di Karl Marx e Friedrich Engels
Scritto tra il dicembre 1847 e il gennaio 1848
Pubblicato per la prima volta in opuscolo a Londra nel febbraio 1848.
Traduzione conforme a quella delle Edizioni in lingue estere di Mosca.
Collana diretta e curata da Sergio Manes
Indice
Nota dell’editore
Prefazione all’edizione russa del 1882
Prefazione all’edizione tedesca del 1883
Prefazione all’edizione inglese del 1888
Prefazione all’edizione tedesca del 1890
Prefazione all’edizione italiana del 1893
Manifesto del Partito Comunista
I . Borghesi e proletari
II . Proletari e comunisti
III. Letteratura socialista e comunista
1. Il socialismo reazionario
a) Il socialismo feudale
b) Il socialismo piccolo-borghese
c) Il socialismo tedesco o il “vero socialismo”
2. Il socialismo conservatore borghese
3. Il socialismo e il comunismo critico-utopistici
IV . Posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti d’opposizione
Note
Nota dell’editore
Il Manifesto del Partito Comunista è certamente il primo e il più grande documento programmatico del socialismo scientifico, una sintesi insuperata dei principi che sono stati e saranno la base stessa delle lotte del proletariato mondiale, uno strumento fondamentale per comprendere gli obbiettivi storici della classe operaia, i suoi metodi, la sua teoria.
Il linguaggio scarno ed incisivo, la lucidità della esposizione, e la sinteticità che lo caratterizzano fanno ancora oggi del Manifesto l’opera più indicata ad introdurre al marxismo.
Lenin diceva del Manifesto: “In quest’opera, vengono delineate con chiarezza e vivacità geniali la nuova concezione del mondo, il materialismo conseguente, esteso al campo della vita sociale, la dialettica, come la più completa e profonda dottrina dell’evoluzione, e la teoria della lotta di classe e della funzione storica rivoluzionaria del proletariato, creatore di una nuova società, della società comunista” (Cfr.: Lenin, Karl Marx).
“Questo libriccino vale molti volumi: il suo spirito fa vivere ed operare ancora oggi tutto il proletariato organizzato e combattente del mondo civile” (Cfr.: Lenin, Friedrich Engels.
Su questo “libriccino” si sono formati in tutto il mondo per anni e anni migliaia e migliaia di quadri rivoluzionari che per la prima volta si avvicinavano alla teoria della rivoluzione proletaria.
Lo stesso Engels riconosceva, soltanto alcuni anni dopo, che qua e là il Manifesto era invecchiato. A maggior ragione potrebbe esserlo oggi. Tuttavia, a quasi centocinquanta anni dalla sua stesura, nonostante tutto, il Manifesto mantiene inalterata la sua validità e la sua attualità perché è stato e rimane la dichiarazione di guerra ufficiale del proletariato alla borghesa e la proclamazione dei suoi obbiettivi storici di classe.
* * *
La traduzione prescelta è quella delle Edizioni in lingue estere di Mosca a cui sono state aggiunte quelle precisazioni che Engels stesso ritenne di aggiungere al testo originario nella edizione inglese del 1888.
Sono state inserite, con il rischio di qualche inevitabile ripetizione, le principali prefazioni per gli spunti e le chiarificazioni in esse contenuti, compresa quella all’edizione italiana che fa il punto della situazione nel nostro paese dal 1848 al 1893.
Le note che Engels è andato inserendo nelle varie edizioni del Manifesto sono state poste a piede di pagina, mentre in appendice sono state raggruppate, per il lettore che volesse prendersi la briga di consultarle, alcune brevi annotazioni di commento o di chiarificazione relative sia alle prefazioni che al testo del Manifesto.
Prefazione all’edizione russa del 1882
La prima edizione russa del Manifesto del Partito comunista, tradotto da Bakunin1, uscí dopo il 1860 dalla tipografia del Kolokol2. In quell’epoca un’edizione russa del Manifesto aveva per l’Occidente tutt’al piú l’importanza di una curiosità letteraria. Oggi non piú. Quanto fosse angusta in quel tempo (dicembre 1847) la cerchia di diffusione del movimento proletario, lo mostra nel modo piú chiaro l’ultimo capitolo del Manifesto: Posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti di opposizione nei diversi paesi. La Russia e gli Stati Uniti non vi sono nemmeno menzionati. Erano i tempi in cui la Russia costituiva l’ultima grande riserva di tutta la reazione europea e l’emigrazione negli Stati Uniti assorbiva le forze esuberanti del proletariato europeo. Entrambi quei paesi rifornivano l’Europa di materie prime e le servivano al tempo stesso di mercato per i suoi prodotti industriali. Cosí entrambi, in un modo o nell’altro, erano dei bastioni dell’ordine sociale esistente in Europa.
Come tutto ciò è oggi mutato! Precisamente l’immigrazione europea ha reso possibile il colossale sviluppo dell’agricoltura nord-americana, che con la sua concorrenza scuote le basi della grande come della piccola proprietà terriera in Europa. Essa ha dato inoltre agli Stati Uniti la possibilità di intraprendere lo sfruttamento delle sue ricche risorse industriali, e con tale energia e in cosí vasta misura che in breve tempo porrà fine al monopolio industriale dell’Europa occidentale e particolarmente dell’Inghilterra. Queste due circostanze agiscono poi a loro volta sull’America stessa in senso rivoluzionario. La piccola e media proprietà fondiaria dei proprietari di fattorie, che è la base di tutto l’ordinamento politico americano, soccombe sempre piú alla concorrenza delle fattorie gigantesche, mentre nei distretti industriali si forma, per la prima volta, un proletariato numeroso accanto a una favolosa concentrazione dei capitali.
Passiamo alla Russia. All’epoca della rivoluzione del 1848-49, non solo i monarchi, ma anche i borghesi europei vedevano nell’intervento russo l’unica salvezza contro il proletariato, che proprio allora incominciava a risvegliarsi. Essi proclamarono lo zar capo della reazione europea. Oggi egli3 se ne sta nella sua Gatcina4, prigioniero di guerra della rivoluzione, e la Russia forma l’avanguardia del movimento rivoluzionario in Europa5.
Il compito del Manifesto del Partito comunista fu la proclamazione dell’inevitabile e imminente crollo dell’odierna proprietà borghese. Ma in Russia accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e accanto alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, noi troviamo oltre la metà del suolo in proprietà comune dei contadini6. Si affaccia quindi il problema: la comunità rurale russa, questa forma in gran parte già dissolta, è vero, della originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una piú alta forma comunistica di proprietà terriera, o dovrà attraversare prima lo stesso processo di dissoluzione che costituisce lo sviluppo storico dell’Occidente?
La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà di segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire di punto di partenza per una evoluzione comunista.
Londra, 21 gennaio 1882.
Karl Marx, Friedrich Engels
Prefazione all’edizione tedesca del 1883
Purtroppo la prefazione alla presente edizione debbo firmarla io solo. Marx, l’uomo a cui tutta la classe operaia d’Europa e d’America deve piú che ad alcun altro, riposa nel cimitero di Highgate, e sulla sua tomba già cresce la prima erba. Dopo la sua morte meno che mai si può parlare di una rielaborazione o di un completamento del Manifesto. Tanto piú credo necessario riaffermare qui ancora una volta esplicitamente quanto segue.
Il pensiero fondamentale, cui si informa il Manifesto — che la produzione economica e la struttura sociale che necessariamente ne consegue formano, in qualunque epoca storica, la base della storia politica e intellettuale dell’epoca stessa; che, conforme a ciò, dopo il dissolversi della primitiva proprietà comune del suolo, tutta la storia è stata una storia di lotte di classi, di lotte tra classi sfruttate e classi sfruttatrici, tra classi dominate e classi dominanti, in diversi gradi dello sviluppo sociale; che questa lotta ha ora raggiunto un grado in cui la classe sfruttata e oppressa (il proletariato) non può piú liberarsi dalla classe che la sfrutta e la opprime (la borghesia), senza liberare anche a un tempo, e per sempre, tutta la società dallo sfruttamento, dall’oppressione e dalle lotte fra le classi — questo pensiero fondamentale appartiene a Marx unicamente ed esclusivamente.
Tutto ciò dissi già molte volte; ma proprio ora è necessario premetterlo al Manifesto stesso.
Londra, 28 giugno 1883
Friedrich Engels
Prefazione all’edizione inglese del 1888
Il Manifesto fu pubblicato come la piattaforma della Lega dei Comunisti 7, un’associazione di operai, prima esclusivamente tedesca, poi intenazionale, e, nelle condizioni politiche dell’Europa precedente il 1848, inevitabilmente una società segreta. Ad un congresso della Lega tenuto a Londra nel novembre del 1847, Marx ed Engels ebbero l’in-carico di preparare per la pubblicazione un programma completo teorico e pratico del partito. Abbozzato in Germania nel gennaio del 1848, il manoscritto fu mandato per la stampa a Londra poche settimane prima della rivoluzione francese del 24 febbraio. Una traduzione francese fu pubblicata a Parigi poco prima dell’insurrezione del giugno 1848. La prima traduzione in inglese, fatta da Miss Helen Macfarlane, apparve nel Red Republican di George Julian Harney, a Londra nel 1850. Furono pubblicate anche una edizione danese ed una polacca.
La sconfitta dell’insurrezione parigina del giugno 18488 — la prima grande battaglia tra proletariato e borghesia — ricreò di nuovo, per un certo tempo, le condizioni in cui s’erano sviluppate le aspirazioni sociali e politiche della classe operaia europea. Da allora in poi, la lotta per la supremazia fu di nuovo, come era stata prima della rivoluzione di febbraio, soltanto tra strati diversi della classe dei proprietari; la classe operaia era costretta a combattere per un suo spazio politico e per un posto nell’ala estrema dei radicali borghesi. Ovunque i movimenti proletari indipendenti continuarono a dare segni di vita, furono perseguitati spietatamente. Così la polizia prussiana scovò il Comitato Centrale della Lega dei Comunisti che allora aveva sede a Colonia. I membri furono arrestati, e, dopo diciotto mesi di prigione, furono processati nell’ottobre del 1852. Questo famoso Processo dei Comunisti di Colonia9 durò dal 4 ottobre fino al 12 novembre; sette degli imputati furono condannati a pene variabili dai tre ai sette anni di prigione in fortezza. Subito dopo la sentenza, la Lega fu formalmente disciolta dai membri superstiti. In quanto al Manifesto, da allora in poi sembrò essere condannato all’oblio.
Quando la classe operaia europea ebbe recuperato forza sufficiente per un altro attacco contro le classi dominanti, sorse l’Associazione Internazionale degli Operai. Ma questa assocazione, nata con lo scopo dichiarato di unire in un sol corpo l’intero proletariato militante d’Europa e d’America, non poteva proclamare subito i principi esposti nel Manifesto. L’Internazionale doveva avere un programma abbastanza ampio da poter essere accettato dalle Trades-Unions inglesi, dai seguaci di Proudhon in Francia, Belgio, Italia e Spagna e i seguaci di Lassalle* in Germania. Marx, che stese questo programma per soddisfare tutte le parti, confidava interamente in quello sviluppo intellettuale della classe operaia che doveva sicuramente scaturire dall’azione comune e dalla reciproca discussione. Gli stessi avvenimenti e vicissitudini della lotta contro il capitale, le sconfitte ancor più dei successi, non potevano fare a meno di far comprendere agli uomini l’insufficienza delle varie panacee da loro usate, e a preparare loro la strada per una comprensione più completa delle vere condizioni dell’emancipazione della classe operaia. E Marx aveva ragione. L’Internazionale, al suo scioglimento nel 1874 lasciò gli operai abbastanza diversi da quelli che erano nel 1864. Il Proudhonismo in Francia, il Lassallianesimo in Germania stavano scomparendo e perfino le Trades-Unions conservatrici inglesi, sebbene la maggior parte di esse avessero da tempo rotto i propri legami con l’Internazionale avevano progredito al punto tale che l’anno scorso a Swansea il loro presidente poteva dire in loro nome: “il socialismo del continente ha cessato di atterrirci”. Infatti, i principi del Manifesto avevano fatto considerevoli progressi tra gli operai di tutti i paesi. Così il Manifesto stesso venne alla ribalta di nuovo. Il testo tedesco fin dal 1850 era stato stampato più volte in Svizzera, Inghilterra ed America. Nel 1872 fu tradotto in inglese a New York, dove la traduzione fu pubblicata nel Woodhull and Claflin’s Weekly. Da questa versione inglese ne fu fatta una francese ne Le Socialiste di New York. Da allora ne furono pubblicate in America almeno altre due in inglese più o meno complete, ed una di esse è stata ristampata in Inghilterra. La prima traduzione russa fatta da Bakunin, fu pubblicata nella tipogr. del Kolokol di Herzen a Ginevra, nel 1863 circa; una seconda dell’eroica Vera Zasulich, anche a Ginevra nel 1882. Una nuova edizione danese si può trovare nel Socialdemkratisk Bibliothek a Copenhagen, nel 1885; una nuova traduzione francese ne Le Socialiste a Parigi, nel 1886. Da questa ultima traduzione fu preparata e pubblicata una versione spagnola a Madrid nel 1886. Le ristampe tedesche sono innumerevoli, ve ne sono state almeno 12. Una traduzione armena che doveva essere pubblicata a Costantinopoli alcuni mesi fa, non ha visto la luce, mi si dice, perché l’editore aveva paura di pubblicare un libro con il nome di Marx, mentre il traduttore rifiutò di farsi considerare l’autore. Ho udito parlare di altre traduzioni in altre lingue, ma non le ho viste, così la storia del Manifesto riflette grosso modo la storia dell’attuale movimento della classe operaia; ora esso rappresenta senza dubbio il prodotto più diffuso e più internazionale di tutta la letteratura socialista, la piattaforma comune riconosciuta da milioni di operai dalla Siberia alla California.
Eppure quando fu scritto noi non avremmo potuto chiamarlo Manifesto socialista. Per socialisti nel 1847, si intendeva da una parte gli aderenti ai vari sistemi utopistici: Owenisti in Inghilterra, Fourieristi in Francia, entrambi già ridotti alle condizioni di semplici sette, e che mano a mano andavano scomparendo, dall’altro i più svariati ciarlatani sociali, che, affaccendandosi in ogni modo, promettevano di guarire le miserie sociali, senza portare danno al capitale e al profitto, e in entrambi i casi erano uomini estranei al movimento operaio e miravano ad un appoggio delle classi “colte”.
Al contrario una parte della classe operaia s’era convinta dell’insufficienza delle rivoluzioni soltanto politiche ed aveva proclamato la necessità di una totale trasformazione della società, quella parte poi chiamò se stessa comunista. Una forma di comunismo bruto, rozzo, puramente istintivo; eppure esso ebbe tale successo e fu talmente influente all’interno della classe operaia da produrre il comunismo utopistico: in Francia di Cabet e in Germania di Weitling. Così, il socialismo era nel 1847 un movimento delle classi medie, il comunismo un movimento della classe operaia. Il socialismo, fu, almeno nel continente, “rispettabile”; il comunismo fu esattamente l’opposto. Ed essendo la nostra opinione sin dall’inizio che “l’emancipazione della classe operaia deve essere opera della classe operaia stessa”10 non poteva esserci dubbio quale dei due nomi noi avremmo dovuto scegliere. Comunque noi siamo stati fin da allora lontani dal ripudiarlo.
Pur essendo il Manifesto nostra opera comune, io credo di poter affermare che la tesi fondamentale che costituisce il suo nucleo appartiene a Marx. Questa tesi è: che in ogni epoca storica il sistema prevalente di produzione e di scambio e la struttura sociale che necessariamente ne consegue, formano la base su cui si costruisce la storia politica ed intellettuale dell’epoca in questione, e attraverso le quali soltanto può essere spiegata; che di conseguenza tutta la storia dell’umanita (fin dalla dissoluzione delle primitive società tribali, che possedevano la terra in proprietà comune) è stata sempre una storia di lotte di classi, lotta tra sfruttati e sfruttatori, classi dominanti e oppresse; che la storia di queste lotte di classi determina una serie di sviluppi di cui, oggigiorno, è stato raggiunto uno stadio in cui la classe sfruttata ed oppressa — il proletariato — non può conseguire la sua emancipazione dal dominio della classe sfruttatrice e dominante — la borghesia — senza allo stesso tempo, e una volta per tutte, emancipare tutta la società da ogni tipo di sfruttamento, oppressione, divisione e lotta di classe.
A questa affermazione che secondo noi è destinata a diventare nella storia quella che è stata la teoria di Darwin in biologia, entrambi c’eravamo avvicinati gradualmente alcuni anni prima del 1845. Quanto abbia progredito da solo verso questa tesi è dimostrato il più chiaramente possibile dalla mia opera La situazione della classe operaia in Inghilterra. Ma quando rincontrai Marx a Bruxelles nella primavera del 1845 egli già aveva risolto la questione e me la presentò in termini tanto chiari quasi quanto quelli con cui io v’è l’ho presentata qui. Dalla nostra prefazione comune all’edizione tedesca del 1872, io cito la parte seguente:
“Per quanto sia mutata la situazione negli ultimi venticinque anni , i principi generali svolti in questo Manifesto sono ancora oggi, in complesso, del tutto giusti. Qualche cosa sarebbe qua e là da ritoccare. L’applicazione pratica di questi principi, come spiega lo stesso Manifesto, dipenderà in ogni luogo e in ogni tempo dalle circostanze storiche del momento, e perciò non si dà nessuna particolare importanza alle misure rivoluzionarie proposte alla fine del capitolo II. Oggi questo passo sarebbe, sotto molti rapporti, altrimenti redatto. Di fronte all’immenso sviluppo della grande industria negli ultimi venticinque anni e al progrediente sviluppo della organizzazione di partito della classe operaia, che l’accompagna; di fronte alle esperienze pratiche, prima della rivoluzione di febbraio e poi, a maggior ragione, della Comune di Parigi11, nella quale, per la prima volta, il proletariato tenne per due mesi il potere politico, questo programma è oggi qua e là invecchiato. La Comune, specialmente, ha fornito la prova che “la classe operaia non può impossessarsi puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in moto per i suoi propri fini”12. (Si veda La guerra civile in Francia. Indirizzo del Consiglio generale dell’Associazione Internazionale degli Operai, edizione tedesca, p. 19, dove questo concetto è svolto più diffusamente). È poi naturale che la critica della letteratura socialista sia, pei nostri giorni, incompleta giungendo essa soltanto fino al 184713; lo stesso dicasi delle osservazioni circa la posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti di opposizione (capitolo IV), le quali, se pur sono giuste ancor oggi nei principi generali, sono tuttavia invecchiate nei particolari, perché la situazione politica si è completamente trasformata e l’evoluzione storica ha fatto sparire la maggior parte dei partiti ivi enumerati.
“Il Manifesto, però, è un documento storico, al quale non ci sentiamo più in diritto di fare modificazioni”.
Questa traduzione è stata fatta da Mr. Samuel Moore, traduttore della maggior parte del Capitale di Marx. Noi l’abbiamo rivista insieme. Ed io ho aggiunto poche note per spiegare i riferimenti storici.
Londra, 30 gennaio 1888.
Friedrich Engels
Dalla prefazione all’edizione tedesca del 1890
Il Manifesto ha avuto un suo proprio destino. Salutato con entusiasmo al suo primo apparire dall’avanguardia, allora poco numerosa, del socialismo scientifico (come lo provano le traduzioni citate nella prima prefazione), venne ben presto respinto nell’ombra dalla reazione iniziatasi con la sconfitta degli operai parigini nel giugno del 1848, e infine scomunicato e messo al bando “in nome della legge” con la condanna dei comunisti di Colonia nel novembre 1852. Con la scomparsa dalla pubblica scena di quel movimento operaio, che datava dalla rivoluzione di febbraio, scomparve dalla scena anche il Manifesto.
Quando la classe operaia europea si fu di nuovo sufficientemente rafforzata per poter dare un nuovo assalto al potere delle classi dominanti, sorse la Associazione Internazionale degli Operai.
Essa aveva per scopo di fondere in un solo grande esercito tutta la classe operaia combattiva d’Europa e d’America. Essa non poteva quindi prendere le mosse dai princìpi esposti nel Manifesto. Doveva avere un programma che non chiudesse la porta alle Trade-Unions inglesi, ai proudhoniani francesi, belgi, italiani e spagnuoli e ai lassalliani tedeschi*. Questo programma — che fa da premessa agli Statuti dell’Internazionale — fu abbozzato da Marx con una maestria riconosciuta persino da Bakunin e dagli anarchici. Per la vittoria finale delle tesi enunciate nel Manifesto, Marx confidava unicamente ed esclusivamente in quello sviluppo intellettuale della classe operaia, che doveva necessariamente scaturire dall’azione comune e dallla discussione. Gli eventi e le vicende della lotta contro il capitale, le sconfitte ancora piú che i successi, non potevano fare a meno di dimostrare ai combattenti l’insufficienza delle panacee in uso fino allora, e rendere piú accessibili alle loro menti le vere condizioni dell’emancipazione operaia. E Marx aveva ragione. La classe operaia del 1874, quando si sciolse l’Internazionale, era tutt’altra da quella del 1864, quando la si era fondata. Il proudhonismo nei paesi latini, il lassallianismo specifico in Germania erano in agonia, e persino le Trade-Unions inglesi, prima arciconservatrici, si avvicinavano, a poco a poco, a quel punto in cui, nel 1887, il presidente del loro Congresso a Swansea poté dire in loro nome: “Il socialismo continentale ha cessato d’essere per noi uno spauracchio”. Ma questo socialismo continentale già nel 1887 era quasi esclusivamente la teoria proclamata nel Manifesto. E così la storia del Manifesto rispecchia fino a un certo punto la storia del moderno movimento operaio dopo il 1848. Attualmente esso è, senza dubbio, il prodotto piú diffuso e piú internazionale di tutta la letteratura socialista, il programma comune di molti milioni di operai di tutti i paesi, dalla Siberia alla California.
Eppure quando vide la luce non avremmo potuto intitolarlo manifesto socialista. Sotto il nome di socialista si intendevano nel 1847 due specie di persone. Da un lato i seguaci dei vari sistemi utopistici, specialmente gli owenisti in Inghilterra e i fourieristi in Francia, gli uni e gli altri già ridotti a semplici sètte che andavano a poco a poco estinguendosi. Dall’altro lato i molteplici dulcamara sociali, che con le loro varie panacee e con ogni sorta di rattoppi volevano guarire le miserie sociali, senza fare alcun male al capitale e al profitto. In entrambi i casi, gente che stava al di fuori del movimento operaio e cercava piuttosto un appoggio tra le classi “colte”. Al contrario, quella parte di operai che, convinta dell’insufficienza di semplici rivolgimenti politici, esigeva una trasformazione radicale della società, quella parte si chiamava allora comunista. Era un comunismo appena abbozzato, di puro istinto, talora un po’ grezzo, ma era abbastanza forte per produrre due sistemi di comunismo utopistico, in Francia quello “icarico” di Cabet, in Germania quello di Weitling. Nel 1847 socialismo significava un movimento borghese, comunismo un movimento operaio. Il socialismo, almeno sul Continente, era una dottrina ammissibile nei salotti, il comunismo era giusto il contrario. E poiché fin da allora noi eravamo decisamente d’avviso che “l’emancipazione degli operai deve essere opera della classe operaia stessa” è chiaro che non potevamo rimanere un istante in dubbio su quale dei due nomi dovessimo scegliere. Né mai dopo d’allora ci passò per il capo di mutarlo.
“Proletari di tutti i paesi, unitevi!”.
Solo poche voci risposero, quando, sono ormai quarantadue anni, lanciammo pel mondo quel grido, alla vigilia della prima rivoluzione parigina in cui il proletariato si fece avanti con rivendicazioni proprie. Ma il 28 settembre 1864 proletari della maggior parte dei paesi dell’Europa occidentale si unirono nell’Associazione Internazionale degli Operai di gloriosa memoria. L’Internazionale, è vero, non visse che nove anni. Ma la prova migliore che l’eterna unione da essa fondata fra i proletari di tutti i paesi è ancora viva e piú forte che mai, è la giornata d’oggi. Oggi infatti, mentre scrivo queste righe, il proletariato europeo e americano passa in rassegna le sue forze, per la prima volta mobilitate come un solo esercito, sotto una sola bandiera e per un solo scopo immediato: la introduzione per legge della giornata normale di lavoro di otto ore, già proclamata dal Congresso di Ginevra dell’Internazionale nel 1866 e poi, per la seconda volta, dal Congresso operaio di Parigi nel 1889. E lo spettacolo di questa giornata mostrerà chiaramente ai capitalisti e ai proprietari terrieri di tutti i paesi che oggi i proletari di tutti i paesi si sono di fatto uniti.
Almeno fosse Marx accanto a me per veder questo spettacolo coi propri occhi!
Londra, 1° maggio 1890.
Friedrich Engels
Prefazione all’edizione italiana del 1893
Al lettore italiano
La pubblicazione del Manifesto del Partito comunista coincidette, quasi giorno per giorno, con le rivoluzioni di Milano e di Berlino del 18 marzo 1848, che furono la levata di scudi delle due nazioni situate nel centro l’una del Continente, l’altra del Mediterraneo; due nazioni fino allora indebolite dalla divisione e dalla discordia all’interno e passate, per conseguenza, sotto il dominio straniero. Se l’Italia era soggetta all’imperatore d’Austria, la Germania subiva il giogo non meno effettivo, benché indiretto, dello zar di tutte le Russie. Le conseguenze del 18 marzo 1848 liberarono l’Italia e la Germania da codesta vergogna. Se dal 1848 al 1871 queste due grandi nazioni sono state ricostituite, e, in qualche modo, rese a se stesse, ciò avvenne, come diceva Carlo Marx, perché gli uomini che avevano abbattuto la rivoluzione del 1848 ne divennero tuttavia, loro malgrado, gli esecutori testamentari14.
Dappertutto, quella rivoluzione fu l’opera della classe operaia; fu questa che fece le barricate e pagò di persona. Solo gli operai di Parigi, rovesciando il governo, avevano l’intenzione ben determinata di rovesciare il regime della borghesia. Ma, per quanto essi avessero coscienza dell’antagonismo fatale che esisteva fra la loro propria classe e la borghesia, né il progresso economico del paese, né lo sviluppo intellettuale delle masse operaie francesi erano giunti al grado che avrebbe reso possibile una ricostruzione sociale. I frutti della rivoluzione furono dunque raccolti, in ultima analisi, dalla classe capitalista. Negli altri paesi, in Italia, in Germania, in Austria, in Ungheria, gli operai non fecero, dapprincipio, che portare al potere la borghesia. Ma in nessun paese il regno della borghesia è possibile senza l’indipendenza nazionale. La rivoluzione del 1848 doveva dunque trarsi dietro l’unità e l’autonomia delle nazioni che fino allora ne erano state prive: I’Italia, I’Ungheria, la Germania. La Polonia seguirà a sua volta.
Se, dunque, la rivoluzione del 1848 non fu una rivoluzione socialista, essa spianò la via, preparò il terreno a quest’ultima15. Con lo slancio dato, in ogni paese, alla grande industria, il regime borghese degli ultimi quarantacinque anni ha creato dappertutto un proletariato numeroso, concentrato e forte; ha allevato dunque, per usare l’espressione del Manifesto, i suoi propri seppellitori. Senza l’autonomia e l’unità restituite a ciascuna nazione europea, nè l’unione internazionale del proletariato, nè la tranquilla ed intelligente cooperazione di queste nazioni verso fini comuni potrebbero compiersi. Immaginate, se vi riesce, un’azione internazionale e comune degli operai italiani, ungheresi, tedeschi, polacchi, russi, nelle condizioni politiche precedenti il 1848!
Così le battaglie del 1848 non furono date invano; i quarantacinque anni che ci separano da quella tappa rivoluzionaria del pari non sono passati invano. I frutti vengono a maturazione, e tutto ciò che io desidero è che la pubblicazione di questa traduzione italiana del Manifesto sia di altrettanto buon augurio per la vittoria del proletariato italiano, quanto la pubblicazione dell’originale lo fu per la rivoluzione internazionale.
Il Manifesto del Partito comunista rende piena giustizia all’azione rivoluzionaria del capitalismo nel passato. La prima nazione capitalista fu l’Italia. Il chiudersi del Medioevo feudale, l’aprirsi dell’era capitalista moderna sono contrassegnati da una figura gigantesca: quella di un italiano, Dante, al tempo stesso l’ultimo poeta del Medioevo e il primo poeta moderno. Oggi, come nel 1300, una nuova era storica si affaccia. L’Italia ci darà essa il nuovo Dante, che segni l’ora della nascita di questa era proletaria?
Londra, 1893
Friedrich Engels
Manifesto del Partito Comunista
Uno spettro si aggira per l’Europa — lo spettro del comunismo16. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro.
Quale è il partito d’opposizione, che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere? E quale è il partito d’opposizione, che, a sua volta, non abbia ritorto l’infamante accusa di comunista contro gli elementi più avanzati dell’opposizione o contro i suoi avversari reazionari?
Da questo fatto si ricavano due conclusioni.
Il comunismo è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.
È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che alla favola dello spettro del comunismo contrappongano un manifesto del partito.
A tal fine, comunisti delle più varie nazionalità si sono riuniti a Londra e hanno redatto il seguente manifesto, che viene pubblicato in lingua inglese, francese, tedesca, italiana, fiamminga e danese.
I. Borghesi e proletari*
La storia di ogni società sinora esistita** è storia di lotte di classi17. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosa, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta.
Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione della società in varie caste, una multiforme gradazione delle posizioni sociali. Nell’antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, maestri d’arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre speciali gradazioni.
La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche.
L’epoca nostra, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato.
Dai servi della gleba del Medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da questi borghigiani ebbero sviluppo i primi elementi della borghesia.
La scoperta dell’America e la circumnavigazione dell’Africa offrirono un nuovo terreno alla nascente borghesia. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell’America, lo scambio con le colonie, l’aumento dei mezzi di scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima d’allora sconosciuto al commercio, alla navigazione, all’industria, e in pari tempo favorirono il rapido sviluppo dell’elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che s’andava sfasciando.
L’organizzazione feudale o corporativa dell’industria da quel momento non bastò più ai bisogni, che andavano crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura. I maestri di bottega vennero soppiantati dal medio ceto industriale; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nelle singole officine stesse18.
Ma i mercati continuavano a crescere, e continuavano a crescere i bisogni. Anche la manifattura non bastava più. Ed ecco il vapore e le macchine rivoluzionare la produzione industriale19. Alla manifattura subentrò la grande industria moderna; al medio ceto industriale succedettero gli industriali milionari, i capi di interi eserciti industriali, i moderni borghesi.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell’America aveva preparato. Il mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per terra20. Quello sviluppo, a sua volta, ha reagito sull’espansione dell’industria; e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi che erano una eredità del Medioevo.
Vediamo dunque come la stessa borghesia moderna sia il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi della produzione e del traffico.
Ognuno di questi stadi nello sviluppo della borghesia fu accompagnato da un corrispondente progresso politico di questa classe. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazione armata e autonoma del Comune *, qui repubblica municipale indipendente come in Italia e in Germania, là terzo stato tributario della monarchia come in Francia, poi, al tempo della manifattura, contrappeso alla nobiltà nella monarchia a poteri limitati o in quella assoluta, principale fondamento, in generale, delle grandi monarchie, col costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, la borghesia si è impadronita finalmente della potestà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese21.
La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria.
Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l’uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato “pagamento in contanti”. Essa ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell’esaltazione religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido22.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l’innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.
La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari.
La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione di forza, che i reazionari tanto ammirano nel Medioevo, avesse il suo appropriato completamento nella più infingarda poltroneria. Essa per prima ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali23. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.
Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni.
Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili – industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. E come nella produzione materiale, così anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale.
Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città24. Ha creato città enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella rurale, e così ha strappato una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rustica. Come ha assoggettato la campagna alla città, così ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi, l’Oriente dall’Occidente25.
La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale.
Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo — quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale?
Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate.
Subentrò ad esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa adatta, col dominio economico e politico della classe borghese.
Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate. Da qualche decina d’anni la storia dell’industria e del commercio non è che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l’esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione26. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte27. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi.
Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa.
Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte; essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi — i moderni operai, i proletari.
Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, i quali vivono solo fino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto28, sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e perciò sono egualmente esposti a tutte le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.
Il lavoro dei proletari, con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro ha perduto ogni carattere d’indipendenza e quindi ogni attrattiva per l’operaio. Questi diventa un semplice accessorio della macchina, un accessorio a cui non si chiede che un’operazione estremamente semplice, monotona, facilissima ad imparare. Le spese che l’operaio procura si limitano perciò quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza necessari pel suo mantenimento e per la propagazione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, e quindi anche il prezzo del lavoro29 è eguale al suo costo di produzione. Così, a misura che il lavoro si fa più repugnante, più discende il salario. Più ancora: a misura che crescono l’uso delle macchine e la divisione del lavoro, cresce anche la quantità del lavoro, sia per l’aumento delle ore di lavoro, sia per l’aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, per l’accresciuta celerità delle macchine, ecc.
L’industria moderna ha trasformato la piccola officina dell’artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. Come soldati semplici dell’industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottoufficiali e di ufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno e ogni ora, asserviti dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Siffatto dispotismo è tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere altro scopo che il guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire quanto più l’industria moderna si sviluppa, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne e dei fanciulli. Le differenze di sesso e di età non hanno più nessun valore sociale per la classe operaia. Non ci sono più che strumenti di lavoro, il cui costo varia secondo l’età e il sesso.
Non appena l’operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il salario in contanti, ecco piombar su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e cosi via.
Quelli che furono sinora i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione30.
Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia incomincia colla sua esistenza.
Dapprima lottano i singoli operai ad uno ad uno, poi gli operai di una fabbrica, indi quelli di una data categoria in un dato luogo contro il simbolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non rivolgono soltanto i loro attacchi contro i rapporti borghesi di produzione, ma li rivolgono contro gli stessi strumenti della produzione; essi distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi le macchine, incendiano le fabbriche, tentano di riacquistare la tramontata posizione dell’operaio del Medioevo31.
In questo stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e sparpagliata dalla concorrenza. Il loro raggrupparsi in masse non è ancora la conseguenza della loro propria unione, ma è dovuto alla unione della borghesia, che per raggiungere i suoi propri fini politici deve mettere in moto tutto il proletariato ed è ancora in grado di farlo. In tale stadio i proletari non combattono dunque i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutto il movimento storico è così concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria così ottenuta è una vittoria della borghesia.
Ma con lo sviluppo dell’industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso si addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi, le condizioni di esistenza all’interno del proletariato si livellano sempre più, perché la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro e quasi dappertutto riduce il salario a un eguale basso livello. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l’incessante e sempre più rapido perfezionamento delle macchine rende sempre più precarie le loro condizioni di esistenza; i conflitti fra singoli operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo il carattere di conflitti fra due classi. È cosi che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persino associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali. Qua e là la lotta diventa sommossa.
Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non è il successo immediato, ma la unione sempre più estesa degli operai. Essa è agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione che sono creati dalla grande industria e che collegano tra di loro operai di località diverse. Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto egual carattere, in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica. E l’unione per raggiungere la quale ai borghigiani del Medioevo, con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con le ferrovie, viene realizzata dai proletari in pochi anni.
Questa organizazzione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi32. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Approfittando delle scissioni della borghesia, la costringe al riconoscimento legale di singoli interessi degli operai. Così fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra.
I conflitti in seno alla vecchia società in generale favoriscono in più modi il processo di sviluppo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta: dapprima contro l’aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi sono in contrasto col progresso dell’industria; sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a chiederne l’aiuto, trascinandolo così nel moto politico. Essa stessa, dunque, dà al proletariato gli elementi della propria educazione politica e generale, gli dà cioè le armi contro se stessa.
Accade inoltre, come abbiamo già visto, che per il progresso dell’industria intere parti costitutive della classe dominante vengono precipitate nella condizione del proletariato o sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza. Anche esse recano al proletariato una massa di elementi della loro educazione33.
Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme.
Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne è il prodotto più genuino.
I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia34. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonano il proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato.
Quanto al sottoproletariato, che rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato nel movimento da una rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprare e mettere al servizio di mene reazionarie.
Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già distrutte dalle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza proprietà; le sue relazioni con la moglie e coi figli non hanno più nulla di comune con i rapporti familiari borghesi; il moderno lavoro industriale, il moderno soggiogamento al capitale, eguale in Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione, sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.
Tutte le classi che finora s’impossessarono del potere cercarono di assicurarsi la posizione raggiunta assoggettando tutta la società alle condizioni del loro guadagno. I proletari, invece, possono impossessarsi delle forze produttive sociali soltanto abolendo il loro modo di appropriazione attuale e con esso l’intero attuale modo di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da distruggere tutte le sicurezze private e le guarentigie private finora esistite.
Tutti i movimenti avvenuti sinora furono movimenti di minoranza o nell’interesse di minoranze.
Il movimento proletario è il movimento indipendente dell’enorme maggioranza nell’interesse dell’enorme maggioranza. Il proletariato che è lo strato più basso della società attuale, non può sollevarsi, non può innalzarsi, senza che tutta la sovrastruttura degli strati che costituiscono la società ufficiale vada in frantumi.
Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia35.
Tratteggiando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato stabilisce il suo dominio.
Ogni società finora esistita ha poggiato, come abbiamo già visto, sul contrasto tra le classi degli oppressori e degli oppressi. Ma per poter opprimere una classe, bisogna che le siano assicurate condizioni entro le quali essa possa almeno vivere la sua misera vita di schiavo. Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser tale, elevarsi a membro del Comune, così come il borghigiano, pur sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese. L’operaio moderno, al contrario, invece di elevarsi col progresso dell’industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia è incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace di dominare perché è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio, cioè l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società.
Condizione essenziale dell’esistenza e del dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e l’ aumento del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è l’agente involontario e passivo, sostituisce all’isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante la associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili.
II. Proletari e comunisti
Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.
Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme36.
Non erigono principii particolari37, sui quali vogliano modellare il movimento proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo.
In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato per il fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario38.
Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato.
Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra principii che siano stati inventati o scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo39.
Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L’abolizione dei rapporti di proprietà che si sono avuti finora non è cosa che caratterizzi propriamente il comunismo.
Tutti i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetti a un continuo mutamento storico, a una continua trasformazione storica.
La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della proprietà borghese.
Ciò che distingue il comunismo non è l’abolizione della proprietà in generale, bensì l’abolizione della proprietà borghese.
Ma la moderna proprietà privata borghese è l’ultima e la più perfetta espressione di quella produzione e appropriazione dei prodotti, che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni per opera degli altri.
In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest’unica espressione: abolizione della proprietà privata.
È stato mosso rimprovero a noi comunisti di voler abolire la proprietà acquistata col lavoro personale, frutto del lavoro di ciascuno; quella proprietà che sarebbe il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e di ogni indipendenza personali.
Proprietà acquistata, guadagnata, frutto del proprio lavoro! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese o del piccolo agricoltore, che precedette la proprietà borghese? Noi non abbiamo bisogno di abolirla; l’ha già abolita e la abolisce quotidianamente lo sviluppo dell’industria.
Oppure parlate voi della moderna proprietà borghese privata?
Ma che forse il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea a quest’ultimo una proprietà? In nessun modo. Esso crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo. La proprietà nella sua forma odierna è fondata sull’antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo.
Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e non può essere messo in moto se non dall’attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall’attività comune di tutti i membri della società.
Il capitale, dunque, non è una potenza personale; esso è una potenza sociale.
Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proproprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Esso perde il suo carattere di classe.
Veniamo al lavoro salariato.
Il prezzo medio del lavoro salariato è il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l’operaio in quanto operaio. Quello dunque che l’operaio salariato si appropria con la sua attività, gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo punto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun profitto netto, che possa dare un potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il miserabile carattere di questa appropriazione, per cui l’operaio esiste soltanto per accrescere il capitale e vive quel tanto che è richiesto dall’interesse della classe dominante.
Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il ritmo di vita degli operai.
Nella società borghese, dunque, il passato domina sul presente; nella società comunista il presente sul passato. Nella società borghese il capitale è indipendente e personale, mentre l’individuo operante è dipendente e impersonale.
E la borghesia chiama l’abolizione di questo stato di cose abolizione della personalità e della libertà! E ha ragione. Perché si tratta, effettivamente di abolire la personalità, l’indipendenza e la libertà del borghese!
Per libertà si intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il commercio libero, la libera compra e vendita.
Ma tolto il commercio, sparisce anche il libero commercio. Le frasi sul libero commercio, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno un senso soltanto rispetto al commercio vincolato e all’asservito cittadino del Medioevo, ma non ne hanno alcuno rispetto all’abolizione comunista del commercio, dei rapporti borghesi di produzione e della borghesia stessa.
Voi inorridite all’idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nell’attuale vostra società la proprietà privata è abolita per nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste precisamente in quanto per quei nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per l’enorme maggioranza della società40.
In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: è questo che vogliamo.
Dall’istante in cui il lavoro non può più essere trasformato in capitale, denaro, rendita fondiaria, insomma, in una forza sociale monopolizzabile, dall’istante cioè in cui la proprietà personale non si può più mutare in proprietà borghese, da quell’istante voi dichiarate che è abolita la persona.
Voi confessate, dunque, che per persona non intendete altro che il borghese, il proprietario borghese. Ebbene, questa persona deve effettivamente essere abolita.
Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui.
È stato obiettato che con l’abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività, si diffonderebbe una neghittosità generale.
Se così fosse, la società borghese sarebbe da molto tempo andata in rovina per pigrizia, giacché in essa chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Tutta l’obiezione sbocca in questa tautologia: che non c’è più lavoro salariato quando non c’è più capitale.
Tutte le obiezioni, che si muovono al modo comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state estese anche alla appropriazione e produzione dei prodotti intellettuali. Come per il borghese la cessazione della proprietà di classe significa cessazione della produzione stessa, così cessazione della cultura di classe è per lui lo stesso che cessazione della cultura in genere.
La cultura di cui egli deplora la perdita è per l’enorme maggioranza degli uomini il processo di trasformazione in macchina.
Ma non polemizzate con noi applicando all’abolizione della proprietà borghese le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto, ecc. Le vostre idee sono anch’esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, così come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge, una volontà il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di vita della vostra classe.
Questa concezione interessata, grazie alla quale voi trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici com’essi sono, che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione, questa concezione voi l’avete in comune con tutte le classi dominanti scomparse. Ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà antica, ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà feudale, voi non potete più comprenderlo quando si tratta della proprietà borghese.
Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti.
Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia; ma essa trova il suo completamento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica.
La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di questo suo complemento, e ambedue scompariranno con lo sparire del capitale.
Ci rimproverate voi di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori? Noi questo delitto lo confessiamo.
Ma voi dite che sostituendo l’educazione sociale all’educazione domestica noi sopprimiamo i legami più intimi.
Ma non è anche la vostra educazione determinata dalla società, dai rapporti sociali entro ai quali voi educate, dall’intervento più o meno diretto o indiretto della società per mezzo della scuola, ecc.? Non sono i comunisti che inventano l’influenza della società sulla educazione; essi ne cambiano soltanto il carattere; essi strappano l’educazione all’influenza della classe dominante.
Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull’educazione, sugli intimi rapporti fra i genitori e i figli diventano tanto più nauseanti, quanto più, in conseguenza della grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i fanciulli vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.
Ma voi comunisti volete la comunanza delle donne — ci grida in coro tutta la borghesia.
Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di produzione. Egli sente che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e, naturalmente, non può fare a meno di pensare che la sorte dell’uso in comune colpirà anche le donne.
Egli non s’immagina che si tratta appunto di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione.
Del resto, nulla è più ridicolo del moralissimo sgomento dei nostri borghesi per la pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo. I comunisti non hanno bisogno d’introdurre la comunanza delle donne, essa è quasi sempre esistita.
I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari — per non parlare della prostituzione ufficiale — trovano uno dei loro principali diletti nel sedursi scambievolmente le mogli.
Il matrimonio borghese è, in realtà, la comunanza delle mogli. Tutt’al più si potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunanza delle donne, ipocritamente celata, una comunanza ufficiale, palese. Si comprende del resto benissimo che con l’abolizione degli attuali rapporti di produzione scompare anche la comunanza delle donne che ne risulta, vale a dire la prostituzione ufficiale e non ufficiale.
Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità.
Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia.
L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa rispondenti.
Il dominio del proletariato li farà scomparire ancora di più. L’azione unita almeno nei paesi civili è una delle prime condizioni della sua emancipazione.
A misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo per opera di un altro, viene abolito lo sfruttamento di una nazione per opera di un’altra.
Con lo sparire dell’antagonismo fra le classi nell’interno della nazione scompare l’ostilità fra le nazioni stesse.
Le accuse che vengono mosse contro il comunismo partendo da considerazioni religiose, filosofiche e ideologiche in generale, non meritano d’essere più ampiamente esaminate.
Ci vuole forse una profonda perspicacia per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola, cambia anche la loro coscienza?
Che cos’altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione spirituale si trasforma insieme con quella materiale? Le idee dominanti di un’epoca furono sempre soltanto le idee della classe dominante41.
Si parla di idee che rivoluzionano tutta una società; con ciò si esprime soltanto il fatto che in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una società nuova, che con la dissoluzione dei vecchi rapporti di esistenza procede di pari passo il dissolvimento delle vecchie idee.
Quando il mondo antico stava per tramontare, le vecchie religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell’illuminismo, la società feudale stava combattendo la sua lotta suprema con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di religione non furono altro che l’espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza.
“Ma — si dirà — non c’è dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche, ecc., si sono modificate nel corso dell’evoluzione storica; la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto però si mantennero sempre attraverso tutti questi mutamenti.
Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, in luogo di dar loro una forma nuova e con ciò contraddice a tutta l’evoluzione storica verificatasi finora”.
A che cosa si riduce questa accusa? La storia di tutta la società si è svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche assunsero forme diverse.
Ma qualunque forma abbiano assunto tali antagonismi, lo sfruttamento di una parte della società per opera di un’altra è un fatto comune a tutti i secoli passati. Nessuna meraviglia, quindi, che la coscienza sociale di tutti i secoli, malgrado tutte le varietà e diversità, si muova in certe forme comuni, in forme di coscienza che si dissolvono completamente soltanto con la completa sparizione dell’antagonismo delle classi.
La rivoluzione comunista è la più radicale rottura coi rapporti di proprietà tradizionali; nessuna meraviglia, quindi, se nel corso del suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali.
Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.
Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l’elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia.
Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive42.
Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere, se non per via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, vale a dire con misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzionare l’intero modo di produzione.
Com’è naturale, queste misure saranno diverse a seconda dei diversi paesi.
Per i paesi più progrediti, però, potranno quasi generalmente essere applicate le seguenti:
1. Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato.
2. Imposta fortemente progressiva.
3. Abolizione del diritto di eredità.
4. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.
5. Accentramento del credito nelle mani dello Stato per mezzo d’una banca nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo.
6. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato.
7. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune.
8. Eguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura.
9. Unificazione dell’esercizio dell’agricoltura e di quello dell’industria, misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna.
10. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forrna attuale. Unificazione dell’educazione e della produzione materiale, ecc.
Quando, nel corso dell’evoluzione, le differenze di casse saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d’esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe.
Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un’associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti43.
III. Letteratura socialista e comunista
1. – Il socialismo reazionario
a) Il socialismo feudale.
Per la sua condizione storica, l’aristocrazia francese e inglese era chiamata a scrivere libelli contro la moderna società borghese. Nella rivoluzione francese del luglio 183044 e nel movimento per la riforma elettorale inglese45 l’aristocrazia era, ancora una volta, soggiaciuta all’odiata classe dei nuovi venuti. Non era più il caso di parlare di una seria lotta politica. Le rimaneva soltanto la lotta letteraria. Ma anche nel campo della letteratura il vecchio frasario del periodo della Restaurazione* era diventato impossibile. Per crearsi delle simpatie, l’aristocrazia doveva fingere di perdere di vista i propri interessi e formulare il suo atto d’accusa contro la borghesia unicamente nell’interesse della classe operaia sfruttata.
Si procurava così la soddisfazione di intonare canzoni ingiuriose contro i suoi nuovi padroni, e di sussurrar loro nell’orecchio profezie di più o meno sinistro contenuto.
In questo modo nacque il socialismo feudale, mezzo geremiade e mezzo pasquinata, per metà eco del passato, per metà minaccia del futuro, che talora colpisce al cuore la borghesia con giudizi amari e spiritosamente sarcastici, ma che è sempre di effetto comico per la totale sua incapacità di comprendere l’andamento della storia moderna.
Per tirarsi dietro il popolo, questi aristocratici sventolavano a guisa di bandiera la bisaccia da mendicante del proletariato. Ma ogni qualvolta il popolo li seguì, vide sulle loro parti posteriori impressi gli antichi blasoni feudali e si sbandò scoppiando in rumorose e irriverenti risate.
Una parte dei legittimisti francesi46 e la Giovane Inghilterra47 offrirono questo allegro spettacolo.
Quando i feudali dimostrano che il loro modo di sfruttamento era diverso nella forma dallo sfruttamento borghese, dimenticano soltanto che essi esercitavano il loro sfruttamento in circostanze e condizioni affatto diverse e ora superate. Quando dimostrano che sotto il loro dominio non esisteva il proletariato moderno, dimenticano semplicemente che appunto la moderna borghesia è stato un necessario rampollo del loro ordinamento sociale.
Del resto essi nascondono così poco il carattere reazionario della loro critica, che la loro principale accusa contro la borghesia è precisamente quella che sotto il suo regime si sviluppa una classe che manderà per aria tutto quanto il vecchio ordinamento sociale.
Essi rimproverano alla borghesia non tanto di produrre un proletariato in generale, quanto di produrre un proletariato rivoluzionario.
Perciò nella prassi politica essi partecipano a tutte le misure di violenza contro la classe operaia, e nella vita di tutti i giorni si adattano, malgrado il loro gonfio frasario, a cogliere le mele d’oro che cadono dall’albero dell’industria e a barattare fedeltà, amore e onore con lana, barbabietola e acquavit*.
Come il prete andò sempre d’accordo coi feudali, così il socialismo clericale va d’accordo col socialismo feudale.
Nulla di più facile che dare all’ascetismo cristiano una vernice socialista. Il cristianesimo non ha forse inveito anche contro la proprietà privata, contro il matrimonio, contro lo Stato? Non ha forse predicato in loro sostituzione la beneficenza e la mendicità, il celibato e la mortificazione della carne, la vita claustrale e la Chiesa? Il socialismo cristiano è soltanto l’acqua santa con la quale il prete benedice il dispetto degli aristocratici.
b) Il socialismo piccolo-borghese.
L’aristocrazia feudale non è la sola classe che sia stata rovesciata dalla borghesia, che abbia visto le proprie condizioni di vita paralizzarsi e morire nella moderna società borghese. I borghigiani medioevali e il piccolo ceto rustico furono i precursori della borghesia moderna. Nei paesi in cui il commercio e l’industria sono meno sviluppati, questa classe vegeta ancora accanto alla borghesia che sta sviluppandosi.
Nei paesi dove la civiltà moderna si è sviluppata, si è formata una nuova piccola borghesia, che oscilla tra il proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte integrante della società borghese, i cui componenti però, continuamente ricacciati nel proletariato per effetto della concorrenza, per lo sviluppo stesso della grande industria, vedono avvicinarsi un momento in cui spariranno completamente come parte autonoma della società odierna e saranno sostituiti nel commercio, nella manifattura e nell’agricoltura da ispettori e agenti salariati.
In paesi come la Francia, dove la classe rurale forma più di metà della popolazione, era naturale che gli scrittori i quali scendevano in campo contro la borghesia a favore del proletariato applicassero nella loro critica del regime borghese la scala del piccolo borghese e del piccolo possidente contadino, e che pigliassero partito per gli operai dal punto di vista della piccola borghesia. Si formò così il socialismo piccolo-borghese. Sismondi48e il capo di questa letteratura non soltanto per la Francia, ma anche per l’Inghilterra.
Questo socialismo anatomizzò molto acutamente le contraddizioni esistenti nei moderni rapporti di produzione. Esso mise a nudo gli eufemismi ipocriti degli economisti. Esso dimostrò in modo incontestabile gli effetti deleteri dell’introduzione delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovrapproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l’anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le nazioni, il dissolversi degli antichi costumi, degli antichi rapporti di famiglia, delle antiche nazionalità.
Quanto al suo contenuto positivo, però, questo socialismo, o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà ch’essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In ambo i casi esso è a un tempo reazionario e utopistico.
Le corporazioni nella manifattura e l’economia patriarcale nell’agricoltura, queste sono le sue ultime parole.
Nella sua evoluzione ulteriore questa scuola finisce in un vile piagnisteo.
c) Il socialismo tedesco o il “vero” socialismo49.
La letteratura socialista e comunista della Francia, nata sotto la pressione di una borghesia dominatrice ed espressione letteraria della lotta contro questo dominio, fu importata in Germania in un periodo in cui la borghesia aveva appena incominciato la sua lotta contro l’assolutismo feudale.
Filosofi, semifilosofi e begli spiriti tedeschi s’impadronirono avidamente di questa letteratura e dimenticarono semplicemente che con gli scritti francesi non eran in pari tempo passate in Germania le condizioni della vita francese. In rapporto alle condizioni tedesche la letteratura francese perdette ogni significato pratico immediato e assunse un aspetto puramente letterario. Essa doveva apparire come una oziosa speculazione sulla vera società, sulla realizzazione dell’essenza umana. Similmente, pei filosofi tedeschi del secolo XVIII le rivendicazioni della prima rivoluzione francese avevano semplicemente avuto il senso di rivendicazioni della “ragion pratica”50 in generale, e le affermazioni della volontà della borghesia francese rivoluzionaria avevano assunto ai loro occhi il significato di leggi del puro volere, del volere quale deve essere, del vero volere umano.
Il lavoro dei letterati tedeschi consistette esclusivamente nel metter d’accordo le nuove idee francesi con la loro vecchia coscienza filosofica o piuttosto nell’appropriarsi le idee francesi dal loro punto di vista filosofico.
Questa appropriazione si compì nello stesso modo in cui ci si appropria in generale di una lingua straniera: traducendo.
È noto come i monaci scrivessero insipide storie cattoliche di santi su manoscritti contenenti le opere classiche dell’antico mondo pagano. I letterati tedeschi procedettero in senso inverso con la letteratura profana francese. Scrissero le loro assurdità filosofiche sotto all’originale francese. Per esempio, sotto la critica francese dei rapporti monetari scrissero “alienazione deIla essenza umana”, sotto alla critica francese dello Stato borghese scrissero “superamento del dominio dell’universale astratto”, ecc.
La interpolazione di questa fraseologia filosofica agli svolgimenti del pensiero francese fu da essi battezzata “filosofia dell’azione”, “vero socialismo”, “scienza tedesca del socialismo”, “dimostrazione filosofica del socialismo”, ecc.
Così la letteratura francese socialista-comunista venne letteralmente castrata. E siccome in mano ai tedeschi essa cessò di esprimere la lotta di una classe contro un’altra, i letterati tedeschi erano convinti d’aver superato la “unilateralità francese”, d’aver difeso, invece di bisogni veri, il bisogno della verità, e invece degli interessi del proletariato, gli interessi dell’essere umano, dell’uomo in generale, dell’uomo che non appartiene a nessuna classe, anzi che non appartiene neppure alla realtà, ma solo al cielo vaporoso della fantasia filosofica.
Questo socialismo tedesco, che pigliava così solennemente sul serio i suoi goffi esercizi scolastici strombazzandoli all’uso dei saltimbanchi, perdette a poco a poco la sua innocenza pedantesca.
La lotta della borghesia tedesca, massime prussiana, contro i feudali e la monarchia assoluta, in una parola, il movimento liberale, si fece più serio.
Al “vero” socialismo si offrì così l’auspicata occasione di contrapporre al movimento politico le rivendicazioni socialiste, di lanciare i tradizionali anatemi contro il liberalismo, contro lo Stato rappresentativo, contro la concorrenza borghese, la libertà di stampa borghese, il diritto borghese, la libertà e la uguaglianza borghesi, e di predicare alle masse come esse non avessero niente da guadagnare da questo movimento borghese, ma piuttosto tutto da perdere. Molto a proposito il socialismo tedesco dimenticò che la critica francese, di cui esso non era se non un’eco meschina, presupponeva la moderna società borghese con le corrispondenti condizioni materiali di vita e la corrispondente costituzione politica, tutte premesse che in Germania bisognava ancora conquistare51.
Esso servì ai governi tedeschi assoluti, col loro seguito di preti, maestri di scuola, gentiluomini di campagna e burocrati, come un utile spauracchio contro la borghesia che si levava minacciosa.
Esso fu il complemento dolciastro delle amare sferzate e fucilate con cui quei governi accoglievano le sommosse degli operai tedeschi.
Se in tal modo il “vero” socialismo divenne un’arma in mano dei governi contro la borghesia tedesca, esso rappresentava anche immediatamente un interesse reazionario, l’interesse della piccola borghesia tedesca. In Germania la piccola borghesia, trasmessa dal secolo XVI e sempre da allora in poi rinascente in forme diverse, costituisce la vera base sociale delle attuali condizioni del paese.
La sua conservazione significa conservazione delle presenti condizioni della Germania. Questa piccola borghesia teme che il dominio industriale e politico della borghesia le arrechi una sicura rovina, da un lato in conseguenza del concentramento del capitale, dall’altro lato in conseguenza del sorgere di un proletariato rivoluzionario. Il “vero” socialismo le sembrò ottimo espediente per prendere due piccioni con una fava. Ed esso si diffuse come una epidemia.
Il manto ordito su una ragnatela speculativa, ricamato di spiritosi fiori oratori e stillante dolce rugiada sentimentale febbricitante di amore, questo manto di mistico entusiasmo, nelle cui pieghe i socialisti tedeschi nascondevano le loro quattro stecchite “verità eterne”, servì solo ad aumentare lo spaccio della loro merce in mezzo a un tal pubblico.
Dal canto suo il socialismo tedesco riconobbe sempre meglio la sua missione, che era quella di essere l’ampolloso rappresentante di questa piccola borghesia.
Esso proclamò che la nazione tedesca è la nazione normale e il piccolo borghese tedesco l’uomo normale. A ogni bassezza di questo uomo dette un significato nascosto, sublime, socialista, in modo che apparisse il contrario di quello che era. Conseguente fino all’ultimo, prese direttamente posizione contro la tendenza “brutalmente distruttiva” del comunismo, e si proclamò imparzialmente superiore a ogni lotta di classe. Salvo pochissime eccezioni, tutti gli scritti pretesi socialisti e comunisti che circolano in Germania appartengono a questa letteratura sordida e snervante*.
2. – Il socialismo conservatore borghese
Una parte della borghesia desidera di portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese.
Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficenza, i membri delle società protettrici degli animali, i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori. Di questo socialismo borghese si sono elaborati persino dei veri sistemi.
Citiamo ad esempio la Philosophie de la misère di Proudhon52.
I borghesi socialisti vogliono le condizioni di vita della società moderna senza le lotte e i pericoli che necessariamente ne risultano. Vogliono la società attuale senza gli elementi che la rivoluzionano e la dissolvono. Vogliono la borghesia senza il proletariato. È naturale che la borghesia ci rappresenti il mondo dove essa domina come il migliore dei mondi. Il socialismo borghese trae da questa consolante rappresentazione un mezzo sistema o anche un sistema completo. Ma quando invita il proletariato a mettere in pratica i suoi sistemi se vuole entrare nella nuova Gerusalemme, gli domanda, in fondo, soltanto di restare nella società presente, ma di rinunciare alla odiosa rappresentazione che si fa di essa.
Una seconda forma di questo socialismo, meno sistematica ma più pratica, ha cercato di distogliere la classe operaia da ogni moto rivoluzionario, dimostrando che ciò che le può giovare non è questo o quel cambiamento politico, ma soltanto un cambiamento delle condizioni materiali di vita, dei rapporti economici. Questo socialismo però non intende menomamente per cambiamento delle condizioni materiali di vita l’abolizione dei rapporti di produzione borghesi, che può conseguire soltanto per via rivoluzionaria, ma dei miglioramenti amministrativi realizzati sul terreno di questi rapporti di produzione, che cioè non cambino affatto il rapporto tra capitale e lavoro salariato, ma, nel migliore dei casi, diminuiscano alla borghesia le spese del suo dominio e semplifichino l’assetto della sua finanza statale53.
Questo socialismo borghese raggiunge la sua più esatta espressione quando diventa semplice figura retorica.
Libero commercio! nell’interesse della classe operaia; dazi protettivi! nell’interesse della classe operaia; carcere cellulare! nell’interesse della classe operaia: ecco l’ultima, la sola parola seriamente pensata del socialismo borghese.
Il socialismo della borghesia consiste appunto nel sostenere che i borghesi sono borghesi — nell’interesse della classe operaia.
3. – Il socialismo e il comunismo critico-utopistici
Non parliamo qui della letteratura che in tutte le grandi rivoluzioni moderne enunciò le rivendicazioni del proletariato (scritti di Babeuf54 ,ecc.).
I primi tentativi fatti dal proletariato per far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un tempo di fermento generale, nel periodo del rovesciamento della società feudale, dovevano di necessità fallire, sia per il difetto di sviluppo del proletariato, sia per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non possono essere che il prodotto dell’epoca borghese. La letteratura rivoluzionaria che accompagnò questi primi moti del proletariato è, per il suo contenuto, necessariamente reazionaria. Essa insegna un ascetismo universale e una rozza tendenza a tutto uguagliare.
I sistemi socialisti e comunisti propriamente detti, i sistemi di Saint-Simon55, di Fourier56, di Owen57, ecc., appaiono nel primo e poco sviluppato periodo della lotta fra proletariato e borghesia che abbiamo esposto sopra (si veda Borghesia e proletariato).
Gli inventori di questi sistemi ravvisano bensì il contrasto fra le classi e l’azione degli elementi dissolventi nella stessa società dominante, ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movimento politico che gli sia proprio.
Siccome gli antagonismi di classe si sviluppano di pari passo con lo sviluppo dell’industria, gli autori di questi sistemi non trovano neppure le condizioni materiali per l’emancipazione del proletariato e vanno in cerca, per crearle, di una scienza sociale e di leggi sociali.
Al posto dell’azione sociale deve subentrare la loro azione inventiva personale; al posto delle condizioni storiche dell’emancipazione, condizioni fantastiche; al posto del graduale organizzarsi del proletariato come classe, una organizzazione della società escogitata di sana pianta. La storia universale dell’avvenire si risolve per essi nella propaganda e nella esecuzione pratica dei loro piani sociali.
Essi, è vero, sono coscienti di patrocinare nei loro progetti principalmente gli interessi della classe operaia come classe che soffre più di tutte le altre; ma il proletariato esiste per loro soltanto sotto l’aspetto di classe che soffre più di tutte.
La forma non sviluppata della lotta fra le classi e le loro personali condizioni di esistenza hanno come conseguenza che essi si credono di gran lunga superiori a questo antagonismo di classe. Essi vogliono migliorare le condizioni d’esistenza di tutti i membri della società, anche dei più favoriti. Perciò fanno appello continuamente a tutta la società senza distinzione, anzi, si rivolgono di preferenza alla classe dominante. Basta, secondo loro, capire il loro sistema per riconoscere che è il miglior piano possibile della società migliore possibile.
Essi respingono quindi ogni azione politica, e specialmente ogni azione rivoluzionaria, vogliono raggiungere il loro scopo con mezzi pacifici, e cercano, con piccoli e naturalmente inani esperimenti, di aprire la strada al nuovo vangelo sociale colla potenza dell’esempio.
Questa descrizione fantastica della società futura corrisponde, in un momento in cui il proletariato è ancora pochissimo sviluppato, cosicché esso stesso si rappresenta in modo ancora fantastico la sua propria posizione, al suo primo impulso, pieno di presentimenti, verso una trasformazione generale delle società.
Questi scritti socialisti e comunisti sono fatti però anche di elementi critici. Essi attaccano tutte le basi della società esistente; perciò hanno fornito elementi di grandissimo valore per illuminare gli operai. Le loro affermazioni positive sulla società futura, per esempio l’abolizione del contrasto fra città e campagna, della famiglia, del guadagno privato, del lavoro salariato, l’annuncio dell’armonia sociale, la trasformazione dello Stato in una semplice amministrazione della produzione — tutte queste loro affermazioni esprimono soltanto lo sparire del contrasto fra le classi, che comincia appena a svilupparsi proprio in quel momento e che essi conoscono appena nella sua prima indeterminatezza rudimentale. Perciò queste affermazioni stesse hanno ancora un senso puramente utopistico.
L’importanza del socialismo e del comunismo critico-utopistici è in ragione inversa allo sviluppo storico. A misura che la lotta fra le classi si sviluppa e prende forma, questo fantastico elevarsi al di sopra di essa, questo fantastico combatterla perde ogni valore pratico, ogni giustificazione teorica. Perciò, anche se gli autori di questi sistemi erano per molti aspetti rivoluzionari, i loro scolari formano sempre delle sètte reazionarie. Essi tengono fermo alle vecchie opinioni dei maestri, in opposizione al progressivo sviluppo storico del proletariato. Essi cercano perciò conseguentemente di smussare di nuovo la lotta di classe e di conciliare i contrasti. Sognano ancor sempre la realizzazione sperimentale delle loro utopie sociali, la formazione di singoli falansteri, la fondazione di colonie in patria, l’edificazione di una piccola Icaria* —edizione in dodicesimo della nuova Gerusalemme — e per la costruzione di tutti questi castelli in aria fanno appello alla filantropia dei cuori e delle tasche borghesi. A poco a poco essi cadono nella categoria dei socialisti reazionari o conservatori da noi descritti più sopra, e si distinguono da essi soltanto per una pedanteria più sistematica, per la fede fanatica e superstiziosa nella virtù miracolosa della loro scienza sociale.
Essi si oppongono perciò con accanimento a ogni movimento politico degli operai, il quale non poteva provenire, secondo loro, che da una cieca incredulità nel nuovo vangelo.
Gli owenisti in Inghilterra, i fourieristi in Francia, reagiscono gli uni contro i cartisti58, gli altri contro i riformisti59.
IV. Posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti d’opposizione
Da quanto abbiamo detto nel II capitolo si comprende da sé quali siano i rapporti dei comunisti verso i partiti operai già costituiti, e quindi anche verso i cartisti in Inghilterra e i riformatori agrari nell’America del Nord.
I comunisti lottano per raggiungere gli scopi e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l’avvenire del movimento stesso. In Francia i comunisti si uniscono al partito socialista democratico* contro la borghesia conservatrice e radicale, senza rinunciare perciò al diritto di serbare un contegno critico di fronte alle frasi e illusioni derivanti dalla tradizione rivoluzionaria.
In Svizzera sostengono i radicali, senza disconoscere che questo partito è composto di elementi contraddittori, e cioè in parte di socialisti democratici nel senso francese, in parte di radicali borghesi.
Fra i polacchi i comunisti appoggiano il partito che mette come condizione del riscatto nazionale una rivoluzione agraria; quello stesso partito che suscitò l’insurrezione di Cracovia nel 1846.
In Germania il partito comunista lotta insieme colla borghesia, ogni qualvolta questa prende una posizione rivoluzionaria contro la monarchia assoluta, contro la proprietà feudale e contro la piccola borghesia reazionaria.
Esso però non cessa nemmeno un istante di sviluppare fra gli operai una coscienza quanto più è possibile chiara dell’antagonismo e dell’inimicizia esistenti fra borghesia e proletariato, affinché gli operai tedeschi siano in grado di servirsi subito delle condizioni sociali e politiche che la borghesia deve introdurre insieme col suo dominio, come di altrettante armi contro la borghesia, e affinché dopo la caduta delle classi reazionarie in Germania subito si inizi la lotta contro la borghesia stessa.
Sulla Germania i comunisti rivolgono specialmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel XVIII; per cui la rivoluzione borghese tedesca non può essere che l’immediato preludio di una rivoluzione proletaria.
In una parola, i comunisti appoggiano dappertutto ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti.
In tutti questi moti essi mettono avanti sempre la questione della proprietà, abbia essa raggiunto una forma più o meno sviluppata, come la questione fondamentale del movimento.
I comunisti finalmente lavorano all’unione e all’intesa dei partiti democratici di tutti i paesi.
I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Essi dichiarano apertamente che i loro scopi non possono essere raggiunti che con l’abbattimento violento di ogni ordinamento sociale esistente. Tremino pure le classi dominanti davanti a una rivoluzione comunista. I proletari non hanno nulla da perdere in essa fuorché le loro catene. E hanno un mondo da guadagnare.
Proletari di tutti i paesi, unitevi!
Note
1 Mikhail Bakunin (1814-1876), anarchico russo e uno dei teorici dell’anarchismo. Partecipò alla rivoluzione del 1848-1849 in Germania ed ebbe un ruolo di rilievo in diversi moti rivoluzionari in tutta Europa. Visse in Italia dal 1864 al 1867 e dal 1874 al 1876 e vi fondò le prime sezioni dell’Internazionale esercitando una notevole influenza sul movimento operaio italiano. Membro dell’Associazione internazionale dei lavoratori (la I Internazionale), fondò al suo interno l’ “Alleanza socialista” con un programma federalista anarchico, contrapposto a quello dell’Internazionale, che trovò adesioni in Svizzera, Italia e Spagna. Accanitamente ostile al marxismo, fu espulso con i suoi adepti dall’Internazionale al congresso delI’Aja del 1872, su proposta di Marx, per la sua attività frazionista.
2 La campana.
3 Lo zar Alessandro III.
4 Residenza dello zar nei pressi di Leningrado.
5 Engels allude all’attività del movimento populista che in quegli anni è al suo culmine e su cui si cominciano a far sentire le prime influenze della socialdemocrazia.
6 All’epoca in cui Engels scrive, il mir, comune rurale, comprendeva gli otto decimi delle terre dei contadini. Solo dopo la Rivoluzione del 1905, con la riforma Stolypin (1907-1919), il mir si avviò alla dissoluzione.
7 La Lega dei Comunisti (1847-1852) nacque in continuazione della Lega dei Giusti che sotto l’ influenza di Marx e di Engels abbandonò l’impostazione comunista utopistica e il carattere settario. La Lega dei Giusti fondata nel 1836 da operai tedeschi rifugiati a Parigi, fino al 1840 fu una organizzazione prevalentemente tedesca, che operava nel quadro delle società segrete francesi. Dopo la sconfitta del tentativo insurrezionale di Parigi del 1839 , la Lega si trasferí a Londra e creò nuove sezioni in Germania e tra emigrati in Belgio, in Inghilterra, in Francia e in Svizzera. Wilhelm Weitling, che dirigeva la sezione svizzera, con il suo comunismo utopistico messianico ed evangelico, influenzò tutto l’orientamento della Lega. Marx ed Engels non appartenevano alla Lega, poiché non ne condividevano nè il carattere settario nè le tendenze comuniste astratte. Utilizzarono però i loro contatti con i dirigenti della Lega per farne modificare idee e atteggiamenti. Finalmente nel 1847 la Lega accettò i princípi teorici propugnati da Marx e da Engels che allora aderirono alla Lega. Nel primo congresso, tenuto a Londra e al quale partecipò Engels, la Lega dei Giusti cambiò il proprio nome in Lega dei Comunisti, abbandonò il carattere settario e scelse di essere una società di propaganda. Restò per necessità politiche, ma non per principio, segreta. Al secondo congresso, anch’esso tenuto a Londra alla fine di novembre, partecipò anche Marx che, insieme ad Engels ebbe l’incarico di redigere un programma pratico e teorico circostanziato del partito, destinato alla pubblicità. Quel programma fu il Manifesto.
8 Nel febbraio 1848 la rivoluzione parigina costrinse il re Luigi Filippo ad abdicare e instaurò la repubblica. Il governo provvisorio proclamò il suffragio universale e il “diritto al lavoro”, diminuì le ore lavorative e assicurò il lavoro ai disoccupati attraverso opifici statali. Queste misure di carattere socialista piccolo-borghese suscitarono gravi preoccupazioni in Francia e in Europa e divisero aspramente il movimento repubblicano. In conseguenza di questi contrasti le elezioni del maggio 1848 portarono ad una assemblea a maggioranza antisocialista. La conseguenza fu l’insurrezione del giugno successivo da parte delle forze proletarie contro cui fu scatenata una sanguinosa repressione. A giovarsene fu la reazione clericale e bonapartista che provocò la caduta della repubblica democratica.
9 Il Processo dei Comunisti di Colonia (4 ottobre-12 novembre 1852) fu montato di sana pianta dalle autorità prussiane: undici membri della Lega dei Comunisti furono trascinati in giudizio sotto l’accusa di “alto tradimento”. Le prove erano costituite dai “verbali originali” delle sedute del Comitato Centrale, fabbricati dalla polizia prussiana, ed altri falsi, come alcuni documenti sottratti dalla polizia alla frazione avventurista di Willich-Schopper, espulsa dalla Lega. Sette degli accusati furono condannati a pene da tre a sei anni di prigione, sulla base di documenti falsificati e di false testimonianze. Le provocazioni degli organizzatori del processo e i metodi insidiosi, usati dallo Stato poliziesco Prussiano contro il movimento operaio internazionale, furono denunziati da Marx ed Engels nei loro articoli Il processo dei Comunisti di Colonia, Rivelazioni sul processo dei Comunisti di Colonia.
10 Questo principio fu enunciato da Marx ed Engels a partire dagli anni quaranta in una serie di scritti; la formulazione in questione si trova nello Statuto dell’Internazionale.
11 La Comune di Parigi, il governo popolare e operaio instaurato a Parigi con la rivoluzione del 18 marzo 1871, primo tentativo nella storia di potere proletario. L’analisi storica della Comune fu condotta da Marx nell’indirizzo dell’Internazionale al consiglio generale dell’associazione e pubblicato col titolo: La guerra civile in Francia. La Comune di Parigi fu attaccata e sconfitta da un esercito di 100.000 uomini mentre i tedeschi che assediavano la città restavano in attesa. La repressione fu durissima: 20.000 esecuzioni e 38.000 arresti, tra 13.500 condanne e 7.500 deportazioni. Marx analizzò l’esperienza storica della Comune nell’indirizzo dell’Internazionale al consiglio generale dell’Associazione. Questa analisi fondamentale fu pubblicata con il titolo La guerra civile in Francia.
12 “Il prossimo tentativo della rivoluzione francese non consisterà nel trasferire da una mano all’altra la macchina militare e burocratica, come è avvenuto sino ad ora, ma nello spezzarla, e che tale è la condizione preliminare di ogni rivoluzione popolare sul Continente” (Marx, Lettere a Kugelmann). E Lenin commenta: ““Spezzare la macchina burocratica e militare”: in queste parole è espresso in modo incisivo l’insegnamento principale del marxismo sui compiti del proletariato nella rivoluzione per ciò che riguarda lo Stato” (Lenin, Stato e rivoluzione).
13 Lenin successivamente ha chiarito: “… non appena il marxismo ha soppiantato tutte le dottrine ad esso ostili, dotate di qualche consistenza, le tendenze che trovavano espressione in queste dottrine hanno preso a ricercare altre strade. Le forme ed i pretesti della lotta sono cambiati, ma la lotta è continuata… Il socialismo pre-marxista è sconfitto. Esso prosegue la lotta non più sul suo proprio terreno, ma sul terreno generale del marxismo, come revisionismo” (Lenin, Marxismo e revisionismo). Nel corso degli anni – e ancora oggi – le tendenze che trovano espressione nelle dottrine attaccate da Marx ed Engels nel Manifesto si sono travestite da comuniste e marxiste e combattono sul complesso terreno della lotta politica ed ideologica.
14 In molti dei suoi scritti Marx espresse l’idea che la reazione dopo il 1848 agì da singolare esecutore testamentario della rivoluzione, attuando inevitabilmente le rivendicazioni della rivoluzione, sebbene in maniera tragicomica quasi come una satira della rivoluzione.
15 Il rapporto tra la rivoluzione democratico-borghese e la rivoluzione socialista si proporrà ripetutamente come uno dei nodi essenziali della lotta dei comunisti in tutto il mondo. Per questo, a partire da Lenin, esso sarà ampiamente analizzato e dibattuto ogni volta che si è dovuto applicare il metodo di Marx nelle più diverse condizioni storiche. Ancora oggi resta una questione essenziale con cui i comunisti debbono misurarsi.
16 Già nel 1848, dunque, – in pratica, già alla sua nascita – lo “spettro rosso” del comunismo turbava i sonni della borghesia e di tutte le forze reazionarie. Nessuna meraviglia che da allora – tra una certificazione di “morte” e l’altra – l’odio e la paura abbiano tentato di esorcizzare e criminalizzare questo spettro: non c’è menzogna che non sia stata detta o infamia che non sia stata attribuita al movimento comunista. Dal Manifesto in poi il proletariato ha sempre risposto vittoriosamente contrapponendo il proprio programma reale di lotta.
17 Marx, nella lettera a Weyedemeyer del 5 marzo 1852, precisò: “Per quello che mi riguarda, a me non appartiene né il merito di aver scoperto l’esistenza delle classi nella società moderna nè quello di aver scoperto la lotta tra di esse. Già molto tempo prima di me degli storici borghesi avevano esposto l’evoluzione storica di questa lotta delle classi, e degli economisti borghesi avevano esposto l’anatomia economica delle classi. Quel che io ho fatto di nuovo è stato dimostrare: 1) che 1’esistenza delle classi è soltanto legata a determinate fasi di sviluppo storico della produzione; 2) che la lotta di classe necessariamente conduce alla dittatura del proletaritato; 3) che questa dittatura stessa costituisce soltanto il passaggio alla soppressione di tutte le classi e a una società senza classi…”. Lenin a sua volta chiarì: “ La dottrina della lotta di classe non è stata creata da Marx, ma dalla borghesia prima di Marx, e può, in generale, essere accettata dalla borghesia. Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista… Marxista è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta delle classi sino al riconoscimento della dittatura del proletariato”. (Cfr. Lenin, Stato e Rivoluzione). Si colloca fuori del marxismo, dunque, chi parla di Stato di tutto il popolo o di Stato pluralistico.
18 Sulla divisione del lavoro e sulla manifattura vedi: Marx, Il Capitale, lib. I.
19 Sulle macchine e sulla grande industria vedi: Marx, Il Capitale, lib. I.
20 Sul rapporto storico tra mercato mondiale, commercio e grande industria, vedi: Marx, Il Capitale, libro III.
21 Cfr. Marx-Engels, L’ideologia tedesca; Engels, L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato; Lenin, Stato e rivoluzione.
22 Successivamente con lo sviluppo del movimento operaio e popolare, la borghesia non ha potuto più reggere lo sfruttamento aperto, diretto ed arido, ed ha dovuto anch’essa velarlo con illusioni religiose e politiche, chiamando preti a fare prediche interclassiste e di amore tra gli uomini, chiamando fascisti a parlare di “corporativismo” e di necessaria collaborazione tra capitale e lavoro nella produzione, chiamando socialdemocratici e revisionisti a parlare di produttività, di sviluppo economico, di “democrazia”.
23 Sulla necessità per la borghesia di rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione vedi: Marx, Il Capitale, llbro I.
24 Sull’argomento vedi, in particolare, Marx, Per la critica dell’economia politica.
25 Sullo sviluppo del capitalismo di libera concorrenza in imperialismo vedi: Lenin, L’imperialismo fase suprema del capitalismo.
26 Sulle crisi cicliche di sovrapproduzione vedi: Marx, Storia delle teorie economiche.
27 Sulla tendenza storica dell’accumulazione capitalistica vedi: Marx, Il Capitale,libro I.
28 Il determinarsi storicamente di una massa di proletari che non abbia altro da vendere che la propria forza-lavoro è ciò che Marx chiama accumulazione originaria; vedi: Marx, Il Capitale, libro I.
29 In seguito Marx correggerà questa espressione: invece di prezzo del lavoro dirà prezzo della forza-lavoro. Gli economisti borghesi avevano già dimostrato che il valore di una merce è dato dal lavoro in essa contenuto. Ma qual è il valore del lavoro? Gli economisti borghesi non seppero rispondere. Marx introdusse il concetto di forza-lavoro il cui valore è uguale al valore delle merci necessarie all’operaio per sopravvivere. Questo riso1veva la questione. Ma l’uso della forza- lavoro è il lavoro ed il lavoro crea valore. Nella produzione capitalistica il valore prodotto dall’operaio è superiore al valore delle merci necessarie all’operaio stesso per sopravvivere (salario): la loro differenza costituisce il plusvalore. Nella prefazione a Lavoro salariato e capitale di Marx, Engels scrive: “Nella nostra attuale società capitalistica, la forza-lavoro è una merce, una merce come ogni altra, ma ciò nonostante una merce tutta affatto speciale. essa ha cioè la proprietà specifica di essere forza produttrice di valore, di essere fonte di valore, anzi di essere, se viene impiegata in modo appropriato, fonte di un valore maggiore di quello che essa possiede. Nello stato attuale della produzione la forza-lavoro dell’uomo non solo produce in un giorno un valore superiore a quello che essa possiede e a quello che costa; ad ogni nuova scoperta scientifica, ad ogni nuovo perfezionamento tecnico questa eccedenza del suo prodotto giornaliero sul suo costo giornaliero aumenta, cioè si riduce quella parte della giornata di lavoro in cui l’operaio produce l’equivalente del suo salario, e si allunga perciò d’altro lato quella parte della giornata in cui egli deve regalare al capitalista il suo lavoro senza essere pagato” (Marx, Lavoro salariato e capitale).
30 Nel reclutamento del proletariato da tutte le classi sociali, Lenin vide la necessità storica che sorgano deviazioni opportuniste e revisioniste all’interno del movimento operaio. “Il capitalismo è nato e nasce continuamente dalla piccola produzione. Tutta una serie di “strati intermedi” viene creata immancabilmente dal capitalismo… Questi nuovi piccoli produttori vengono inevitabilmente respinti nelle file del proletariato. È assolutamente naturale che le concezioni piccolo- borghesi penetrino di nuovo nelle fila dei grandi partiti operai”. (Cfr. Lenin, Marxismo e revisionismo).
31 Il riferimento è ai movimenti “Luddisti” (così chiamati dal nome di un operaio, Ned Lud) che tra il 1811 e il 1814 estesero la propria attività da Nottingham a tutti i centri industriali dell’Inghilterra. Gli aderenti distruggevano o sabotavano le nuove macchine introdotte nelle officine.
32 Lo sviluppo capitalistico crea continuamente una fascia di disoccupati che entrano in concorrenza con gli operai occupati e mantengono bassi i salari. È compito dei comunisti organizzati unire le lotte degli operai occupati con le lotte degli operai disoccupati e trasformare la contraddizione in seno al proletariato in contraddizione tra proletariato e borghesia.
33 Nell’edizione inglese del 1888: “elementi di istruzione e di progresso”.
34 Parlando degli artigiani tedeschi Engels così riassume la posizione di queste classi intermedie: “…sballottata dunque eternamente tra la speranza di salire nelle file della classe più ricca e la paura di essere ridotta alla condizione di proletari o persino dei poveri, tra la speranza di favorire i propri interessi con la conquista di una parte della direzione degli affari pubblici, e il timore di provocare, con una opposizione intempestiva, la collera del governo da cui dipende la sua esistenza… possedendo scarsi mezzi e la sicurezza del loro possesso essendo in ragione inversa del loro ammontare, questa classe è estremamente vacillante nelle sue opinioni” (Cfr: Engels, Il 1848 in Germania e in Francia).
35 Cosa del tutto diversa è la strategia, messa a punto negli anni ’50 di questo secolo, delle cosiddette “vie nazionali al socialismo” (del resto ormai storicamente sconfitta): si noti come Marx ed Engels pongano l’accento sulla forma e sull’inizio.
36 In quanto i comunisti e il loro partito sono parte integrante, non separata, della classe, la parte organizzata perché più cosciente e organizzata.
37 Nelle traduzioni francese ed inglese particolari è sostituito da settari.
38 Dunque: è nella teoria il tratto distintivo dei comunisti, lì è il loro vantaggio. Abbandonarla ingruppandosi tra i pragmatici vuol dire rinunciare alla propria identità.
39 “Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realta dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. (Cfr. Marx-Engels, L’ideologia tedesca). E ancora: “… l’umanità non si propone mai se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione… I rapporti di produzione borghesi sono l’ultima forma antagonistica del progresso di produzione sociale… Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana” (Cfr.: Marx, Prefazione a Per la critica dell’economia politica) .
40 Per proprietà si intende proprietà dei mezzi di produzione. Qualora l’operaio fosse proprietario dei mezzi di produzione non venderebbe la sua forza-lavoro, ma i prodotti del suo lavoro (come il contadino, come l’artigiano): quindi il capitale, il rapporto capitalistico di produzione, la proprietà capitalistica, si basano sul fatto che una gran parte della popolazione è sprovvista di proprietà.
41 “Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che la espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono tra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe … dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca… Ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia … a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro, per il solo fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell’intera società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi dominanti e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizioni di ascendere nella classe dominante…Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classe in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o “l’universale” come dominante” (Cfr.: Marx-Engels, L’ideologia tedesca). È chiaro immediatamente a tutti quanto sia attuale la questione al giorno d’oggi e quanto sia cresciuta d’importanza in questi centocinquant’anni: lo sviluppo impetuoso del movimento operaio ha accresciuto per la borghesia la necessità di imporre le proprie idee come idee dominanti, mentre lo sviluppo della tecnica, soprattutto quella relativa alle comunicazioni, ha accresciuto in numero e in efficacia i mezzi di produzione intellettuale di massa.
42 Lenin così sottolineò questo passo : “Vediamo qui formulata una delle più notevoli e importanti idee del marxismo a proposito dello Stato, l’idea della “dittatura del proletariato” (espressione che Marx ed Engels cominciarono ad usare dopo la Comune di Parigi)”. (Lenin, Stato e Rivoluzione). In realtà Marx già nel 1850, in Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, parla di “dittatura della classe operaia” e di “dittatura di classe del proletariato”, e – infine – usa l’espressione “dittatura del proletariato” in una famosa lettera a Weydmeyer del 5 marzo 1852.
43 La classe lavoratrice sostituirà, nel corso del suo sviluppo, all’antica società civile, una associazione che escluderà le classi e il loro antagonismo, e non vi sarà più potere politico propriamente detto, poiché il potere politico è precisamente il riassunto ufficiale dell’antagonismo delle classi nella società civile” (Cfr.: Marx, Miseria della filosofia). Per un maggiore approfondimento, cfr. Marx, Critica del programma di Gotha ed il V capitolo di Stato e rivoluzione di Lenin.
44 Nel luglio 1830 la rivoluzione di Parigi portò alla caduta di Carlo III° di Borbone, rappresentante della grande proprietà terriera, re per diritto divino, e all’ascesa al trono di Luigi Filippo, re per volontà dei francesi, rappresentante della grande borghesia finanziaria.
45 La riforma elettorale inglese, seguita nell’aprile 1832 agli avvenimenti di Francia, spezzò il dominio dei Tories, esponenti della grande aristocrazia latifondista, favorendo l’ingressi in parlamento della borghesia commerciale e industriale, rappresentata dal liberals. Nel 1835 furono, infine, rese elettive le municipalità con l’abolizione del limite di censo.
46 I Legittimisti, sostenitori della dinastia dei Borboni, caduta nel 1830, erano i difensori degli interessi della grande proprietà terriera ereditaria. Nella lotta contro la dinastia regnante degli Orleans, che si appoggiavano sull’aristocrazia finanziaria e sulla grande borghesia, alcuni legittimisti ricorsero spesso alla demagogia sociale, dicendosi di assumere la difesa dei lavoratori contro gli sfruttari borghesi.
47 La Giovane Inghilterra, gruppo di politici e letterati inglesi appartenenti al Partito Tory, formata agli inizi degli anni 40 del XIX secolo. Esprimeva il malcontento dell’aristocrazia fondiaria contro l’aumento della potenza economica e politica della borghesia. Gli uomini d’azione della Giovane Inghilterra facevano della demagogia allo scopo di sottoporre alla loro influenza la classe operaia ed utilizzarla nella loro lotta contro la borghesia.
48 Jean Charles Léonard Simonde de Sismondi (1773-1842), economista svizzero, svolse una critica piccolo-borghese del capitalismo.
49 Per un approfondimento cfr: Marx-Engels, L’ideologia tedesca.
50 Allusione a Kant.
51 Vedi nota n.15.
52 Pierre Joseph Proudhon (1809-1865), sociologo ed economista francese, ideologo della piccola borghesia e rappresentante del “socialismo borghese”. Alle sue tesi si riferì spesso la teoria anarchica. Sua la famosa affermazione secondo cui “la proprietà è il furto”.
53 Straordinaria è l’attualità di questo capoverso.
54 François-Noël Babeuf detto Graccus (1760-1797), grande rivoluzionario francese, eminente rappresentante del comunismo egualitario. Durante la Rivoluzione francese del 1789 fonda e dirige il giornale Il tribuno del popolo. Dopo un primo arresto è organizzatore e animatore della “congiura degli Uguali”, per cui la rivoluzione francese avrebbe dovuto costituire una società comunista abolendo la proprietà privata.Costretto all’illegalità, arrestato nuovamente, è fatto giustiziare il 28 maggio 1797.
55 Henri Claude de Rouvroy conte di Saint-Simon (1780-1825), il più grande dei socialisti utopisti, profeta dell’industrialismo, dedicò tutta la vita a progetti di riorganizzazione economica e sociale.
56 Charles Fourier (1772-1837), socialista utopista francese, cui si debbono le critiche più radicali della società uscita dalla Rivoluzione Francese. Progettò colonie comuniste come unità economiche indipendenti.
57 Robert Owen (1771-1858), industriale inglese, socialista utopista. Nel 1800 acquistò e trasformò una filanda a New Lamark, in Scozia, portandovi innovazioni rivoluziuonarie, tra cui la riduzione del tempo di lavoro, miglioramenti salariali e igienici, previdenza per malattie e vecchiaia, comitati operai consultivi. Contribuì attivamente alla formazione delle organizzazioni operaie e consumò tutto il proprio patrimonio nel tentativo di realizzare comunità comuniste. Sul socialismo utopistico, e sulla sua funzione cfr. Engels, Antidühring.
58 Cartismo, movimento politico-sociale inglese, così chiamato dalla “Carta del popolo”, che nel 1838 avanzava sei rivendicazioni: suffragio universale, elezioni parlamentari annuali, scrutinio segreto, revisione delle circoscrizioni elettorali, abolizione del censo per i candidati alle elezioni, indennità parlamentare. Il movimento fu attivo fino al 1848 quando cominciò a declinare.La sua importanza sulla storia politica dell’Inghilterra e sull’evoluzione del movimento operaio mondiale furono notevolissime.
59 Allusione ai sostenitori del giornale La Riforma che preconizzavano l’instaurazione della repubblica e l’attuazione di riforme democratiche e sociali.