di Gianni Barbacetto
C’è un forte odore di massoneria, nella vicenda di Matteo Messina Denaro. E non soltanto perché il suo medico, Alfonso Tumbarello, appartiene alla loggia Valle di Cusa – Giovanni di Gangi di Campobello di Mazara, del Grande Oriente d’Italia (dal quale è stato subito “sospeso a tempo indeterminato”). Sono prevedibilmente massoniche molte delle protezioni di cui ha goduto in trent’anni di latitanza. In Sicilia (il Trapanese è una delle zone a più alta densità massonica dell’isola) e negli altri luoghi dove si è nascosto, la Calabria (regione ad altissima presenza massonica), forse il Venezuela.
È una lunga storia, quella dei rapporti tra mafia e massoneria, che inizia con lo sbarco in Sicilia degli Alleati, i quali importano nell’isola la loro tradizione massonica, che nel dopoguerra si afferma in funzione anticomunista, grazie all’azione di uomini come il principe Gianfranco Alliata di Montereale, gran capo massone in rapporti con gli americani, con apparati dello Stato italiani, gruppi fascisti, boss mafiosi, sospettato di essere il mandante della prima strage politica italiana: quella di Portella della Ginestra (ne ha scritto Piera Amendola nel suo Padri e padrini delle logge invisibili).
Nella seconda metà degli anni Settanta, dopo un dibattito interno alle organizzazioni criminali, Cosa nostra e la ’ndrangheta decidono che i più alti esponenti delle famiglie mafiose divengano anche membri della massoneria. Poi la Gran Loggia Madre Camea (Centro Attività Massoniche Esoteriche Accettate) gestisce in Sicilia, in alleanza con uomini di Cosa nostra, il finto sequestro di Michele Sindona (P2). La Camea tenta l’unificazione di tutte le Obbedienze Massoniche di rito scozzese in Italia. Non raggiunge l’obiettivo e confluisce nella Serenissima Gran Loggia Nazionale Italiana degli Alam (Antichi Liberi Accettati Muratori), Comunione di Piazza del Gesù.
Negli anni Ottanta si scopre che proprio a Trapani il circolo culturale Scontrino nascondeva ben sette logge massoniche coperte (Iside, Iside 2, Hiram, Cafiero, Ciullo d’Alcamo, Osiride, C). Nei documenti raccolti dalla commissione parlamentare sulla loggia P2 – ricorda oggi Piera Amendola, che di quella commissione fu l’anima organizzatrice – ci sono le prove dell’esistenza di una cellula della Camea in Venezuela, il Paese in cui Teresa Principato, che da magistrato di Palermo diede la caccia a Messina Denaro fino al 2017, trovò tracce della sua presenza.
“Il rapporto storico tra Cosa nostra e le logge venezuelane è significativamente documentato”, sostiene Piera Amendola: nel processo a Giuseppe Mandalari, capo massone considerato “il commercialista di Totò Riina”, il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara raccontò che la massoneria venezuelana era per Cosa nostra “un riferimento strategico”. Tanto che negli anni Ottanta arrivò a Palermo il gran maestro della Gran Loggia di Venezuela, Luis German Pepper, in visita ufficiale alle logge coperte gestite da Mandalari.
Teresa Principato ha ricordato oggi che un collaboratore di giustizia massone le aveva parlato di una loggia coperta costituita proprio da Messina Denaro e chiamata “La Sicilia”. Il nome ricorda a Piera Amendola un’altra loggia, la “Sicilia normanna”, titolo con cui era conosciuta la famosa “Loggia dei 300” fondata da Stefano Bontate, capo dei capi di Cosa nostra prima di Riina, gemellata con la loggia P2 di Licio Gelli.
Giovanni Falcone, seguendo la pista di un traffico di droga, nel 1986 arrivò in via Roma 391, a Palermo, dove aveva sede la Gran Loggia d’Italia: negli elenchi degli iscritti trovò i nomi di professionisti, imprenditori, ma anche uomini di Cosa nostra. E si convinse che la massoneria, nelle sue logge riservate, funziona come luogo d’incontro tra poteri, quello economico, quello politico e quello mafioso. Il salotto di quella “borghesia mafiosa” che ormai da decenni è la vera forza di Cosa nostra.
20 gennaio 2023