aver appreso da un imprenditore calabrese che Rocco Musolino “unitamente all’on. Misasi, uomo politico corpulento calabrese, il dott. Donnici, pure lui politico calabrese, ed altri ancora, faceva parte di un comitato d’affari che era pienamente attivo in Calabria e che ricomprendeva ‘ndrangheta, massoneria e politica”. Riccardo Misasi è stato anche fra gli indagati dell’operazione antimafia “Olimpia” ma è stato poi prosciolto.
Pennino spiega inoltre che il rispetto di cui godeva Rocco Musolino (morto all’età di 86 anni nell’aprile 2013 e destinatario nel marzo 2013 di un sequestro di beni da 150 milioni di euro) era, per le modalità con cui si manifestava, in tutto simile a quello di cui godeva suo zio di Gioacchino Pennino (omonimo del nipote), uomo d’onore della famiglia palermitana di Brancaccio. Lo stesso zio dl collaboratore, sarebbe stato negli anni ’60 ospite, da latitante, dei Nuvoletta nel napoletano. “La cosa non deve sorprendere in quanto Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Sacra Corona Unita – ha raccontato Pennino – sono da sempre unite fra loro. Sarebbe meglio dire sono una cosa sola. Da lì mio zio, come mi raccontò, si recava in Calabria dove mi disse che aveva messo insieme massoni, ‘Ndrangheta, servizi segreti, politici per fare affari e gestire il potere. Una sorta di comitato d’affari perenne e stabile”.
Stefano Bontate
Salvatore Riina
In seguito, essendone molto amico, pochi mesi prima della sua morte, nel 1980/1981, il futuro collaboratore si sarebbe trovato a parlare con l’allora numero uno di “Cosa Nostra” Stefano Bontate. Nel corso di tale incontro, Bontate avrebbe detto a Pennino che avrebbe avuto molto piacere a veder continuare “quel progetto dello zio” (il comitato d’affari fra criminali, massoni e servizi) non solo in Calabria, dove si era consolidato, ma anche in Sicilia dove il progetto era ancora in fase embrionale. Gioacchino Pennino, con molta diplomazia, racconta però di essere riuscito a svicolarsi ed a declinare l’invito, non volendo assumere tale ruolo.
Bernardo Provenzano
Pennino spiega infine che Giuseppe Di Maggio era il rappresentante della famiglia di Brancaccio fra gli anni ’70 ed ’80. Dopo la morte di Stefano Bontate (fatto uccidere dai corleonesi di Totò Riina) venne quindi destituito da tale ruolo e in seguito ucciso pure lui. “Egli sicuramente conosceva bene Provenzano – evidenzia Pennino – e per questo fu in grado di farmi delle confidenze sulla vicinanza del Provenzano alla destra eversiva ed ai servizi segreti nonché alla ‘ndrangheta calabrese. Era voce diffusa che Provenzano giocasse su più tavoli, non solo quello di Cosa Nostra”. (g.b.)
07/08/2016
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