di Gianni Barbacetto
Roberto Maroni ormai fa l’avvocato. Ma continua a pensare alla politica: “Serve un nuovo partito del Nord, che affianchi la Lega nazionalista”, ha detto a Repubblica. “I ceti produttivi, presenti soprattutto al Nord, hanno bisogno di una rappresentanza particolare, fatta di concretezza e coraggio”. “Si può essere sovranisti e insieme autonomisti; e oggi quest’area non ha un reale interlocutore”.
È il Partito del pil che chiama. “Sì, è l’Italia degli 8 mila comuni e delle diversità che ne ha bisogno”. È l’annuncio della nascita di una nuova forza politica? Chi lo conosce bene risponde di no: Maroni getta pietre nello stagno, scrive libri (Il rito ambrosiano, Rizzoli), si diverte a prefigurare scenari. Per vedere l’effetto che fa. Ma da osservatore distaccato e sornione. Non ha un esercito pronto a muoversi e neanche degli sherpa a caccia di alleanze e contatti.
Osserva però il disagio di una parte del mondo leghista lombardo-veneto che mal digerisce l’alleanza con i Cinquestelle, non sopporta il reddito di cittadinanza, vorrebbe Tav e grandi opere a dosi massicce, punta sull’Autonomia per trattenere le tasse al Nord. Lo slogan con cui è eletto presidente della Lombardia, nel 2013, è proprio: “Prima il Nord”.
Mette a riposo Umberto Bossi travolto dallo scandalo, poi lascia la carica di segretario federale a Matteo Salvini (“Vidi in lui il successore ideale”, dice oggi). Ma Salvini ha capovolto il partito, lo ha reso nazionale e sovranista e ha ribaltato il suo slogan in “Prima gli italiani”. Ora, i nordisti che sognavano la secessione della Padania saranno anche un po’ scossi dalle novità, ma non si sognano certo di lasciare un partito che non è mai stato così forte e così in crescita.
Semmai è Silvio Berlusconi che è in declino ed eternamente senza delfino. Maroni, dal suo osservatorio distaccato, può però permettersi di ritagliarsi un ruolo critico e di dare voce a chi vorrebbe mollare i Cinquestelle e tornare con Silvio.
Già nel 2018, quando non si era ricandidato alla guida della Lombardia pur avendo la vittoria assicurata, aveva ipotizzato uno scenario in cui a Milano aveva tutto da perdere, a Roma tutto da vincere. A Milano aveva in corso un processo che, in caso di condanna anche solo in primo grado, lo avrebbe costretto a lasciare la poltrona di governatore a causa della legge Severino.
A Roma, invece, aveva la speranza che alle elezioni del 2018 il centrodestra vincesse abbastanza e avesse bisogno di un uomo di collegamento capace di tenere insieme Salvini e Berlusconi. O magari, chissà, che facesse da ponte tra Silvio e l’altro Matteo, Renzi. Bobo poteva essere nel peggiore dei casi un ministro importante, nel migliore il presidente del Consiglio.
Invece le cose gli sono andate tutte storte: la Lega di Salvini ha vinto troppo, Forza Italia ha perso troppo, per Renzi un disastro, per i Cinquestelle un trionfo. Bobo si è rifugiato nello studio del suo avvocato, Domenico Aiello. Quello che lo ha difeso così bene, nel processo in cui rischiava di decadere da governatur, che lo ha fatto assolvere dall’imputazione più grave (“induzione indebita”).
Condannato, sì, per l’altra imputazione (“turbata libertà del procedimento di scelta del contraente”), per aver fatto avere un incarico regionale a una sua collaboratrice di quand’era ministro dell’Interno. Ma con una piccola pena (1 anno, sospesa) che non gli avrebbe fatto perdere la presidenza della Lombardia.
Roba da mangiarsi le mani: abbandonata Milano, non ha avuto niente a Roma. Ormai a Palazzo Lombardia c’è Attilio Fontana, che si gode al suo posto, insieme al presidente del Veneto Luca Zaia, il successo per la sua ultima vittoria, quella sull’Autonomia. È andata così. Bobo non si cruccia, va in vacanza, fa cose, vede gente, osserva i partiti e si tiene pronto. La politica ormai cambia in fretta. Non si sa mai.
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