di Gianni Barbacetto
Aveva la vittoria già in tasca, Roberto Maroni, ma ha deciso di non ricandidarsi a presidente della Lombardia. Esclusi, con qualche scongiuro, i motivi di salute (“A parte il raffreddore sto bene”), per il gran rifiuto restano i “motivi personali”, che sono incardinati tra Milano e Roma. A Milano c’è un processo che ha molto fatto soffrire il governatore leghista e che, in caso di condanna in primo grado, lo farebbero soffrire ancora di più. A Roma c’è la speranza del centrodestra di vincere le elezioni e della Lega di essere determinante per la formazione del governo, con Bobo pronto a fare il ministro, se non addirittura il presidente del Consiglio.
Come tramutare, dunque, un pericolo (a Milano) in un assalto al cielo (a Roma)? Salutando la compagnia verde-azzurra di Palazzo Lombardia, indicando il successore (l’ex sindaco di Varese Attilio Fontana) come fosse il granduca di Milano, e poi stando ad aspettare il 4 marzo. Per quella data, difficilmente sarebbe arrivata la sentenza che fa paura a Maroni. Ma nei mesi successivi sì. È imputato a Milano, con il pm Eugenio Fusco che gli contesta due reati. Il primo è “turbata libertà della scelta del contraente” per aver fatto assegnare una consulenza retribuita dalla società regionale Eupolis a una sua colloboratrice, Mara Carluccio.
Il secondo, “induzione indebita”, per aver fatto pressioni per portare un’altra sua collaboratrice, Maria Grazia Paturzo (“con cui era legato da una relazione affettiva”), in Giappone, a spese di Expo, nel maggio 2014. Un viaggio di rappresentanza che poi non fu fatto. Ma in questo caso una eventuale condanna a una pena superiore ai 2 anni farebbe scattare la legge Severino, che impone la decadenza di un amministratore pubblico condannato anche solo in primo grado. Maroni, se fosse stato rieletto presidente della Regione – come prevedevano tutti i sondaggi – avrebbe dovuto abbandonare la poltrona.
Ora il processo prosegue, prossime udienze l’11 e il 25 gennaio, poi l’8 e il 22 febbraio. Comunque vada a finire, gli effetti della Severino sono azzerati. Perché la decadenza dopo la condanna in primo grado riguarda soltanto gli amministratori eletti nei Comuni e nelle Regioni, non i parlamentari, che decadono solo al termine dei tre gradi di giudizio, quando la condanna diventa definitiva in Cassazione. Bobo è dunque al sicuro per qualche anno, nel caso volesse entrare alla Camera o al Senato. “Non mi ricandido alla Regione, ma resto a disposizione del partito”, ha dichiarato quasi commosso alla conferenza stampa d’addio in Regione.
“Con la politica ho una lunga storia d’amore fatta di passione, di sfide, di successi”, fin dai tempi eroici della Lega degli inizi, “al fianco di Umberto Bossi”, scandisce. “Come tutte le vere storie d’amore, che non finiscono mai, anche questa mia storia rimane, fa parte di me”. E potrebbe riportarlo al governo. Maroni infatti è un leghista-cerniera: potrebbe fare il ministro di una maggioranza Berlusconi-Salvini-Meloni, ma non solo. In fondo Bobo, che si presenta in pubblico come uomo delle istituzioni, in giacca e cravatta, senza le felpe e le ruspe di un Salvini, potrebbe entrare anche in un governo più “centrista”, con Silvio Berlusconi al centro di alleanze con chi ci sta, alla sua sinistra con pezzi di Pd renziano e alla sua destra con uomini della Lega non troppo marchiati dal “populismo” sovranista di Salvini.
Poiché il rinato capo di Forza Italia resta incandidabile a causa di quella stessa legge Severino che ora minaccia Bobo, un Maroni già due volte ministro dell’Interno e una volta del Lavoro potrebbe perfino essere indicato da Berlusconi come l’uomo giusto per formare un governo e conquistare Palazzo Chigi. Lui per ora nega tutto e annuncia solo: “Di certo non andrò in pensione”. Si dedica a celebrare i suoi successi come presidente lombardo. Magri, a guardar bene.
Non è riuscito a “de-ciellizzare” la Regione dopo il ventennio “celeste” di Roberto Formigoni. Ha varato una riforma della sanità che accresce il potere dei gruppi privati e scontenta perfino i medici a cui sottrae il rapporto diretto con i pazienti cronici. Ha proseguito il progetto di Matteo Renzi di affidare a Ibm, senza gara, i dati sanitari dei cittadini lombardi.
Ma lui sottolinea il risultato del referendum sull’autonomia del 22 ottobre scorso, “un successo storico, una sfida epocale”, che gli permette di “chiudere in bellezza con la sfida dell’autonomia, che sarà realizzata entro le elezioni”. Per la campagna elettorale, indica l’avversario nel Movimento 5 stelle: “Luigi Di Maio è la Raggi al cubo e credo che, se andasse al governo, il rischio per l’Italia sarebbe di finire come Spelacchio”. Una sfida tra candidati premier?
Attilio Fontana, il Pisapia della Lega
Il Pisapia della Lega è un avvocato gentile, per dieci anni sindaco di Varese, vera capitale del Carroccio. Ma è di certo più deciso e determinato dell’ex sindaco di Milano. Attilio Fontana, indicato da Roberto Maroni come suo successore alla guida della Regione Lombardia, è un leghista della prima ora. Era vicino a Umberto Bossi e Maroni già nel 1987, quando c’era ancora la Lega Lombarda, Davide davanti al Golia dei partiti della Prima Repubblica.
Ora che Maroni è uscito dalla partita, il suo avversario di centrosinistra, Giorgio Gori, festeggia sperando che con un candidato più debole aumentino le sue possibilità di vincere. Ma sbaglia chi sottovaluta Fontana. Non solo perché l’elettorato di centrodestra nelle province lombarde è consolidato e obbediente. Ma anche perché Fontana è un leghista che sa parlare ai non leghisti. Più che sventolare la cravatta verde, esibisce l’esperienza di amministratore: dal 1995 al 1999 sindaco di Induno Olona, poi dal 2006 al 2016 primo cittadino di Varese. In mezzo, sei anni da presidente del Consiglio regionale, dove ora l’amico Bobo lo vuole far tornare come presidente.
Matteo Salvini, segretario del partito, non può che dirsi contento della candidatura di Fontana, che pure non è un suo uomo: “Ha fatto per 10 anni il sindaco di Varese, è stato presidente dei Comuni di tutta la Lombardia, è stato presidente del Consiglio regionale, è adatto per quel ruolo”. Ma mentre Salvini recita la parte del guastatore, del “populista” anti-partiti che raccoglie voti con la protesta, Fontana è (come Maroni) leghista di governo e di dialogo, tessitore di rapporti e di alleanze. Lo ha già fatto come presidente dell’Anci Lombardia, l’associazione dei Comuni lombardi, stringendo buone relazioni con i colleghi sindaci della sinistra. Nel 2011 ha rappresentato un’Anci in lotta contro il governo che toglie soldi ai Comuni: era il governo Berlusconi, con ministro dell’Economia Giulio Tremonti e la Lega in maggioranza. Il partito non aveva gradito e Fontana era stato costretto ad abbandonare la protesta e a lasciare la presidenza. “Mi sono trovato mio malgrado di fronte a un bivio”, racconta a cose fatte.
Nato a Varese 65 anni fa, figlio unico di padre medico e madre dentista, sceglie di fare l’avvocato. Gioca a golf, tifa per la squadra di basket della sua città, la amministra da sindaco risultando eletto al primo turno, senza bisogno di ballottaggio. Quando, dopo due mandati, non può più ricandidarsi, la capitale del leghismo è espugnata dal centrosinistra. Appena indicato dall’amico Bobo come suo successore in Regione, dapprima se la cava con una battuta (“Ah, il candidato sarei io? Avevo capito fosse Gregorio Fontana”, uomo di Forza Italia e berlusconiano di ferro). Poi ringrazia con un post su Facebook: “Carissimi amici! Grazie dei vostri calorosi messaggi di sostegno, apprezzamento e amicizia. Dopo il Consiglio Nazionale della Lega Lombarda ci sentiamo per fare due chiacchiere. Per il momento buona giornata a tutti e soprattutto, viva la nostra Lombardia!”. La mossa di Maroni di mettere Berlusconi davanti al fatto compiuto e al candidato già annunciato (e leghista) dovrà ora fare i conti con il capo di Forza Italia e con le ambizioni politiche di chi voleva diventare presidente della Regione più ricca d’Italia: Mariastella Gelmini.
Il Fatto quotidiano, 9 gennaio 2018