di Osvaldo Lamperti
Non è una novità se fra le questioni più rilevanti nel nostro secolo metto la “questione ambientale” e se, come comunista, ritengo di non essere un pericoloso “revisionista” pensando che essa non abbia ancora assunto un giusto peso nel pensiero marxista-leninista, essendo ritenuta, in generale, un’appendice secondaria della contraddizione tra capitale e lavoro nell’attuale società del capitalismo monopolistico globalizzato.
Del resto uno degli argomenti più utilizzati dai denigratori di Marx , di Engels e di Lenin, nel variegato mondo dei movimenti verdi ed ambientalisti, è proprio quello di aver trascurato o sottovalutato le problematiche ambientali, come dimostrerebbe l’esperienza della ex Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS).
In realtà l’ecologia, che come scienza si è sviluppata dopo C. Marx ed F. Engels, ha le sue radici profonde nella biologia, nella fisica, nella chimica e in generale, nelle scienze naturali che, insieme al capovolgimento della dialettica hegeliana, hanno fornito le basi teorico-scientifiche al pensiero sul “materialismo storico e sul socialismo-comunismo” dei due grandi rivoluzionari.
Il materialismo storico, rispondendo all’atteggiamento riduttivo della natura, considerata dal pensiero borghese-imprenditoriale come una cosa che esiste solo in funzione dell’utile umano, afferma che essa è un dato oggettivo entro il quale avvengono processi di rigenerazione e di evoluzione della materia, organica ed inorganica, indipendenti dall’uomo. Questi processi esistevano anche prima che l’uomo comparisse sulla terra; lo stesso uomo appartiene alla natura, è il suo prodotto più evoluto.
Per Marx, Engels e Lenin, la natura non è soltanto una realtà oggettiva indipendente dall’uomo, essa è pure un’oggettivazione, un prodotto dell’attività lavorativa umana: è sia un “immediato” che un “mediato”.
Nel pensiero di Marx appare già una concezione “proto-ecologica” della natura, che l’ecologia tradurrà poi nella distinzione tra “ecosistema naturale” ed “ecosistema antropico” (mix di elementi naturali ed artificiali costruito dall’uomo), dove il secondo si espande a spese del primo man mano che i rapporti sociali di produzione e consumo del capitalismo coinvolgono l’intero pianeta.
Naturalmente a Marx, impegnato in una critica demolitrice del capitalismo, fino a prevederne la sostituzione con la costruzione di una nuova società socialista-comunista, la natura interessa principalmente come un mediato, come prodotto del lavoro umano sociale, dove le sue risorse materiali sono utilizzate in maniera innaturale, in quanto ridotte a merci di scambio per un consumismo umano esclusivamente finalizzato al guadagno di una ristretta classe di capitalisti.
Se si legge “Il Capitale” e perfino i “Manoscritti economico-filosofici” del 1844 vediamo che Marx denuncia, in maniera chiara, l’impoverimento e la perdita di fertilità naturale della terra dovute all’uso invasivo dei concimi chimici nelle colture agricole e la crescita di condizioni ambientali patologiche di vita, sia nei luoghi di lavoro che fuori, per la concentrazione della classe operaia e di gran parte della popolazione nelle periferie di grandi centri urbani, invase dai fumi delle fabbriche, da acque fognarie a cielo aperto e da rifiuti maleodoranti.
La natura interessa invece ad Engels soprattutto come un immediato, e la spregiudicatezza senza limiti dell’uso che ne fa il capitalismo è ben presente nei suoi scritti.
Nella sua opera, “Dialettica della natura” scrive:
“Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa ma che noi le apparteniamo con carne e sangue e cervello e viviamo nel suo grembo: tutto il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato”.
In quest’altra frase, anch’essa ripresa dall’opera citata, Engels dice:
“Tutti i modi di produzioni fino ad oggi esistiti si sono sviluppati avendo di mira i risultati più prossimi, più immediati del lavoro. Le ulteriori conseguenze manifestatasi solo in un tempo successivo, operanti solo per graduale accumulazione e ripetizione rimanevano del tutto trascurate.”
Anche in queste citazioni troviamo dunque un’anticipazione sulla necessità di impiegare “i modi di produzione” in maniera compatibile con le leggi della natura, che la scienza ecologica tradurrà poi nel concetto di “sviluppo sostenibile”; leggi che vanno studiate, conosciute e rispettate per costruire una società umana capace di avere con la natura rapporti non conflittuali.
Per quel che riguarda il primo ventennio della Russia sovietica, possiamo dire che, sotto la guida di W. I. Lenin, le politiche ambientali, nonostante le guerre civili e la presenza di eserciti stranieri volti a stroncare la giovane repubblica proletaria e socialista, hanno avuto una enorme espansione e risultati straordinari.
Ad affermarlo è lo storico americano Douglas Robert Weiner, che ha potuto condurre studi e ricerche sui documenti degli archivi sovietici, da dove emerge che Lenin, coadiuvato da altri dirigenti comunisti ad esempio, Anatolij Vasilevic Lunaciarskij, Commissario del Popolo all’istruzione e Nikolaj Podiapolskij, agronomo del Commissariato del Popolo di Astrakan (città della regione del Volga), si dimostrò assai determinato sulla necessità di perseguire uno sviluppo economico in sintonia con la conservazione e la salvaguardia delle sue basi naturali.
Sempre secondo il Weiner, Lenin incentivò e favori, con grande consapevolezza e lungimiranza, gli studi ecologici, il dialogo tra il governo sovietico e gli studiosi ambientalisti, la nascita di un forte movimento conservativo della natura e dell’ambiente storico. Tutto questo sfociò in numerose realizzazioni concrete, grazie anche all’abolizione della proprietà privata della terra, che dava allo Stato dei Soviet la possibilità di gestire, controllare e pianificare l’uso del territorio non in funzione degli interessi di rendita dei proprietari fondiari, ma di tutta la collettività.
Purtroppo a partire dagli anni trenta l’idillio ecologico ed ambientalista con la pianificazione economica socialista iniziò a scemare con la frenetica corsa all’industrializzazione pesante dei primi piani quinquennali e la collettivizzazione forzata dell’agricoltura, impressa da Stalin, per superare, in poco tempo, il gap militare coi maggiori paesi del capitalismo occidentale e per garantire un’autosufficienza economica ed alimentare di base all’URSS.
Non posso fare a meno di ricordare infatti, che dopo la sconfitta di tutti i tentativi controrivoluzionari, compresi gli interventi militari stranieri dei paesi capitalistici, volti a distruggere nella culla la rivoluzione bolscevica, le maggiori nazioni imperialiste dell’Occidente cercarono di ottenere lo stesso risultato con l’isolamento economico e politico dell’Unione Sovietica dal resto del mondo.
Nemmeno si può dimenticare che subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’URSS, che si trovava davanti ad un vastissimo territorio distrutto e devastato dalle armate naziste e fasciste e a più di 22 milioni di morti, corse il serio pericolo di diventare, dopo il Giappone, la seconda vittima di un bombardamento atomico da parte degli Stati Uniti d’America, unico paese dotato di bombe nucleari (leggi il libro di Filippo Gaja, “Il secolo corto”, Maquis Editore, 1994 Milano).
Ciò costrinse l’URSS a ricostruire, ripristinare e superare, in pochi anni, i livelli di industrializzazione e di produttività agricola ante guerra, intraprendendo un’altra corsa contro il tempo per lo sviluppo dell’energia nucleare in grado di stabilire almeno la parità atomica con gli USA.
La competizione a tutto campo, soprattutto fra URSS e USA, che prosegui nei periodi della “guerra fredda” e della “coesistenza (falsamente) pacifica”, portò all’abbandono del rapporto aperto e collaborativo che Lenin aveva saputo istaurare tra marxismo, ecologismo ed ambientalismo.
Rispondendo ai vari movimenti verdi, ambientalisti e “decrescisti”, più o meno “felici”, dico quindi che non esiste nessuna incompatibilità tra marxismo-leninismo ed ecologismo. La politica leninista di eco-sviluppo è stata abbandonata, in quanto i gruppi dirigenti dell’URSS, anche dopo Stalin, hanno deciso di affrontare i problemi del paese derivati dal suo isolamento internazionale e dalla competizione col capitalismo occidentale, con una pianificazione economica burocraticamente centralizzata, fondata su una crescita quantitativa con obbiettivi imposti dall’alto alle realtà locali ignorando i loro caratteri specifici, ambientali e naturali, considerati come “errori della natura” da correggere. In fondo è dal perpetuarsi della visione borghese dell’uomo come padrone e dominatore della natura, anche in un paese fondamentalmente socialista, che sono derivati, come nell’Occidente capitalista, molti disastri ambientali fra i quali, senza entrare nel merito, cito solo due esempi: la distruzione del lago salato Aral, una volta uno dei più estesi e pescosi del pianeta, situato tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, ridotto ora a due pozze d’acqua inquinate e prive di vita; la grande tragedia nucleare d Chernobyl, che ancora oggi continua a mietere vittime umane.
Ritornando al capitalismo dei nostri giorni, dove accanto alla contraddizione tra capitale e lavoro esiste la contraddizione tra capitale e natura, l’esperienza sovietica ci dovrebbe insegnare che con la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e della terra si abolisce la prima contraddizione, ma non detto che con la prima si sciolga automaticamente al sole anche la seconda.
Del resto proprio Marx, Engels, Lenin, Gramsci e altri rivoluzionari e pensatori comunisti, hanno più volte ribadito che col socialismo vengono smantellati i rapporti sociali di produzione e consumo del capitalismo ma non la sua sovrastruttura ideologica, giuridica e culturale e religiosa che continua a sopravvivere, ancora per molto tempo, nelle abitudini e nel cervello delle persone, compresa l’erronea credenza borghese, che sta alla base del capitalismo, sull’uso economicistico, produttivistico ed utilitaristico, senza limiti, della natura da parte dell’uomo.
A tutti i credenti nella capacità del capitalismo di risolvere la questione ambientale dico quindi che è proprio il capitalismo la causa strutturale che ha fatto nascere e crescere, in maniera patologica, tale questione.
Il modello di sviluppo economico-sociale del capitalismo per sopravvivere, se da una parte aumenta lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo rendendo il lavoro flessibile e precario, fino alla disoccupazione, dall’altra cerca sempre di trasformare, senza limiti imposti da leggi fisiche, chimiche, biologiche ed ecologiche, una quantità crescente di materia, ridotta a merce come la forza-lavoro umana, da immettere sul mercato come prodotto finito in grado do assicurare, con la vendita, profitti, rendite ed interessi finanziari ai vari attori del capitalismo.
E’ proprio dalla completa sudditanza della forza-lavoro umana e della natura alle esigenze, senza limiti, di produttività, competitività e redditività dell’impresa privata, sia essa costituita dal singolo capitalista o dalla grande società monopolistica di capitali (nazionale, transnazionale o multinazionale), che sono nate le seguenti patologiche condizioni ambientali generali assai pericolose per la nostra vita e quella del pianeta:
l’alterazione del clima terrestre; la riduzione continua della biodiversità vegetale ed animale; la crescita dei livelli dei vari tipi d’inquinamento (aria, acqua, terra, amianto, elettromagnetismo, rumore); tendenze verso l’esaurimento di materiali e risorse naturali importanti; aumento dei rifiuti prodotti che la natura non riesce a metabolizzare; consumo del suolo per il continuo avanzamento della sua cementificazione; il dissesto idrogeologico di vasti territori.
Accanto ai verdi, agli ambientalisti e ai decrescisti abbiamo ecologisti di fama mondiale come Herman E. Daly, John Cobb junior, Jeremy Rifkin, Morin, Bateson e altri, che pur dando un contributo importante alla conoscenza dei rischi ambientali, salvano però il capitalismo come sistema proponendo soprattutto correttivi al consumismo “USA e getta”, come se esso non fosse essenziale alla sopravvivenza dello stesso capitalismo.
In realtà per andare verso una soluzione definitiva della questione ambientale occorre liberare la società umana, l’ambiente e la natura dal capitalismo, che va abbattuto, per costruire una nuova società, socialista-comunista, dove la terra e le attività economiche fondamentali – banche comprese – siano collettivizzate e gestite da uno Stato che sia completamente nelle mani della classe lavoratrice e dei suoi alleati.
Occorre però costruire all’interno dell’attuale società un movimento di massa che insieme all’abolizione della proprietà privata delle attività economiche fondamentali rivendichi un sistema di produzione e di consumo diverso da quello capitalista. Un sistema fondato da una parte sulla liberazione dell’umanità dai bisogni materiali e dall’altra, su processi produttivi e prodotti ecologicamente innovativi, compatibili coi cicli vitali di riproduzione della materia, che sono da salvaguardare e conservare anche per le future generazioni.
Si tratta insomma di creare, attraverso la ricerca scientifica, “tecnoecologie” produttive dove il lavoro dei “produttori” (così chiamati da Marx chi lavora in una società senza più divisione in classi sociali) sia indirizzato verso un “eco-sviluppo” in cui la crescita dei beni prodotti avvenga in piena armonia col risanamento grado dell’ambiente, l’aumento della sua naturalità e il rinsaldamento dei legami organici tra l’uomo e la natura.
Questo non vuol dire che i comunisti devono snobbare qualsiasi mobilitazione della popolazione tesa ad ottenere, all’interno dell’attuale società, miglioramenti parziali delle condizioni ambientali di vita nei luoghi di lavoro, di studio, nelle città e nei territori, se non si parla di socialismo-comunismo.
Anzi, è anche con la partecipazione dei comunisti e dei marxisti-leninisti alle lotte in difesa della natura, contro l’inquinamento e la degradazione dell’ambiente dove viviamo, che può crescere la consapevolezza della necessità di un “Fronte Unito dei Lavoratori” (operai/e, precari/e, disoccupati/e, casalinghe, pensionati/e, studenti/esse, professori/esse, intellettuali, autonomi e piccoli imprenditori, etc.) sotto un’unica bandiera con la scritta, “Uniti si Vince!”.
04/06/2014