di Saverio Lodato
Che razza di prete è un prete che non sembra essere al servizio di Dio ma piuttosto al servizio di quei servizi segreti sporchi che da sessant’anni infangano l’Italia e dai quali prende ordini? Che razza di prete è un prete che non collabora con la magistratura italiana che indaga sulla trattativa Stato Mafia e Mafia Stato adducendo pretesti al limite del provocatorio e alludendo, alludendo è dir poco, a entità segrete e superiori alle cui direttive si fa platealmente vanto di uniformare i suoi comportamenti? Che razza di meriti ha avuto questo prete per diventare negli anni una sorta di dominus dei cappellani sparsi per le carceri italiane? Che razza di servigi ha svolto e per conto di chi? E’ un prete o un prete sotto copertura? E’ un prete con il bavero rialzato e la barba finta e imbottito di microspie? Sono domande. Solo domande, non scaldiamoci troppo.
Certo che uno come monsignor Fabio Fabbri, ex vice ispettore dei generali delle carceri – è infatti a lui che ci riferiamo -, se non ci fosse stato bisognava inventarlo. Che poi si sia materializzato sul palcoscenico del processo di Palermo, che vede magistrati come Nino Di Matteo, Francesco Del Bene, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi, passeggiare su una graticola ardente, questo è perfettamente in linea con quel contesto che negli ultimi tre anni abbiamo imparato a conoscere. Non ci meraviglia né ci sorprende.
Questo processo, lo stesso che il già presidente Giorgio Napolitano vedeva come fumo nei suoi occhi considerandolo – chissà perché – un attacco blasfemo alla sua persona e un siluro alla carica da lui ricoperta per nove anni, e grazie a Dio i nove anni sono finiti, è stato sin dal principio la sentina dei peggiori vizi d’Italia, il contenitore dei compromessi più oscuri, più inconfessabili, più laidi, fra istituzioni colluse e stragisti alla riscossa, la camera orrida delle oscenità che doveva restare blindata. Per ciò Nino Di Matteo e gli altri camminano sulla graticola rovente, a differenza del prete che si muove disinvolto quando è chiamato a rispondere.
Ma cerchiamo di ricapitolare, per quei lettori che si fossero perduti lo show della sua deposizione a Palermo qualche giorno fa.
Ascoltate la relazione di Nino Di Matteo, letta in aula, che riassume i comportamenti del Prete di Dio in merito alla sua udienza: “Il religioso, reperito nella sua abitazione di Siena, spiegava che la prima citazione, quella notificata l’11 febbraio, era stata da lui inviata a un suo conoscente dei servizi di sicurezza attualmente in servizio a Napoli con cui si conosceva da molti anni. Tale persona lo aveva poi richiamato per riferirgli che aveva parlato con Palermo e che il processo non si sarebbe più fatto l’indomani”.
Ancora Di Matteo: “Tale persona lo richiamava e in quel contesto gli comunicava di lasciare stare in quanto il processo non si faceva, e che avrebbe provveduto tale persona a tutto”.
E ancora: “Il religioso diceva che egli era stato sempre protetto da questa persona sin dai tempi del delitto Moro e che i servizi lo avevano messo sotto osservazione sin dall’epoca, ragion per cui nacque questa conoscenza”.
Ascoltiamo adesso la viva voce del diretto interessato: “Sa, ieri era il primo giorno di Quaresima… Avevo la relazione della mia audizione alla commissione antimafia e pensavo che fosse sufficiente… L’agente cui mi rivolgevo? Lo conosco come “Gino”, con il nome di copertura. Lui mi ha detto di fare una memoria e mandarla a Palermo, al dottor Di Matteo. Io ho detto che non era possibile e mi sono ricordato della mia audizione alla Camera”.
Siccome il file del resoconto dell’audizione non si aprì per email – riprende il prete di Dio – “”Gino” mi disse di mandarlo a un suo amico, un attendente di Roma”. Mah!
E “Gino”, alla fine: “E’ meglio che tu ci vai e io ho ritenuto fosse il caso di andare, sia pure con grande sacrificio”.
Il tutto si riferisce, e lo diamo per scontato, al ruolo che ebbero i vertici della struttura dei “cappellani”, sia monsignor Fabbri, che il suo diretto superiore Cesare Curioni, nell’abolizione del carcere duro del 41 bis che Cosa Nostra considerava il fulcro del suo interesse alla Trattativa.
Ora, con tutto il rispetto per il pastore di anime, ci chiediamo: ma monsignor Fabbri ci è o ci fa? Sceglieva “tutori” e “attendenti dei tutori” per fare le sue mosse una volta chiamato a dare il suo contributo alla verità in un’aula di giustizia?
Obbedire alla sua coscienza di uomo di Dio non gli è passato per la testa?
E una parolina di troppo, alla fine gli è scappata. Questa: “A volte gli uomini di Chiesa non pagano…”. Ma abbiamo la sensazione che da quando è stato nominato Papa Francesco, le “guardie svizzere” stiano godendo di un buon momento di celebrità. La Chiesa, infatti, segue con molta attenzione il processo di Palermo. Né, d’altra parte, ci aspettiamo disinteresse da un “palermitano doc”, come il nuovo Capo dello Stato, Sergio Mattarella.
7 marzo 2015